La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 3 settembre 2015

Dove va la cooperazione?


di Luciano Berselli
In un saggio pubblicato alcuni anni fa (1), la storica Mariella Nejrotti ricostruisce un dibattito originario sulla Cooperazione, tra teoria economica e teoria del Socialismo.
Riportando attenzione su personaggi che sono stati dimenticati, come Ugo Rabbeno e Antonio Vergnanini, Nejrotti consegna una documentazione rilevante, utile anche per la riflessione sui problemi che oggi si manifestano. Per Rabbeno, la forma autentica della Cooperazione si esprime nelle cooperative di produzione lavoro: “…il grosso fatto innovativo che la Cooperazione introduceva nel sistema economico capitalistico ed era per questo che era osteggiata e combattuta da molti. L’innovazione era data dal fatto che nelle cooperative di produzione veniva abolita la compravendita della merce lavoro, o, meglio, il lavoro perdeva la sua qualità di merce.”

Vergnanini si muove in altre direzioni, tentando di delineare, e di realizzare in concreto, quella che chiama la “Cooperazione Integrale”, dove la produzione è posta in funzione subordinata rispetto al consumo. Immagina perfino che attraverso l’intreccio tra le due forme di Cooperazione si possa arrivare al superamento della moneta. Questo tentativo non ebbe successo, andando incontro nel 1913 ad un grosso fallimento nel territorio reggiano. Senza insistere ulteriormente su contenuti specifici di questo saggio, è interessante sottolineare l’asse metodologico della ricerca storica di Mariella Nejrotti.
“…la Cooperazione è formata da due componenti inscindibili, ossia essere insieme impresa economica e movimento sociale”. Questo principio di orientamento della ricerca è adeguato per descrivere ed interpretare una fase di sviluppo della Cooperazione e un dibattito che assumevano una dimensione internazionale, non circoscrivibile in un ambito nazionale e tantomeno locale. Sono esperienze che si svolgevano dalla Gran Bretagna al Belgio, dalla Francia alla Germania. Non a caso, un economista francese come Charles Gide influenza profondamente con le sue teorie l’azione di Vergnanini.
Un nesso inscindibile tra impresa economica e movimento sociale, e questo significava il Movimento Operaio, il Sindacato, i Partiti della Sinistra.
Oggi siamo al di qua di una scissione che è storicamente avvenuta, da alcuni decenni. Possiamo situare l’inizio dei processi che la determinano tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 del Novecento.
Su scala internazionale, nei Paesi di più antica industrializzazione dell’Occidente, con intensità, durata e qualità diverse, si sviluppa una fase di lotta dei lavoratori, che vede al suo interno la spinta decisiva di nuovi soggetti. Pur con le caratteristiche differenti che ho ricordato, è un movimento che tende ad andare oltre il conflitto sul piano salariale e redistributivo, per affermare invece una richiesta e una pratica di intervento e di potere sulle condizioni di lavoro, per cambiare l’organizzazione del lavoro.
Questa fase in cui si esprime un conflitto sul governo del processo di lavoro non produce una risonanza, un avanzamento ed esperienze significative all’interno delle imprese cooperative. Non mi riferisco alle vicende, alcune delle quali sono diventate famose – almeno per un certo periodo – di aziende dove i lavoratori hanno assunto la gestione, per scongiurare una crisi o il fallimento. Sono vicende che si svolgono ancora oggi, in diversi Paesi – viene spesso citato il caso delle fabbriche recuperate in Argentina – e anche attualmente in Italia. Rappresentano una scelta dei lavoratori per impedire la perdita del loro lavoro, dove si presentino le condizioni per percorrere questa strada.
Tornando alla linea di riflessione che mi interessa, in quegli anni cruciali non c’è una risposta nelle imprese cooperative che si apra e si confronti con le nuove caratteristiche del conflitto sociale. Al contrario, sono già avviati i processi che vanno in una direzione del tutto opposta. All’inizio degli anni ’70, tanto nel settore delle cooperative di costruzione, come in quelle di consumo, le scelte e i criteri di fondo che guidano le trasformazioni societarie e i cambiamenti dell’organizzazione del lavoro sono congeniali e in sintonia con la nuova “grande trasformazione” dell’economia, non solo a livello nazionale. Nel centro di questa tendenza generale c’è la costruzione di una risposta per arginare e spingere indietro il conflitto sociale degli anni precedenti. Nelle imprese cooperative di produzione lavoro, insieme con un cambiamento di composizione della base sociale, c’è l’adozione di un’organizzazione produttiva fondata sul sistema degli appalti e dei subappalti, che consente da un lato la frammentazione del lavoro, dall’altro la concentrazione e il rafforzamento del potere di direzione e di comando. Fenomeni analoghi avvengono in altri settori. Sono i processi di cui si discute negli interventi pubblicati nel dossier di Inchiesta. Poco dopo la metà degli anni ’70, la parola d’ordine teorica e politica che orienta il dibattito nella Cooperazione è “centralità dell’impresa”.
Succede in quel periodo un episodio che suscita grande scalpore e molte polemiche. Con un’operazione che presenta aspetti poco trasparenti, la Lega Nazionale delle Cooperative tenta di acquisire la proprietà della Duina Tubi, un’impresa privata del settore siderurgico soggetta a complicate vicissitudini. Si tratta di un “affaire” che porta alle dimissioni del Presidente della Lega Nazionale, che viene sostituito da Valdo Magnani, una figura prestigiosa di dirigente comunista. Era stato Segretario della Federazione di Reggio Emilia, espulso dal Partito perché, nel gennaio del 1951, nella sua relazione al congresso provinciale aveva criticato l’Unione Sovietica esprimendo un appoggio alla Jugoslavia di Tito. Rientrato dopo molti anni nel PCI, era diventato dirigente della Cooperazione. Dopo il caso Duina, in una situazione confusa e pericolosa per la Lega Nazionale, apparve come l’uomo più adatto per affrontare i problemi. Le radici della sua esperienza si allacciavano alle teorie dell’autogestione, che aveva conosciuto quando combatteva come partigiano in Jugoslavia, anche attraverso l’amicizia con Kardelj, che era il principale riferimento di quelle teorie.
Valdo Magnani cercò, nei due anni della sua presidenza, di mettere in tensione, dentro il dibattito cooperativo, la spinta ormai dominante ad esaltare la “centralità dell’impresa” con le sue convinzioni, non rinunciando a considerare la forma cooperativa come alternativa all’impresa privata capitalistica e all’impresa pubblica. Forse a causa di questo tentativo, e per le domande che cercava di fare, per mantenere un filo intorno al concetto di identità della cooperazione, in un recente dibattito su di lui, alcuni attuali dirigenti cooperativi si sono chiesti se Valdo Magnani fosse o non fosse un ideologo.
Hanno concluso, mi sembra, che probabilmente era un ideologo, ma poi lo soccorreva e lo salvava una certa attitudine pratica.
L’episodio che ho ricordato – uno dei tanti – è già lontano nel tempo. Si sono svolti processi dentro i quali si è esaurito un lungo filo storico che aveva stabilito un rapporto tra lavoro e Cooperazione.
Dentro il modello di impresa che oggi è dominante, si è allo stesso modo esaurita l’idea di una diversità della forma di impresa cooperativa.
Su questo punto di arrivo occorre misurarsi, quando si afferma, anche in alcune parti della Sinistra, che un richiamo ai principi del passato consentirebbe di superare le “degenerazioni” dell’impresa cooperativa.

(1) Mariella Nejrotti. “La Cooperazione tra teoria economica e teoria del Socialismo”, in “Un territorio e la grande storia del Novecento”. EDIESSE 2002.

Fonti: Inchiesta a stampa, Inchiesta online

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