La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 3 settembre 2015

Il rapporto tra lavoro e cooperazione

 
Intervista a Lanfranco Turci di Inchiesta
Inchiesta:
Il tema che vogliamo sviluppare riguarda in particolare il rapporto tra lavoro e Cooperazione. Specialmente nell’esperienza italiana (anche se non soltanto in questa) è stato determinante per lo sviluppo del movimento cooperativo, e per tutti gli intrecci con il movimento dei lavoratori, dalla fine dell’800 fino ad un certo punto del ’900. Dal tuo punto di vista e con l’esperienza che hai avuto dal 1987 al 1992 come presidente della Lega nazionale delle cooperative, come valuti i fatti degli ultimi mesi, dalla vicenda di Mafia Capitale a quelle successive?
Lanfranco Turci:
Non c’è dubbio che questi fatti sono un duro colpo per il mondo cooperativo. Soprattutto per la Lega, perché il movimento cooperativo della Lega è nato avendo come impronta storica, il legame con le Camere del lavoro, i sindacati e i partiti della sinistra. Si identifica con un nucleo di valori: la solidarietà, i lavoratori come protagonisti della creazione della stessa possibilità di vita e di sviluppo, l’emancipazione. La Lega si considera ancora erede di quella storia. Non c’è dubbio che i fatti che avete ricordato colpiscano duramente un’immagine, tanto è vero che le stesse cose quando avvengono in imprese di altro genere determinano meno scalpore nell’opinione pubblica di quello che si determina quando succedono in una cooperativa. Questa cosa dovrebbe far riflettere.

Al di là del colpo sull’immagine, dietro c’è una trasformazione che è cominciata da molti anni dentro al movimento cooperativo e che per varie ragioni, è andata in una direzione che lo allontana molto da queste origini che abbiamo ricordato. Lo allontana nel modo di essere, di concepirsi nella società, nel modo in cui è anche percepito nella società e credo che in questo ci sia un rapporto diretto con il cambiamento del sistema politico. Ho fatto la tesi di laurea sul periodo giolittiano e mi ricordo che studiavo proprio il cosìddetto modello di Reggio Emilia, il modello del socialismo prampoliniano dove stavano insieme il Municipio rosso, la Camera del Lavoro, le leghe e le cooperative.
Stiamo parlando di più di cento anni fa, ma ancora nel secondo dopoguerra, sotto l’egemonia del PCI e non più sotto l’egemonia dello PSI, il modello somigliava a quell’impostazione.
Ricordiamoci il discorso di Togliatti a Reggio Emilia nel 1946, in cui diceva che il PCI doveva assumere l’eredità di tutto il lascito riformista prampoliniano. Fece questo discorso a Reggio Emilia, non a caso. Quindi nel secondo dopoguerra, Camera del Lavoro, leghe sindacali, cooperative, Amministrazioni rosse fanno parte di un universo comune, in cui in un circolo più largo, sono da considerare anche le associazioni dell’Artigianato, l’Alleanza dei contadini e così via.
Tutto questo mondo si è dissolto in un processo progressivo. Non è stato un colpo improvviso o un terremoto, ma un processo molto lungo. Per le cooperative in particolare il dissolvimento del contesto in cui erano cresciute e del mondo che abbiamo ricordato ha comportato, secondo me, non la tentazione, ma un vero e proprio processo di perdita di un’identità particolare.
Quando io andai alla Lega delle cooperative, nel 1987, stava per finire il PCI. La fine è arrivata poco dopo, ma era già nell’aria questo processo. Era già chiaro che il PCI di allora, non reggeva. Mi ricordo che dissi che le cooperative stavano perdendo il socio di riferimento. Usai proprio questa espressione, che si ritrova anche nei documenti ufficiali e congressuali. Il socio di riferimento non era nell’accezione dell’azionista che prendeva le quote, ma nel senso che il PCI era in qualche modo un soggetto che garantiva un certo tipo di processo di crescita del movimento cooperativo. Era una sorta di tutore esterno. Questo finché le cooperative hanno mantenuto una dimensione non troppo grande nelle realtà territoriali. Quando le cose nelle cooperative non andavano, dove non riusciva ad arrivare la struttura sindacale, la cooperativa stessa o la Lega, in qualche modo arrivava la Federazione del PCI. Se c’era un presidente che andava un po’ via di testa, se c’era una cooperativa in cui si sentiva puzza di bruciato dove non arrivava il presidente o il direttore locale della Lega delle Cooperative in qualche modo arrivava il PCI. C’era un circuito di dibattito e discussioni, che consentiva di mantenere in questo alveo il movimento cooperativo. Questo è poi tutt’altra cosa dal discorso di quanto le cooperative aiutavano materialmente il PCI. Questo avveniva anche verso i socialisti e persino verso i repubblicani, che erano allora una piccola componente della Lega.
Questa identità politico e culturale, dissolvendosi, ha fatto anche scomparire gli argini dentro ai quali il movimento cooperativo poteva crescere, mantenendo una sua identità di impresa particolare, di rapporto mutualistico, del socio che veniva prima del profitto e del bilancio. Tutti valori che man mano si sono attenutati in alcuni casi fino a scomparire.
Inchiesta:
Possiamo dire che finisce il rapporto tra Movimento ed Impresa Cooperativa, che evidentemente non sono la stessa cosa. Un’impresa cooperativa che sta dentro un movimento è diversa da un’impresa cooperativa quando il movimento non esiste più. C’è stato un periodo in cui si è discusso del fatto che l’impresa cooperativa, in seguito alla dissoluzione del movimento, acquisiva indipendenza, autonomia. Ciò veniva visto con un certo sollievo rispetto alla situazione precedente.
Tu arrivi alla presidenza della Lega partecipando a questo dibattito e a questa discussione. Quali sono i risultati che nascono da questa discussione, quali sono le caratteristiche di questa autonomia dell’impresa?
Turci:
Sono arrivato proprio nel momento in cui questo tema aveva già preso piede. Un piccolo test: qualche anno prima si era affermato nella Lega e nelle singole cooperative, il contratto autonomo dei dirigenti. Con quel contratto, si staccavano significativamente dal salario medio dei soci lavoratori. Parliamo delle cooperative di lavoro, perché riguardo alle cooperative di consumo non c’è nemmeno il discorso del rapporto tra lavoratori soci e cooperativa in quanto tale. Si diceva, e con un certo fondamento: “Le nostre imprese devono stare sul mercato, le imprese capitalistiche, le imprese private hanno dei manager pagati in un certo modo. Se dobbiamo reggere questa concorrenza, bisogna che noi siamo in grado di portare i mananger delle imprese private nelle cooperative”. Qualche caso c’è stato ma non è che fosse una buona soluzione. Si diceva occorre che i nostri manager siano motivati a restare nell’impresa cooperativa, non solo per un fatto di identità ideale, di identità politica. Devo dire, riflettendo oggi, che nella mia esperienza cooperativa ho insistito su quelle che erano le parole d’ordine che trovai già in discussione. Fare sistema, cioè cercare di fare in modo che le imprese cooperative lavorassero con strategie congiunte evitando la guerra intestina che era già abbastanza evidente e che poi si è accentuata, purtroppo. Sono rimasto per cinque anni, quelli del cambiamento della vita interna delle imprese cooperative, che era già in atto in modo significativo e che si è accentuato successivamente. Quando dico cambiamento della vita interna parlo del distacco fra il management, i vertici delle cooperative, e la base sociale. Questo è un fenomeno che poi dilaga con l’ingrandimento delle cooperative, le fusioni e tutti i meccanismi che ci sono stati. Pensiamo alle grandi cooperative di produzione lavoro nel settore delle costruzioni ma anche alle grandi cooperative di servizi, la Manutencoop, o la Cir nella ristorazione. E’ chiaro che le dimensioni hanno reso ancora più evidente questo distacco fra la base sociale e i vertici. Questi elementi si sono accentuati nel corso degli anni e secondo me sono anche uno dei fattori che spiega l’indebolimento della tradizione ideale del movimento cooperativo. Ricordo che quando ero presidente della Lega, abbiamo avuto qualche discussione con quello che era allora il segretario della Cgil, Bruno Trentin.
Inchiesta:
C’era già stata anche la rottura a proposito della questione del referendum sulla scala mobile?
Turci:
Sì, c’era già stata la rottura che poi dopo ha continuato in altre scadenze significative in cui la Lega si avvicina progressivamente alle posizioni di Confindustria. Anche gli artigiani del Cna finiscono per fare quasi tutti un blocco comune nel mondo delle imprese contro il sindacato e contro la Cgil perché c’era anche la divisione tra la Cgil e gli altri sindacati. L’indebolimento del rapporto tra i vertici e la base, e quindi l’indebolimento della democrazia interna delle imprese cooperative, parallela alla loro dimensione crescente, e a quello che ho definito prima, il dissolvimento di quel contesto in cui erano cresciute, fa sì che le imprese cooperative oggi, in molti casi, fanno fatica a chiarire in cosa sono diverse dalle altre imprese. C’è un dato di diversità che non va mai dimenticato, il patrimonio indivisibile. Questo è un punto di forza che io anche nei momenti più critici nei confronti di certe situazione delle cooperative, ho sempre difeso come distintivo. Quando un socio o anche il presidente se ne va, il patrimonio indivisibile resta lì, se non è stato bruciato dalla crisi o da cattiva gestione. Resta lì ed è un capitale attorno a cui altri soci si impegnano, creano il loro lavoro e creano anche ulteriore accumulazione. Questo è un dato che non va perso di vista.
Però al di là di questo tratto distintivo di tipo proprietario, diciamo così, il fatto è che, nelle cooperative, più aumenta la dimensione e più si indebolisce il potere dei soci. Il socio diffuso è un socio che non ha la capacità di controllare il management. Se c’è una dialettica è più facile che si risolva dentro al management, attraverso conflitti magari non sempre evidenti, piuttosto che con una chiamata esplicita della base sociale, proponendo le diverse alternative che si stanno discutendo nel vertice. Questo è uno schema che vale per le grosse cooperative. Sono quelle che fanno notizia oggi, non sono le piccole dove invece magari vive ancora il rapporto mutualistico, il rapporto di stretta fiducia e di circolazione di idee fra i vertici e la base. Credo che in questo indebolimento ci sia anche un fattore che ha reso poi meno guardinghi i vertici delle imprese cooperative nei confronti delle tentazioni del mercato. In altri termini, prendiamo gli ultimi casi in cui le cooperative sono rimaste coinvolte in vicende tipo la CPL Concordia.In qualche modo si dice che il mercato è fatto così, se dobbiamo portare a casa il lavoro dobbiamo stare alle “regole del mercato”. Allora è un bel dilemma. Mi ricordo di qualche dirigente cooperativo che aveva detto in passato “mi domando se devo fare la figura del cretino andando a casa senza lavoro e quindi senza poter garantire la continuità ai miei soci o invece fare la figura dell’eroe portando il lavoro, ma sapendo quello che alle spalle ho dovuto combinare”. E’ una domanda difficile. E’ chiaro che la risposta va cercata anche in battaglie più generali sul funzionamento dei mercati, sulla trasparenza. Adesso c’è questa raccolta di firme della Cgil per la legge sugli appalti. Tuttavia io credo che il movimento cooperativo debba porsi una domanda e decidere: noi non partecipiamo al tavolo dove girano le tangenti. Piuttosto denunciamo, creiamo lo scandalo e vediamo di dare un contributo, sapendo però che l’altra faccia della medaglia è in una situazione economica come quella degli ultimi anni in cui tutte le occasioni di lavoro sono diminuite. Senza volerli giustificare, capisco il dilemma in cui molti dirigenti cooperativi si sono trovati.
Inchiesta:
Ti viene attribuita una frase pronunciata a proposito di una vicenda siciliana, di rapporti tra cooperative di produzione lavoro e imprese che erano considerate vicine alla Mafia. Avresti detto: “non possiamo fare l’analisi del sangue alle imprese”.
Turci:
No, non sono stato io, di questo proprio sono sicuro! Questa frase era di un dirigente del PCI regionale siciliano, che poi è stato molto attaccato ma era un dirigente molto autorevole. Era sua la frase, è stata detta quando io ero presidente della Lega. Quella frase provocò molta discussione anche dentro al PCI perché ovviamente c’era una dialettica fra i compagni. Non c’è dubbio che fosse una frase che alle imprese cooperative del Nord, in particolare emiliane, che andavano in Sicilia faceva anche comodo perché consentiva di non doversi porre tutte le volte la domanda per sapere chi avevano di fronte quando facevano alleanze per una gara.
Inchiesta:
Hai detto che si fa fatica per l’impresa cooperativa a qualificare in che cosa consiste la sua diversità rispetto all’impresa capitalistica. Allora tutta la discussione sulla democrazia, sui meccanismi di controllo, anche il richiamo ai valori se non poggia su un fondamento e su soggetti che siano in grado di esprimere e affermare questi valori resta un appello retorico.
Turci:
… uno sciacquarsi la bocca. Sì, sono d’accordo con voi! Il punto è questo: in sede di Lega negli ultimi anni sono state più volte ventilate ipotesi di regolamentazione della governance, per esempio fissando dei limiti al numero dei mandati del presidente. Ipotesi sempre rimaste bloccate. Allora diciamo come stanno le cose. L’apparato politico-sindacale della Lega (che poi in parte viene dall’impresa stessa) si è indebolito perfino numericamente. Ci sono poche persone e teniamo conto che per lo più quelle persone sono pagate con i contributi delle imprese. E’ un piccolo dettaglio da non dimenticare. Quelle misure, se le applicassero davvero, andrebbero a colpire i vertici delle grandi imprese che sono quelli più immobili e che durano nel tempo. Ho visto, nel caso della Concordia, che il nuovo presidente nazionale ha preso il coraggio a due mani e ha chiesto ai soci della cooperativa di azzerare il consiglio di amministrazione. Hanno fatto un consiglio tutto nuovo, dove addirittura hanno messo l’ex procuratore della Repubblica di Modena fra i garanti dell’impresa cooperativa. Una figura cioè di consigliere esterno, di cui si è sempre parlato come garante della correttezza. Badate che bisogna limitare le mitologie, perché anche le imprese capitalistiche hanno i consiglieri esterni, sia in Italia che in America. Sappiamo che il più delle volte semplicemente questo dipende dal gettone che il consigliere esterno prende dal management. Però si parlava da tempo di queste misure. Sicuramente questi ultimi casi accelereranno questi processi arrivando a determinare misure più drastiche e ad adottare regolamenti vincolanti, per esempio sul numero dei mandati. Vedo tuttavia che la difficoltà è enorme. Quando ero già uscito dalla Lega ed ero senatore durante uno dei governi Berlusconi, con Tremonti Ministro del Tesoro, si aggiornò la tassazione delle imprese cooperative. La tassazione attuale, che viene ricordata come tassazione di favore, non porta neanche più la famosa traccia dei favoritismi strappati dal PCI e dalla sinistra. Ma al di là di questo, in quella occasione c’era anche l’aggiornamento di alcune parti del Codice civile.
Io e alcuni compagni (allora c’erano i Ds) proponemmo un emendamento chiedendo che fosse inserita questa affermazione, che di norma nelle grandi cooperative gli statuti dovessero prevedere un limite massimo della permanenza dei vertici da rinnovare, salvo votazioni con quozienti molto alti dei soci. Dopo la consultazione fra le Centrali cooperative e Tremonti il testo definitivo della riforma del codice civile arrivò senza quella norma che avevamo proposto. Mi informai allora con i compagni della Lega e seppi che era avvenuta una pressione sulla Lega da parte delle grandi cooperative, e ciò riguardava anche le altre centrali cooperative, perché non fosse inserita quella norma. D’altro lato nelle cooperative di consumo abbiamo alcuni casi in cui veramente la permanenza immutata dei vertici ha raggiunto un numero di anni strepitoso. Nelle cooperative di consumo già di per sé la figura del socio è una figura quasi indefinibile. Mettici la permanenza all’infinito di molti dei manager di questa impresa. A questo punto dov’è la specificità dei manager delle imprese cooperative?
La specificità c’è se i manager delle imprese cooperative hanno un’ispirazione adeguata almeno di tipo consumieristico cioè di difesa della qualità del prodotto, di difesa assoluta dei consumatori.
Queste ispirazioni possono averle, se le hanno, ma di per sé non sono strettamente vincolate al fatto che quella è una cooperativa, moralmente dovrebbe essere così ma potrebbe essere qualunque. Impresa. Anche in questo caso il dato strutturale è che il patrimonio dell’impresa cooperativa comunque, anche quando se ne va il presidente, resta lì a disposizione. Il tratto oggi è distintivo delle imprese cooperative, quelle almeno non spurie perché poi non abbiamo aperto il capitolo delle cooperative spurie che sono un’altra figura che sta degradando enormemente l’immagine della cooperazione in Italia. Questo però non è colpa delle centrali delle cooperative ma nelle cooperative non spurie il dato strutturale di differenziazione è soprattutto questo, la indivisibilità del patrimonio che è quello poi non tassato, l’altra parte di utili è tassata come qualunque altro utile di impresa.
Inchiesta:
Si presenta un problema di cui non è davvero facile vedere una possibile soluzione. Lasciando stare l’impresa familiare, dove il capo della famiglia decide chi debba prendere la sua successione – in genere è uno della famiglia stessa – guardiamo all’impresa capitalistica che ha assunto la forma manageriale. Qui c’è qualcosa che ad un certo punto – non solo nel caso di fallimento dell’impresa – che fa sì che chi dirige l’impresa cambia, e non decide lui la successione. Soprattutto nelle grandi cooperative il meccanismo rischia di essere simile a quello della politica, e cioè la cooptazione. Questo è un handicap pesante, tanto più quando è scomparso quel controllo politico – positivo o negativo che fosse – che permetteva di equilibrare il rischio di trasmissione per cooptazione del comando nella cooperativa. Sono casi che attraversano un secolo. Attraversano anche il Fascismo, che fu abbastanza abile in questo. Come può essere affrontato questo problema nella grande cooperativa? In quella piccola forse è più semplice.
Turci:
Nelle società per azioni, a partire dalla media dimensione, c’è una dialettica tra azionisti e management, per cui ad un certo punto, se gli azionisti sono scontenti del manager, lo cambiano, lo pagano bene ma lo cambiano e ne prendono un altro, che può avere strategie del tutto diverse. Nelle imprese cooperative, soprattutto nelle grandi imprese cooperative, non si capisce chi svolga questa funzione. Abbiamo appena detto che i soci sono una figura debole e quell’elemento di bilanciamento di poteri fra esterno ed interno, tra ruolo della politica, ruolo della struttura sindacale e ruolo della cooperativa con il suo management è andato perduto. Al momento non si vede che cosa possa sostituirlo. Credo che il mondo cooperativo dovrebbe aprire un dibattito vero, non bloccato dalla preoccupazione di aprire un vaso di Pandora, perché tanto questi problemi sono tutti sul tappeto e non sono addebitabili a cattiveria di questo o quel gruppo dirigente. Se il mondo cooperativo vuole avere una prospettiva, deve aprire un dibattito a tutto campo anche con contributi esterni, da parte del sindacato (che è una struttura tra le poche che ha ancora una sua capacità di incidenza, un suo rapporto di massa) da parte della politica e della cultura.
In Italia, dentro alla sinistra, c’è un dibattito di ritorno sul mutualismo, alla luce della crisi, alla luce di esperienze come quelle della Grecia o di altri Paesi. Il mondo cooperativo, ai suoi vertici, dovrebbe avere il coraggio di farlo, sapendo anche di rischiare conseguenze negative da una parte della sua struttura intermedia. Sarebbe un segnale di coraggio e di innovazione. Le risposte non sono facili. Alla domanda che voi ponete non c’è una risposta oggi. Nemmeno io saprei da dove cominciare. Ho in mente che, forse, il sindacato, dentro alle cooperative più grandi dovrebbe assumere un ruolo più forte. E’ vero che teoricamente la maggior parte dei lavoratori di una cooperativa di lavoro sono soci, ma solo teoricamente. Quando andiamo a vedere le grandi imprese di servizi che sono articolate in 10-20-30 scatole societarie per cui sotto ci sono società per azioni, spesso anche con alleanze miste, lì probabilmente la maggior parte sono proprio dipendenti tout court. Ma al di là delle distinzioni fra socio lavoratore e dipendente tout court, credo che il sindacato, che fra l’altro periodicamente si interroga sulla cogestione in Italia, sulle forme di democrazia industriale, potrebbe dare una mano ad aprire questa discussione dentro alle imprese cooperative.
Inchiesta:
Il problema del sindacato è al suo interno. Il meccanismo della crescita attraverso cooptazione è totale nel sindacato. Guarda la vicenda Cgil-Fiom. La Fiom apre un problema che mette in discussione meccanismi che fanno sì che attraverso la cooptazione tutto funzioni su quella base. Questa è una complicazione rispetto a quello che tu dici.
Turci:
La cooptazione è uno dei meccanismi più consolidati nella storia. Non è che sia nato con la sinistra, o con la crisi della sinistra, del sindacato, della cooperazione. Il potere, salvo i momenti di rivoluzione, in genere, arriva per cooptazione. Nelle università, quello che chiamiamo il baronato è una cooptazione, che in parte ha delle giustificazioni. Non puoi eleggere per via democratica il professore universitario. Questo uso della parola cooptazione va fatto cum grano salis, cioè con una certa attenzione e qualificazione. Il sindacato ha i suoi meccanismi interni, però nei luoghi di lavoro ha la rappresentanza, dei lavoratori, dove ne è capace. In Italia si discute se il modello tedesco, ad esempio, possa funzionare, soprattutto nelle imprese dalle medie dimensioni in su. Si può tentare in alcune imprese cooperative di porre il problema di una dialettica, non solo di contrattare i salari, come è ovvio e giusto. Il salario nelle imprese cooperative deve essere almeno quello contrattuale.
Dove è possibile, dove l’impresa va bene, dato che ha meno problemi di utili in confronto all’impresa privata, può essere anche qualcosa di più. Nei meccanismi cooperativi esiste quello strumento che si chiama ristorno, che distribuisce una parte degli utili ai lavoratori e ai soci stessi.
Anche dal lato sindacale occorre aprire un problema: nella casa in cui per principio la codeterminazione non dovrebbe nemmeno essere messa in discussione, perché è la casa della partecipazione assoluta, il socio cooperativo è il proprietario delle imprese, il proprietario pro tempore, perché quando se ne va lascia le sue azioni a chi arriverà. Allora, occorre proporre, anche partendo dalla dialettica sindacale, forme di controllo e di codeterminazione. Potrebbe essere il modo per cui si attiva davvero la base sociale, che di per sé sarebbe la piena titolare della direzione delle imprese. Comunque non ci sono risposte facili, questo dobbiamo saperlo. Non basta nemmeno dire che facciamo le consultazioni. Il problema è anche che cosa viene messo in consultazione. Prendiamo un’impresa come la Cpl-Concordia. Conosciamo le difficoltà che ha in questo momento, sperando che alla fine tutto si dimostri infondato, augurandoci quindi che le persone che oggi sono sotto processo, incarcerate, alla fine si dimostrino innocenti. Può tuttavia essere posta una domanda di tipo strategico in un’assemblea di soci o almeno nel direttivo di un’impresa come quella: è opportuno o meno continuare a cercare di forzare, in certi mercati, sapendo in partenza che alcuni di quei mercati sono inquinati? E’ una domanda proprio di strategia, è come decidere in un’azienda automobilistica se continuare a produrre automobili con un livello di inquinamento 10 o un livello di inquinamento 3.
Inchiesta:
Tu dici: “quali sono le fasce di attività economica su cui alla cooperazione, per non perdere completamente una propria identità, conviene investire e intervenire in una prospettiva strategica, e quali invece non si prestano ad un intervento”. Facciamo un esempio, per chiarire. Si apre tutta la questione delle attività sociali. In che senso è un’occasione per la cooperazione e in che senso può diventare l’opposto? Un’occasione che copre l’abbandono dello Stato.
Turci:
Stavo dicendo un’altra cosa Stavo proprio pensando al caso della Cpl-Concordia, contro cui c’è l’accusa di avere avuto rapporti collusivi soprattutto in certe zone del mezzogiorno. La domanda sarebbe allora: “sapendo che in quelle zone, il rischio del condizionamento mafioso è quasi inevitabile, ci dobbiamo andare o non ci dobbiamo andare?”. Non si può discutere con i soci ogni mezz’ora. Però alcune scelte come queste, poste apertamente in un dibattito fra i soci o negli organismo intermedi, dovrebbero mettere l’impresa in condizione di essere meno tentata di assumersi certi rischi. Da questo punto di vista, la democrazia interna ci aiuterebbe anche per evitare la tentazione di passare per le strade più pericolose, pur di portare a casa la sera il pasto.
Ricordo che la CMB di Carpi, se ne parlava alla fine degli anni ’60, primi anni ’70, aveva avuto un’esperienza in Calabria e da quel momento non aveva più aperto un cantiere per tanti anni nel mezzogiorno. Intendiamoci, questo è un discorso persino anti meridionalistico, quasi un discorso leghista, però l’esperienza era stata tale che la CMB ha preferito astenersi da quei mercati, continuare a vedere ciò che aveva visto. Penso che, alla luce dell’esperienza di questi anni, da Tangentopoli in poi, un’impresa cooperativa dovrebbe piuttosto dichiarare pubblicamente ai soci: “Noi ci siamo ritirati da quella gara perché abbiamo sentito odore di bruciato”. So bene che anche decidendo questo ti assumi responsabilità pubbliche. Penso che le lezioni, in termini di ritorno negativo che il movimento cooperativo ha avuto dagli scandali che sono emersi, dovrebbero indurre a denunciare piuttosto che a partecipare. Dobbiamo però sapere che, in termini immediati, non solo non si acquisisce il lavoro, ma si corre anche il rischio, di prendere delle querele, se la denuncia non è documentata. Questo è un aspetto. L’altro è la democrazia interna che non ha soluzioni facili.
Inchiesta:
Da quanti soci è composta in realtà la struttura delle grandi imprese di produzione lavoro?
Turci:
Nelle cooperative classiche, più grandi, fino a pochi anni fa la grande maggioranza era composta da soci. C’è stato successivamente un processo di societarizzazione, cioè non è avvenuta una crescita del blocco centrale della cooperativa pura, ma di tante società satelliti collegate. Si tratta di lavoratori dipendenti e non di lavoratori soci. Storicamente, la grande maggioranza erano soci.
Inchiesta:
Si sono determinate situazioni, come quella della CMC, che ha una propria azienda in Cina. Naturalmente non sono soci, ma sono lavoratori dipendenti della CMC e anche in questo caso la riflessione si è fermata e ha seguito la tendenza dei tempi.
Turci:
L’azienda in Cina fai fatica a gestirla come cooperativa…
Inchiesta:
Alle aziende in Cina, ci pensa il Partito Comunista Cinese. Finché gli interessa, le lascia fare e quando non gli interessa più le fa chiudere. C’è una serie di problemi che la cooperazione ha incontrato man mano, trovandosi scoperta sul piano politico. Non ha potuto aggrapparsi, bene o male, all’ideale dichiarato dal partito che la controllava. Si è trovata quindi esposta a questi processi di globalizzazione, mondializzazione, modifica della forma impresa. L’impressione è che sia stata in qualche misura trascinata senza un ruolo, rispetto all’andamento di questi processi. Oltre alla questione del territorio, c’è anche un’altra questione. Essendo tradizionalmente impegnata sul piano edilizio, si è trovata all’interno di un processo di segmentazione estrema della forma impresa, che è stato un veicolo straordinario di penetrazione dell’illegalità. Quando in un territorio come Reggio Emilia, ci sono 7.000 imprese edili con 12.000 addetti, compreso l’imprenditore, non ci vuol molto a capire che tutto questo (visto il meccanismo clientelare degli appalti), si è trovato esposto ad una degenerazione.
Turci:
L’impresa cooperativa delle costruzioni ha seguito questa linea di societarizzazione. Se devi lavorare in un certo appalto in Lombardia, magari lì fai una società di scopo, anche con imprese locali, cooperative e non cooperative.Le imprese cooperative di servizi sono molto più societarizzate. Se studiassimo la struttura di Manutencoop, vedremmo una struttura complicatissima di società collegate e controllate. E’ chiaro che tutti questi meccanismi sono difficili da testire con una logica cooperativa, anche volendo. Per tornare a recuperare un’originalità cooperativa (anche se la storia non si ripete mai, non si può recuperare), penso però che occorrerebbe, in un tavolo ideale, una riflessione sul futuro della cooperazione. Occorre pensare anche a vincoli giuridici. Per esempio, prevedere un ricambio necessario e obbligatorio dei consiglieri ad ogni assemblea, quando si rinnovano gli organi societari. Prevedere un limite di durata dei vertici e applicarlo. Credo che siano tutti meccanismi che, da un lato possono essere impugnati in nome della libertà di impresa, perché nell’impresa privata, non vai certo a dire che devono mandare via Marchionne dopo tre anni.
Quelli lo cacciano via, se ne sono capaci, quando non fa più il loro interesse. L’impresa cooperativa sta scritta nella costituzione, è delineata in un certo modo, ha un regime di tassazione degli utili indivisibili giustificato dall’articolo 45. Puoi anche pensare, salvo un’elaborazione adeguata, a una normativa più specifica che abbia anche dei tratti vincolistici. Secondo me questa è una cosa da non escludere. Un presidente di una cooperativa direbbe che sono matto a pensare a una cosa del genere.
Devi tuttavia trovare delle specificità. Se queste specificità non le hai più in natura, come era naturale in una certa epoca storica, devi costruirle con meccanismi di ingegneria istituzionale e questo, secondo me, sarebbe un punto importante.
Avremmo bisogno di un’autorità esterna, che non può essere rappresentata dalle Centrali Cooperative, che non ne hanno la forza, l’autorevolezza e il potere. Un’entità esterna che certificasse i valori cooperativi applicati nell’impresa non che stabilisse un generico decalogo. Sto improvvisando idee, come, ad esempio, qualcosa che assomigli alla Consob per il potere di vigilanza che ha sulle società quotate. A me è venuta in mente una cosa ancora più impegnativa, per esempio l’Authority Anticorruzione, che è diventata un potere vero solo adesso. Siamo addirittura sul terreno della magistratura. Non puoi tuttavia pensare di costruire strutture ad hoc per l’impresa cooperativa, perché sembrerebbe di considerare per principio l’impresa cooperativa come un mostro, una cosa di per sé negativa. Come si fa la normativa anti mafia si dovrebbe fare la normativa anti cooperativa! Cadremmo in una valutazione totalmente impensabile. Tuttavia, ci vuole qualcosa che garantisca meglio la natura di ciò che viene definito cooperativo, a cominciare dal compito del Ministero del Lavoro. Parlavamo prima delle cooperative spurie che sono cresciute in un modo incredibile. Voi avete citato l’edilizia, ma nel settore delle carni, tutta una parte del lavoro in molti casi è gestita da apparati mafiosi.
Inchiesta:
A Reggio c’è stato un caso specifico che aveva la testa a Castelnuovo Rangone.
Turci:
Esatto, ci fu un morto in quel caso! Queste cooperative spurie contribuiscono in modo incredibile a delegittimare l’idea di cooperazione in Italia.
Inchiesta: Però vengono utilizzate anche da cooperative che risultano ufficiali.
Turci:
Prendiamo il dato in sé delle cooperative spurie. Non c’è assolutamente una vigilanza adeguata. Questa spetterebbe al Ministero del Lavoro, non alle centrali delle cooperative. Invece si sono moltiplicate in modo incredibile e sono fonte di lavoro nero, di schiavismo sotto il controllo mafioso. Apro adesso la cooperativa e fra sei mesi la chiudo, così ho fregato tutti. Questa sarebbe una cosa da mettere sotto tiro in un modo durissimo. Certo, le cooperative ufficiali dovrebbero evitare di avere rapporti con le cooperative spurie o più o meno spurie, perché non dimentichiamo che, in Emilia soprattutto ma anche in Lombardia, le lotte più dure nel settore della logistica sono state quelle dirette dai Cobas, non dai sindacati confederali e neanche dalla Cgil. Sono le lotte dei lavoratori immigrati della logistica, che lavorano per la Nokia, per Amazon, anche per le grandi Coop di distribuzione e consumo emiliane. Una delle vertenze più grosse è stata quella nel bolognese da parte di questi lavoratori immigrati contro le cooperative più o meno spurie che li gestivano che lavoravano per i magazzini delle centrali cooperative, della Granarolo sicuramente.
Queste probabilmente non erano neanche cooperative spurie a tutti gli effetti perché erano cooperative registrate, però con una gestione interna totalmente brutale che ha determinato la rivolta di questi lavoratori. Occorrerebbe mettere insieme parecchie cose che non si esprimono solo nel mondo cooperativo. Si manifestano, più in generale, nel mercato del lavoro, nel mercato degli appalti, nei meccanismi della spesa pubblica. Fateci caso, finora abbiamo parlato di scandali e degenerazione. Non parlo dell’abuso, cioè della permanenza nel tempo dei presidenti che non necessariamente sono legati a cooperative che hanno rapporti con la spesa pubblica. Pensiamo alla grande cooperativa di Roma coinvolta in Mafia Capitale. Era il gioiello, portata ad esempio di come la cooperazione sociale poteva riscattare gli ex detenuti e abbiamo visto che cosa era diventata. E lì cosa c’era di mezzo? Il rapporto con la spesa pubblica. Quindi da questo punto di vista dove c’è la spesa pubblica è più facile che si sviluppino meccanismi corruttivi.
Inchiesta:
Non so se possa bastare il fatto che le cose date in appalto non possano essere a loro volta subappaltate. Basterebbe una cosa chiara su questo, almeno per la spesa pubblica.
Turci:
Avresti già risolto buona parte delle cose. Questa faccenda di Mafia Capitale mi fa venire in mente un’altra considerazione a proposito dell’indebolimento della capacità delle Centrali Cooperative di svolgere almeno un minimo di vigilanza. E’ possibile che cresca un cancro come quello senza che almeno un po’ di odore di bruciato non ti arrivi al naso? Torniamo al punto, questi scandali delegittimano anche le sigle associative, non solo la singola impresa cooperativa che di volta in volta si trova nei pasticci. Ecco perché occorrerebbe un sussulto di riflessione su cosa può essere la cooperazione.
Inchiesta:
C’è un bel libro scritto da Giovanni Moro “Contro il no-profit”. E’ un libro in cui demistifica questa retorica del no-profit dietro, cui si nasconde non solo la cooperazione e dice di guardarci dentro perché dentro c’è di tutto.
Turci:
Sono convinto che tutta la retorica del terzo settore sia una retorica in gran parte bacata al suo interno perché accanto a dieci volontari veri hai dieci figure di lavoro in nero, lavoro sottopagato, cooperative fasulle. Qui arriva l’altro problema che voi accennavate. Non c’entra niente con i discorsi della degenerazione del mondo cooperativo o dell’autoritarismo di alcune cooperative. Si tratta del rapporto tra alcune cooperative sociali e i servizi pubblici. Questo è un problema delicatissimo perché da un lato, è naturale che le cooperative sociali, che organizzano lavoratori che cercano occupazione, si candidino a gestire servizi sociali, che siano scuole materne, asili nido o case di riposo. E’ anche vero però che facendo forza sull’idea delle cooperative sociali, del terzo settore, si dà una spinta, si cerca di legittimare la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
Questo è un gioco micidiale. Non sto dicendo che la responsabilità è in capo alle cooperative sociali perché, al di là del caso di Roma, le cooperative sociali in generale, sia come dimensioni che come modo di funzionamento, sono ancora vicine alla forma più classica della cooperazione. E’ chiaro tuttavia che se un Comune, invece di aprire una scuola materna regolare assumendo le insegnanti per dodici mesi all’anno con la tredicesima, con tutti i diritti al riposo e alle ferie, la affida alla cooperativa sociale che fa dei contratti a termine e quindi paga solo i mesi effettivamente lavorati (non tutti i contratti sono così ma in molti casi sono così) è evidente che alla fine il risultato è che hai un servizio meno qualificato. Se la gente la tratti male e non la paghi bene, lavora peggio. Hai quindi servizi meno qualificati e hai lavoratori più sfruttati perché alla fine quelle insegnanti della cooperativa sociale, sono più sfruttate, mentre quelle del servizio pubblico hanno condizioni più dignitose. E’ un bel conflitto questo. Il motore non è nelle cooperative sociali, è nella politica di attacco al welfare, nel liberismo economico. Questo lo sappiamo bene, ha a che fare con politiche macro economiche con dimensioni ampie, europee. E’ la ricaduta di un processo molecolare. Quando si trova la motivazione ideale, come il terzo settore, si nobilitano anche politiche che in realtà sono di degrado del welfare. Non per responsabilità degli operatori ma per le scelte che stanno a monte. Tornando al filo del nostro ragionamento, insisterei per provare a lanciare l’idea che si apra un dibattito pubblico senza sotterfugi, senza tatticismi, senza paura di disturbare il manovratore, sullo Stato e le prospettive della cooperazione. Una sinistra che non abbia più vicino, non dico di fianco, ma vicino, un mondo cooperativo, un mondo mutualistico, è una sinistra più povera.
Inchiesta:
Anche alla luce del problema, che sta riemergendo del mutualismo, prima che venga affondato nel pantano.
Turci:
Attenzione alla retorica sul mutualismo, perché corriamo il rischio di fare lo stesso discorso che abbiamo fatto prima con i servizi sociali. Non è che giustificandoci con la burocrazia del servizio sanitario nazionale, facciamo le piccole mutue ed è tutto più bello.Dentro alla sinistra qualche sciocchezza del genere sta girando. Ricordiamoci che, negli anni 70 l’attacco al complesso keynesiano e la fine dei “trenta gloriosi” è partito con l’attacco allo Stato, alla burocrazia, alla spersonalizzazione dei servizi. Un conto è se fai mutualismo perché ti hanno chiuso l’ospedale, ma finché è possibile, difendiamo gli ospedali e il servizio sanitario nazionale. Credo al mutualismo delle piccole cose, che non è la sanità integrativa. Se il servizio sanitario non copre le cure per i denti, se hai i soldi vai da un’assicurazione privata, collegata con mutue specializzate, che ti dà le prestazioni che non ricevi dal servizio sanitario. Non penso a questo. Penso più al mutualismo, nell’accezione dei beni comuni, delle piccole dimensioni, la dimensione comunitaria, che non è sostitutiva della dimensione di classe, sociale, della lotta politica. Sicuramente in una società che è sempre più presa dall’individualismo, dall’egoismo, dalle paure, il mutualismo in questa accezione (gestiamo insieme il piccolo parco, gestiamo insieme il parco dei bambini), può rappresentare la rinascita di uno spirito comunitario.
Inchiesta:
C’è una riflessione aperta anche in altri paesi. In Francia e in Germania c’è una tendenza ad aprirsi verso i sistemi mutualistici. In Inghilterra c’è un atteggiamento più diffidente.
Turci:
Ricordiamoci che la Big Society è lo slogan dell’attuale primo ministro inglese. Nel suo programma elettorale, la Big Society è contrapposta al Big State, al Big Governement. Decentriamo tutto…
C’è il rischio che dentro al mutualismo, se è male impostato, ci sia di peggio che nelle cooperative sociali. Leggevo l’altro giorno un pezzo su come dovrebbe cambiare il sindacato. L’autore diceva che dovrebbe tornare più sul modello storico delle Camere del Lavoro in confronto all’esperienza delle categorie. Un sindacato dovrebbe avere un ufficio in ogni territorio, per la gente che ha problemi da risolvere e non sa a chi chiedere. Questo è un lavoro che fanno in parte i patronati, ma solo in parte.
Inchiesta:
E’ un patrimonio che non viene usato come potrebbe essere usato, e cioè come un fattore di organizzazione politica e non solo come un servizio di assistenza. Non facciamoci travolgere dalla retorica che nasconde e giustifica il fatto che non si contratta più niente in fabbrica e nel territorio.
In fabbrica si accetta che i soldi li aumenti Marchionne, quando lo stabilisce lui.
Turci:
Dentro al discorso della Coalizione Sociale, ci starebbe anche lo spirito delle Camere del Lavoro, dove la gente va per raccogliere consigli e suggerimenti.
Inchiesta:
Ci sono alcune realtà, come la periferia romana, e anche altri luoghi in cui stanno facendo tentativi di questo tipo.
Turci:
Ho un amico economista che abita vicino ad un centro sociale. Tutte le domeniche va a pranzare al centro sociale. Poi fanno conferenze su vari temi. Queste sono cose preziose. Ricordiamoci cos’erano una volta le Case del Popolo. E’ vero che non c’era la televisione e non c’erano i media, però qualcosa del genere deve essere recuperato perché la chiusura individualistica è terribile. L’altra sera sono andato a cena con il figlio di un mio amico che è morto recentemente. Ho conosciuto la sua compagna, una giovane avvocatessa. Mi ha raccontato che lei è presidente della Banca delle ore. Ne ho sempre sentito parlare ma credevo fosse una di quelle trovate della letteratura sociologica che non era mai decollata. Mi ha raccontato che ci sono sessanta, settanta persone associate e si scambiano servizi. Ad esempio, c’è una vecchia sarta, lei può fare rammendi. Un altro sa fare altre cose. Danno un peso specifico alle ore dedicate, stanno insieme, fanno assemblee, è un modo di vivere in comunità.
Inchiesta:
Il problema è che la funzione delle Camere del lavoro a suo tempo, che non può essere contrapposta a quella delle categorie, era quella di riorganizzare, mettendole in un rapporto tra loro frammenti e frantumi che isolati non producevano massa politica, mentre insieme riuscivano ad essere un soggetto.

Fonti: Inchiesta a stampa, Inchiesta online

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