La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 4 settembre 2015

Perché il cinema non può raccontare il caso di Giuseppe Uva?

di Graziano Graziani
Alcuni giorni fa è stato diffuso il testo di una lettera che Franco Maccari, segretario generale del COISP (sindacato indipendente di Polizia), ha pubblicamente indirizzato ad Ascanio Celestini. Si tratta di una lettera dai toni accesi, dovuti al fatto che nel suo ultimo film, «Viva la sposa» che verrà presentato alla Mostra del cinema di Venezia, Celestini affronta la vicenda di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 dopo un fermo di polizia e successivo Tso, il trattamento sanitario obbligatorio. Ecco uno stralcio della lettera:
«Ci risparmi le manfrine su “tutti coloro che sono morti nelle mani dello Stato” perché ne sono pieni i titoli dei giornali, i polmoni di Manconi e soprattutto di chi si dimostra tanto solerte e definitivo nel giudicare qualcosa che non sa nemmeno come funziona.
Nel modo in cui, con altrettanta “competenza” possiamo affermare che il suo film fa schifo, signor Celestini, glielo diciamo senza averlo visto, senza mai aver fatto gli attori, senza mai aver fatto un minuto di regia o di teatro. Il suo film è orrendamente dozzinale e gli attori che lo interpretano non sanno recitare. Eppure noi non siamo attori.

Non ne sappiamo nulla, eppure noi diciamo che la sua opera, scusi il termine un po’ forte, fa cagare. Affermiamo anche, senza avere alcuna competenza in merito, che lei recita come un cane e che dietro la macchina da presa fa ancora più pena.
Stiamo solo esprimendo un’opinione, disinformata, completamente avulsa da una conoscenza reale ed anche piena di pregiudizi: quindi, secondo i canoni correnti, perfettamente legittima e legittimata a diventare autorevole, basta che faccia comodo». (il testo integrale potete leggerlo qui)
Al di là degli insulti (nemmeno troppo velati dal dispositivo retorico della lettera, che li vorrebbe parte di un’iperbole), la cosa che lascia sconcertati è il ragionamento sottostante: non siete competenti in materia di fermi di polizia e quindi non potete parlarne.
Come se, in una democrazia normale, discutere pubblicamente di persone morte mentre erano affidate allo Stato (come Aldo Bianzino, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Riccardo Rasman o il recente caso di Andrea Soldi) non fosse non soltanto un diritto dei cittadini e un obbligo delle istituzioni, ma anche e soprattutto un dovere morale.
Sono certo che Ascanio Celestini non si sia perso d’animo; e di fatti sulla pagina Facebook a lui dedicata “il film che fa cagare le guardie” è diventato un rovesciamento ironico che suona come un possibile slogan. D’altronde le accuse della lettera di Maccari sono così grossolane che si smontano da sole e anzi finiscono per fare da cassa di risonanza per il film che sarà presentato a Venezia il 7 settembre.
Tuttavia la lettera del Coisp non è da liquidare con una scrollata di spalle. Perché tira in ballo un “sapere tecnico” da cui la cittadinanza – giornalisti, artisti, gente comune – è per forza di cose esclusa. Vale a dire che chi è “avulso da una conoscenza reale” dei fatti non può che esprimere “opinioni piene di pregiudizi”.
Ridurre a una “tecnicalità” il dramma delle morti di chi è sotto custodia dello Stato accosta di colpo questo tema ad altri comparti della vita pubblica che sembrano sempre di più affetti da determinismo, come la burocrazia o le decisioni in materia economica. Non si può scegliere una politica economica autonoma perché ci sono degli obblighi che “vanno rispettati per forza”. Conosciamo tutti un vasto campionario di storie kafkiane tra adempimenti amministrativi e disposizioni fiscali ma “la legge deve comunque fare il suo corso”.
La tecnicalità è così. Ti dice: è andata com’è andata perché non poteva andare diversamente. Chi non lo capisce semplicemente non dispone delle informazioni necessarie.
Per questo nel leggere la lettera del segretario generale del Coisp mi è tornata in mente una lettura di qualche anno fa. Si tratta di “Nella rete tecnologia”, un saggio di Alain Gras, che insegna sociologia e antropologia delle tecniche alla Sorbona. Di quella lettura mi sono rimaste impresse due cose: la prima è l’idea di fondo che la tecnica non sia qualcosa di “autonomo”, ma sia piuttosto un fatto profondamente sociale. La seconda è una concezione della catastrofe come “altra faccia della medaglia” dei sistemi complessi affidati alla sapienza tecnica.
Gras fa l’esempio del trasporto aereo. Per quanto tecnologia e procedure tengano sotto controllo ogni particolare, e di norma ci riescono senza problemi, questo sistema di trasporto deve convivere comunque con l’idea sia pure remota di catastrofe.
Che c’entra tutto questo col nostro discorso? Due cose.
La prima è che non si può ridurre il dibattito sulle vicende come quella di Giuseppe Uva a un semplice tema di procedure. Se la tecnica e le modalità con cui viene messa in pratica sono un fatto sociale, è bene che si discuta pubblicamente dei suoi risvolti aberranti ed è bene che lo facciano giornalisti, artisti, politici, semplici cittadini e ovviamente chi con le procedure ha a che fare.
Il secondo punto parte dalla considerazione che la morte di una persona affidata allo Stato non è prevista in alcun regolamento. Non può esserlo, perché è la negazione dei principi su cui lo Stato stesso si basa. Quando avviene siamo perciò già nella dimensione della catastrofe. Ovvero siamo al momento in cui il sistema è collassato.
A quel punto qual è la cosa più sensata da fare? Giustificare il collasso o fermarsi a capire cosa ha provocato la catastrofe per fare in modo che non avvenga più?

Fonte: minima&moralia

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