La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 3 settembre 2015

La Resistenza. Il plusvalore di un evento storico

di Claudio Vercelli
Per cele­brare la sua «resi­stenza» per­so­nale con­tro l’allora «editto bul­garo» – cor­reva l’anno 2002 e Sil­vio Ber­lu­sconi da Sofia aveva appena messo all’indice tre note firme della Rai – un gigio­ne­sco ed ego­cen­trico Michele San­toro cantò, in esor­dio della sua tra­smis­sione, alcune strofe di «Bella ciao». Fu uno stra­zio di note, di tona­lità e di ragioni ma l’escamotage dell’identificarsi con i motivi, non solo canori, della lotta di Libe­ra­zione parve fun­zio­nare. L’autobeatificazione, infatti, pagò. Ber­lu­sconi oggi sta die­tro le quinte della poli­tica, pur con­ti­nuando a mano­vrarne alcuni set­tori, men­tre San­toro con­ti­nua a reci­tare sul pal­co­sce­nico media­tico la sua par­ti­tura. Pari e patta. Quasi due facce della mede­sima meda­glia, ancor­ché di conio dif­fe­rente. Detto que­sto, qual è il vero nesso tra le abili com­par­sate pub­bli­che di un popu­li­sta tele­vi­sivo e una tra­iet­to­ria, quella com­piuta dalla memo­ria col­let­tiva della Resi­stenza, nelle sue mol­te­plici decli­na­zioni? Più pro­pria­mente, insieme ad un’identità esi­ste anche un’eredità della Resistenza?
Le domande sem­brano essere pleo­na­sti­che e reto­ri­che, al mede­simo momento. Poi­ché se per qual­cuno esi­ste una sovrae­spo­si­zione del discorso resi­sten­ziale, pie­gato alle esi­genze delle cir­co­stanze, peren­ne­mente sospeso tra elo­gio di sé, cele­bra­zione acri­tica e ritua­li­smo com­me­mo­ra­tivo, dall’altro, se di ere­dità si deve par­lare, allora è bene ricorre al plu­rale. Più sog­getti, infatti, ne hanno riven­di­cato il lascito. Lad­dove, tut­ta­via, alla plu­ra­lità non si accom­pa­gna il plu­ra­li­smo, trat­tan­dosi sem­mai della dif­fi­cile, a volte quasi impos­si­bile, coe­si­stenza di ver­sioni tra di loro con­flit­tuali, o comun­que com­pe­ti­tive, in sé irri­du­ci­bili a un deno­mi­na­tore uni­ta­rio così come ad un’unica sta­gione. Poi­ché quel feno­meno sto­rico, cul­tu­rale, sociale, mili­tare e poli­tico che chia­miamo per l’appunto «Resi­stenza» è non solo una com­plessa somma di sog­getti ed eventi, cir­co­stanze e pen­sieri, con­dotte e memo­rie, ma — pro­pria­mente — un campo di dure­voli contrapposizioni.
Diver­genti canoni comunicativi
Il fatto stesso che sia entrata a fare parte, cosa a molti sgra­dita, del rimando all’irrisolta que­stione dell’identità nazio­nale, ne indica la sua natura di ter­reno di con­tesa. Anche il suo inte­grale rifiuto, non solo per parte neo­fa­sci­sta, sta den­tro que­sta logica, quanto meno per para­dosso. Phi­lip Cooke, docente di sto­ria e cul­tura ita­liane all’Università di Strathclyde-Glasgow, già coau­tore di un inte­res­sante stu­dio, ingiu­sta­mente tra­scu­rato in Ita­lia, Euro­pean Resi­stance in the Second World War, si cimenta in uno sguardo dall’esterno, ancor­ché deci­sa­mente imme­de­si­mato, nelle nostre vicende. Il libro che recen­te­mente ha man­dato alle stampe non a caso titola su L’eredità della Resi­stenza (Viella, pp. 382, euro 27), lad­dove è soprat­tutto il sot­to­ti­tolo ad avere un valore espli­ca­tivo, riman­dando a «sto­ria, cul­tura, poli­ti­che dal dopo­guerra a oggi». Non è una sto­ria della Resi­stenza quella che ci offre bensì delle sue rie­la­bo­ra­zioni cul­tu­rali, poli­ti­che e civili dal dopo­guerra ad oggi. Obiet­tivo rag­giunto adot­tando cin­que ambiti pro­spet­tici, nei quali la sto­rio­gra­fia fa comun­que la parte da leone, pur con­fron­tan­dosi con altri canoni espres­sivi e comu­ni­ca­tivi: l’influenza della Resi­stenza ita­liana nell’evoluzione socio-culturale e poli­tica del nostro Paese; la natura e la qua­lità dei sog­getti che, nel corso del tempo, si sono inca­ri­cati di costruire una memo­ria resi­sten­ziale, tra­sfor­man­dola e tra­sfon­den­dola — per l’appunto — in iden­tità e, quindi, in ere­dità; il rap­porto, con­trad­dit­to­rio e comun­que irri­solto, tra la neces­sità di man­te­nere una nar­ra­zione pub­blica della Resi­stenza, incor­po­ran­dola all’interno del discorso poli­tico uffi­ciale, e la sua sog­get­ti­vità, intesa come insieme di espe­rienze con­crete, spesso non ricon­du­ci­bili ad una reto­rica del potere, ancor­ché da quest’ultima costan­te­mente lusin­gata; il tema, dive­nuto quasi da subito, con il 1945, un’ossessione per cer­tuni, della «ege­mo­nia» che i comu­ni­sti ita­liani avreb­bero eser­ci­tato sulla nar­ra­zione della lotta di Libe­ra­zione; i sot­tili, tenaci ma anche irri­solti rap­porti tra poli­ti­che della memo­ria e uso pub­blico della sto­ria, con iden­ti­fi­ca­zioni e mani­po­la­zioni, all’interno di un tes­suto cul­tu­rale ita­liano che in settant’anni è pro­fon­da­mente cam­biato, accom­pa­gnando sta­gioni diverse, in com­pe­ti­zione tra di loro.
Più in gene­rale l’intero volume di Cooke è attra­ver­sato dal pro­blema di fondo della memo­ria della Resi­stenza come eser­ci­zio di sup­plenza rispetto ad eti­che pub­bli­che e a logi­che di appar­te­nenza comune altri­menti difet­tanti. Qual­cosa che, a ben vedere, va ben oltre la que­stione stessa dell’antifascismo, quest’ultimo spesso ricon­dotto pre­va­len­te­mente, a torto o a ragione, all’esperienza della lotta di Libe­ra­zione. Da un lato l’arco di tempo che va dall’inizio del set­tem­bre del 1943 ai primi giorni di mag­gio del 1945 è non solo perio­diz­zante ma fon­da­tivo di dia­let­ti­che poli­ti­che e sociali che rom­pono com­ple­ta­mente sia con l’eredità fasci­sta che con lo stesso lascito liberale.
Non solo sol­le­va­zione morale
Nulla sarà più come prima, nean­che con i suc­ces­sivi ten­ta­tivi di nor­ma­liz­za­zione. All’interno di que­sto qua­dro va allora inqua­drato il com­plesso discorso che Clau­dio Pavone fa sulle «tre guerre», che sono alla radice dell’esperienza par­ti­giana, delle sue spe­ranze così come di molte delu­sioni e non poche vel­leità: la lotta patriot­tica, il con­fronto civile e il con­flitto sociale.
Non a caso la dirom­penza dell’agire resi­sten­ziale, inteso come frat­tura feconda, e che come tale non può essere ricon­dotto alle vec­chie cate­go­rie cul­tu­rali, men­tali e quindi poli­ti­che dello Stato uni­ta­rio, ne genera l’impossibilità del rias­sor­bi­mento den­tro una qual­che logica di con­ti­nuità con il pas­sato. I ten­ta­tivi di riman­dare il feno­meno resi­sten­ziale alla sua mera valenza bel­lica, o di «secondo Risor­gi­mento», si ritor­cono peral­tro con­tro coloro che li eser­ci­tano incau­ta­mente. La Resi­stenza deve molto alla lotta armata, ma ancora di più è tri­bu­ta­ria della rot­tura del mono­po­lio della forza, quando dalla vio­lenza degli Stati si tran­sita all’autodifesa dif­fusa da parte di civili e di mili­tari ricon­dot­tisi auto­no­ma­mente al ruolo di cit­ta­dini. Qui pre­do­mina in asso­luto il para­digma del ribelle, che nel rifiu­tare l’obbligo alla sud­di­tanza si costrui­sce una pro­pria legit­ti­mità. Con la variante che non si tratta più di colui che si fa giu­sti­zia da sé bensì di una figura che ha capa­cità di com­porre alleanze, pre­fi­gu­rando un ordine nuovo, a venire.
La straor­di­na­ria viva­cità resi­sten­ziale riposa in que­sto con­nu­bio tra ricorso indi­pen­dente, ma rego­lato, alla vio­lenza, lad­dove essa è comun­que dive­nuta da tempo moneta dif­fusa nelle rela­zioni sociali, e capa­cità auto­po­ie­tica, ovvero di rige­ne­ra­zione civile e morale par­tendo da sé. La qual cosa implica il dive­nire pro­ta­go­ni­sti del pro­prio pre­sente non all’interno di un ciclo vir­tuoso ma nel momento in cui molto, se non tutto, sem­bra essere crollato.
Il carat­tere di sol­le­va­zione morale è, d’altro canto, testi­mo­niato un po’ da tutti i pro­ta­go­ni­sti del tempo. Si trat­tava di rea­gire a quella miscela di dipen­denza, cini­smo, apa­tia e subal­ter­nità che era il vero tim­bro dei tempi cor­renti. Dall’altro lato, però, a fronte di que­sta acqui­si­zione di signi­fi­cato sus­si­ste a tutt’oggi un’aspettativa irri­solta, quella per cui la Resi­stenza avrebbe dovuto pro­durre un plu­sva­lore poli­tico capace di fon­dare dac­capo la nazione. L’infruttuosità di tale attesa sta nel fatto che, come atte­sta ripe­tu­ta­mente l’autore, la lotta di Libe­ra­zione si arti­cola invece come feno­meno stra­ti­fi­cato, com­po­sto di molti ele­menti, all’interno di quello che può essere defi­nito come un tri­plice qua­dro sto­rico e poli­tico: la pro­ble­ma­ti­cità del coin­vol­gi­mento dell’Italia, non solo di quella fasci­sta, in una guerra di con­qui­sta e di ster­mi­nio, tra­sfor­ma­tasi poi in un lace­rante, este­nuante e rovi­noso con­flitto interno, com­bat­tuto per due anni sul ter­ri­to­rio nazio­nale; la fasci­stiz­za­zione siste­ma­tica, ancor­ché incom­piuta, delle ammi­ni­stra­zioni pub­bli­che, di una parte delle isti­tu­zioni e della stessa col­let­ti­vità, quest’ultima sot­to­po­sta ad un pro­cesso di nazio­na­liz­za­zione e di mas­si­fi­ca­zione che avrebbe lasciato segni tan­gi­bili nel lungo periodo, anche a distanza di molto tempo dal defi­ni­tivo tra­monto del regime; la rige­ne­ra­zione di uno spa­zio pub­blico, quello della poli­tica, dove i par­titi di massa avreb­bero sup­plito all’intrinseca fra­gi­lità della demo­cra­zia italiana.
Cli­ché da combattere
Il reper­to­rio sto­rico, ovvero l’insieme degli eventi che dalla fine della guerra giun­gono ai giorni nostri, così come l’azione sto­rio­gra­fica, intesa nel suo essere rifles­sione cri­tica sul modo in cui il Paese si rac­conta in rap­porto alla rot­tura resi­sten­ziale, testi­mo­niano del valore sim­bo­lico che essa ha per tutti, scon­fitti com­presi. Ma pro­prio per que­sto, al mede­simo tempo, sto­ria e sto­rio­gra­fia indi­cano come per sua intrin­seca natura la Resi­stenza non possa costi­tuire l’elemento di coa­gulo tra iden­tità e sog­getti la cui ragione d’esistere si pone nella diver­sità com­pe­ti­tiva, non nella con­ver­genza pro­spet­tica. Da ciò deriva anche l’inconsistenza, a tratti quasi truf­fal­dina, comun­que mani­po­la­to­ria, dei rimandi ad una pre­sunta «vul­gata» domi­nante, al «mito della Resi­stenza» come fal­si­fi­ca­zione deli­be­rata, al «para­digma anti­fa­sci­sta» come ad un obbligo impo­sto, per arri­vare alle rilet­ture capo­volte di un Giam­paolo Pansa. Sono cli­ché molto dif­fusi, che Cooke con­tro­batte ripe­tu­ta­mente. Non per resti­tuirci una linea­rità che egli stesso iden­ti­fica come priva di fon­da­mento ma per dare sem­mai corpo alla discon­ti­nuità di cui la lotta per la Libe­ra­zione rimane deposito.
I sei­cento e più giorni della Resi­stenza hanno infatti messo in luce pro­prio que­sto: di con­tro alle let­ture acquie­scenti, paci­fi­ca­to­rie, quie­ti­sti­che, com­pro­mis­so­rie, che si sono impo­ste nelle diverse sta­gioni poli­ti­che della Repub­blica, si con­trap­pone ad esse un noc­ciolo, quello del con­flitto, mate­riale e sim­bo­lico, tra inte­ressi con­trap­po­sti, il quale ricom­pone lo spa­zio poli­tico, dan­do­gli una sostanza che lo sot­trae alle ege­mo­nie delle vec­chie élite. Poi­ché la lotta di Libe­ra­zione ha por­tato alla luce, una volta per sem­pre, anche al di là delle mede­sime reto­ri­che apo­lo­ge­ti­che, il fatto che demo­cra­zia si dà lad­dove c’è poli­tica e poli­tica è, per defi­ni­zione, lo spa­zio delle rela­zioni con­flit­tuali. Nel modo in cui si per­viene a media­zione di esse si gioca la natura e il senso di ciò che chia­miamo libertà.

Fonte: Il manifesto

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