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di Paolo Ercolani
Gli studi umanistici non servono a nulla.
O sei ricco di famiglia, oppure devi sapere che scegliere di studiare all’Università filosofia, lettere, storia, storia dell’arte, sociologia e inutilità simili, equivale al tuo suicidio professionale e quindi sociale.
A sostenerlo, alimentando una sapiente polemica agostana, è stato il vicedirettore de «Il Fatto quotidiano» Stefano Feltri.
Suffragando tale affermazione con uno studio del Ceps di Bruxelles, in cui si dimostra, numeri alla mano e con riferimento specifico all’Italia, che il tasso di occupazione di coloro che escono dagli studi universitari crolla pesantemente tanto più quegli stessi studi hanno avuto a che fare con le discipline umanistiche.
Stefano Feltri ha ragione. O meglio, i numeri e quindi la realtà fattuale gli danno ragione.
A nulla serve scagliarsi contro di lui, come pur molti si sono sentiti di fare, magari tirando in ballo i costosissimi studi alla Bocconi che il signore ha potuto permettersi grazie al supporto della famiglia.
Si è trattato di una critica sciocca, che per una proprietà transitiva tutt’altro che necessaria, ha condotto il diretto interessato a una replica altrettanto sciocca e miope.
La sua famiglia, questa la reazione di Feltri, ha compiuto dei sacrifici per permettersi la retta del prestigioso Ateneo privato. Circa cinquantamila euro netti di sola retta. Escludendo vitto, alloggio, libri e quant’altro.
Non credo che la sua famiglia abbia dovuto sacrificare, che so, un pasto settimanale, una qualche cura medica o in generale beni di prima necessità. Tenendo conto che molti, magari assai meritevoli, devono sacrificare la stessa prospettiva degli studi universitari per mancanza di appoggi famigliari.
Va bene. Alla sciocchezza classista dei suoi detrattori, il giovane vicedirettore non ha saputo far meglio che replicare utilizzando la stessa arma miserevole.
Con l’aggravante che lui fa parte di quella ristretta porzione di persone il cui lavoro rende molto e bene, per cui un po’ di cautela in più sarebbe stata opportuna, oltre che gradita. Specie da un giornalista che, in quanto tale, gode di uno spazio pubblico inevitabilmente privilegiato.
Senza contare che, a essere onesti, bisognerebbe chiedersi con quanto merito anche da parte dell’illustre e privilegiato mondo accademico che il Feltri ha potuto permettersi di frequentare per anni.
Ma sorvoliamo sull’accaduto e concentriamoci sul presente.
Feltri ha ragione. Il dato di fatto (i laureati in materie umanistiche hanno scarse possibilità di trovare lavoro) giustifica il suo giudizio di fatto.
È un giornalista, come tale è deputato a fornire informazioni, e ha deciso di divulgare tale notizia supportandola con la citazione di uno studio europeo.
Ma ha commesso un errore sostanziale. Trasformando un giudizio di fatto (oggettivo) in un giudizio di valore (soggettivo). Feltri, poco avvezzo agli studi umanistici, mi perdonerà la sottigliezza di derivazione weberiana, anche perché adesso cerco di spiegarmi più chiaramente.
SUPERFICIALITÀ
Constatare che gli studi umanistici non favoriscono l’ingresso nel mercato del lavoro (dato oggettivo), per poi reagire a questo dato suggerendo e persino intimando ai giovani di scegliere la facoltà che vogliono (purché sappiano a cosa vanno incontro – dato soggettivo), è altrettanto miope che constatare i danni dell’emigrazione di massa (con impossibilità di accoglienza per tutti da parte dei paesi benestanti), e non trovare niente di meglio da fare che prendersela con quei disperati la cui colpa è tentare di sfuggire a una vita di miseria e umiliazione o addirittura alla morte.
Non sto a discutere se un compito simile può essere richiesto a un giornalista, ma di certo gli studi umanistici, fra le altre cose, insegnano ad ampliare lo sguardo, fino a porsi una domanda che va ben oltre il dato immediato e oggettivo: perché accade una cosa? Quali sono le origini di un fenomeno storico e sociale? A chi conviene pensare che il dato oggettivo, in quanto tale, debba essere necessario e immodificabile?
Una società sana, caro Feltri, ossia una società che non vuole cadere vittima dell’ignoranza (del proprio passato, dei fenomeni che la riguardano, delle situazioni che si trova a subire), dovrebbe investire una buona parte dei soldi pubblici (perché il profondo giornalista contesta anche gli scarsi investimenti sulle facoltà umanistiche) proprio su quegli studi, quelle discipline e conseguentemente quelle professioni che mantengono lo studio dell’uomo (come della sua storia, dei suoi pensieri, dei fenomeni che lo riguardano a ogni livello) al centro del proprio orizzonte.
A meno che non si intenda (e non si chieda) di rassegnarsi alla logica quantitativa del mercato: tutto ciò che non produce un’immediata ricaduta economica va giudicato per ciò stesso inutile e da abolire. Seguire passivamente questa logica, rassegnarsi al corso degli eventi, a un presente che ci parla della mercificazione generale di uomini, idee, progetti e persino studi universitari, significa arrendersi al dominus incontrastato della teologia economica.
Il dio Mercato ci dice che è inutile tutto ciò che non raccoglie successo nelle sue terre sacre, e allora ecco i sadducei dei nostri giorni (oggi sono spesso giornalisti o intellettuali ben pagati, che fingono di opporsi a una casta fittizia proprio mentre sostengono di fatto quella reale), oltremodo zelanti nel mettere in guardia i poveri pellegrini intimandogli di prendere le scelte giuste (quelle imposte dal potere dominante).
Una società sana, che è consapevole che il mercato non copre tutti gli ambiti della vicenda umana, sa benissimo che occorrono ottimi insegnanti di materie umanistiche, per esempio, in grado di formare un’opinione pubblica che non abbocchi ottusamente e passivamente alle propagande dei furbi, che non cada vittima del razzismo (e quindi della violenza) più bieco e funesto. Una società sana sa che i propri cittadini devono conoscere la Storia perché essa forma individui consapevoli.
Senza contare che l’Italia, capitale del mondo della cultura umanistica, architettonica e artistica, potrebbe veder salire e di molto i propri introiti se solo si investisse di più su quelle figure professionali che potrebbero finalmente valorizzare appieno il nostro patrimonio culturale.
L’INUTILITA’ DI TUTTO CIO’ CHE E’ UMANO
Che logica sciocca è mai quella che ci viene intimata da chi si rassegna passivamente alla tendenza del tempo presente? Quanto tempo ci vorrà, seguendo tale logica, perché si scopra che anche la sanità, per esempio, non produce profitto ma rientra inevitabilmente sotto la voce della spesa sociale? E la giustizia, che profitto mai può produrre la difesa organizzata di ciò che è giusto e legale rispetto a ciò che è ingiusto e illegale?
E l’amore? E l’amicizia? Ascoltando Feltri cosa dovremmo fare, essere consapevoli che è meglio amare un uomo e una donna ricchi perché altrimenti la nostra famiglia sarà molto più stentata? Oppure che è meglio essere amici dei potenti, perché i poveracci non possono ricambiarti con nulla, e anzi spesso finisce che inguaiano pure te?
Gli antichi, che erano piuttosto saggi, chiamavano lo stato «res publica» proprio perché esso riguarda l’interesse di tutti. Esso ha richiesto il sacrificio di una porzione di libertà individuale perché gli venisse conferita la possibilità di garantire il benessere collettivo.
Il benessere collettivo è dato anche dalla cultura, dal livello medio del discorso pubblico, dalla difesa dell’istruzione, della sanità e della giustizia per tutti i cittadini.
Cose che non servono, è vero, perché di niente e nessuno devono essere serve, e affinché ciò sia possibile la Politica (quella con la maiuscola) deve prevedere di finanziarle e renderle fruibili in vista non di ciò che chiede o consente il Mercato, ma in vista di quel bene in via di estinzione che si chiama interesse generale.
Un giornale realmente intenzionato a combattere la «casta» (quindi i poteri forti del privilegio e dell’aristocrazia), invece di intimare ai giovani di studiare ciò che il mercato (e solo esso) richiede e premia, dovrebbe chiedere conto alla classe politica e dirigente del perché questa ha impiegato e impiega somme esorbitanti di soldi pubblici per salvare banche e imprese che delocalizzano.
A fronte di tagli indiscriminati e gravosi sulla scuola pubblica, sulla ricerca, sulla sicurezza, sulla giustizia e sì, anche su quella cultura umanistica che, quelli come Feltri e i bocconiani non lo capiranno mai, rappresenta oggi l’ultimo e irrinunciabile baluardo perché le nostre società non degradino del tutto.
Finendo dominate da un sistema e da una logica, quella della tecno-finanza, in cui la produzione e il progresso non sono più per l’uomo ma avvengono per mezzo di esso; e dove anche nel campo della cultura l’enorme e pervasiva cassa di risonanza del mainstream mediatico sta affermando un sapere e un pensiero di cui l’uomo non è titolare bensì semplice utente.
Il problema vero, ben più in profondità rispetto alla superficie di questa sterile polemica estiva, non è tanto se gli studi umanistici siano utili o inutili per trovare lavoro.
Ma piuttosto quanto risulti utile o inutile l’essere umano stesso, all’interno di un orizzonte di senso in cui, per lavorare, gli viene chiesto di rinunciare a se stesso.
Fonte: il manifesto
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