La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 26 settembre 2015

L’unità non basta ma divisi non c’è storia

di Nicola Fratoianni
La vit­to­ria di Cor­byn alle pri­ma­rie del Labour Party è una ottima noti­zia. La sua affer­ma­zione è una nuova e impor­tante con­ferma che in Europa qual­che crepa si affac­cia nel muro che per diversi decenni si è ele­vato attorno alla rap­pre­sen­ta­zione del neo­li­be­ri­smo come una vera e pro­pria reli­gione, come un dato tra­scen­dente e indiscutibile.
Nella sua affer­ma­zione, come nell’esperienza di Syriza (che con la straor­di­na­ria vit­to­ria elet­to­rale di dome­nica scorsa con­so­lida lo spa­zio costi­tuente di una nuova sini­stra euro­pea, di governo per­ché alter­na­tiva al libe­ri­smo dell’austerity) e di Pode­mos, torna pre­po­tente l’eguaglianza con­tro una insop­por­ta­bile distri­bu­zione della ric­chezza, dei pri­vi­legi e del potere come chiave di let­tura delle con­trad­di­zioni del nostro tempo. La dise­gua­glianza come ten­denza cre­scente, ine­vi­ta­bile e in qual­che modo natu­ra­liz­zata, si è fatta senso comune, fat­tore di assue­fa­zione anche in tanta parte della tra­di­zione della sini­stra in Europa.
Lo schianto della fami­glia del socia­li­smo euro­peo prima ancora che nei risul­tati elet­to­rali nella dram­ma­tica inca­pa­cità di arti­co­lare una rispo­sta di sini­stra alla crisi e ai sui effetti sulla vita delle per­sone sta lì a testi­mo­niarlo.

La questione socialista e costituzionale

di Felice Besostri
Se la que­stione socia­li­sta è un pro­blema spe­ci­fico della sini­stra ita­liana, la stessa sini­stra ita­liana nel suo com­plesso è l’unica nella con­di­zione di pro­porre un riav­vi­ci­na­mento — anche in Europa — tra le sini­stre di varia matrice cul­tu­rale, l’ambientalismo ed il fede­ra­li­smo. Il bilan­cio com­ples­sivo euro­peo, inclu­dendo il Pse, è infatti uno spo­sta­mento a destra del pano­rama poli­tico. Ma se esi­ste una pos­si­bi­lità di inver­tire la poli­tica euro­pea, tale pos­si­bi­lità sfuma se i par­titi mem­bri del Pse sono visti come un blocco di avver­sari da bat­tere e non inter­lo­cu­tori neces­sari. È in gioco il futuro della demo­cra­zia in Europa e delle poli­ti­che sociali. I par­titi del Pse sono capaci di gene­rare sor­prese come la ele­zione di Jeremy Cor­byn a lea­der del Labour.
Pur con le dif­fe­renze evi­denti la situa­zione attuale pre­senta una carat­te­ri­stica comune con la crisi demo­cra­tica degli anni 20 e 30 del XX secolo: l’attacco alla demo­cra­zia costi­tu­zio­nale e sociale è ampio e arti­co­lato e ha come obiet­tivo pro­prio le Costi­tu­zioni democratiche-sociali (con un forte ruolo dei par­la­menti rispetto ai governi) del secondo dopo­guerra. Va rile­vato, infatti, come solo i par­la­menti siano, per loro genesi sto­rica e loro fun­zione, le isti­tu­zioni che pos­sono garan­tire una redi­stri­bu­zione (attra­verso tasse pro­gres­sive e ser­vizi dello stato sociale) ed un inter­vento rego­la­tore che crei il mer­cato con­cor­ren­ziale (pro­dotto non dato in natura). Col­pire i par­la­menti è indice di cosa si voglia abbattere.

Un processo costituente anche in Italia

di Alberto Rotondo
L’appello del presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky , dal significativo titolo Fermiamo il suicidio assistito della nostra costituzione, è solo l’ultima delle voci autorevoli, che negli ultimi anni si sono levate per cercare di stimolare l’opinione pubblica contro lo smantellamento de iure e de facto della Costituzione della Repubblica.
Questa volta le riforme sono tutte orientate all’ “umiliazione del Parlamento” e della sua funzione rappresentativa, già pesantemente colpita da leggi elettorali che hanno trasformato le aule parlamentari in consessi di nominati, minandone alla base l’autonomia e l’indipendenza dal potere esecutivo.
Con la riforma all’esame delle Camere si compie un ulteriore passo: si trasforma il Senato, per usare le efficaci parole del prof. Zagrebelsky, in “una proiezione amministrativistica di secondo grado di enti locali, a loro volta affamati di risorse pubbliche” .
Quasi un organo amministrativo, insomma, la cui azione è paralizzata dai vincoli di finanza pubblica imposti dall’austerità europea.
Si tratta di un processo di lungo corso che ha come obiettivo principale quello di mortificare la politica, rendendola sempre più incapace di farsi motore della trasformazione sociale, relegandola così a una funzione meramente ancillare degli interessi dei poteri forti e dei loro rappresentanti governativi.

Caro Bersani, l'unità del Pd per cosa, unita di chi?

di Riccardo Achilli
L’unità è un valore molto sbandierato, e da sempre, a sinistra. In particolare, la tradizione comunista ha esaltato, sempre, la priorità unitaria, per cui in un centralismo democratico ben applicato si discute, ma poi si sostiene lealmente la tesi maggioritaria, anche quando non si è d’accordo. Ma, per l’appunto, questa priorità dell’unità, anche a costo di sacrificare un pò la diversità delle opinioni (un elemento che per esempio è difficile da digerire per chi viene da una cultura libertaria e socialista), avveniva dentro un contesto in cui, con lealtà e franchezza, ci si misurava dentro congressi pluralistici, dove tutte le mozioni avevano pari dignità, e dove a tutti, sottolineo a tutti, da Amendola fino a Secchia, era ben chiara l’idea di rappresentare gli interessi di una classe sociale ben precisa, i lavoratori e chi doveva entrare dentro il mercato del lavoro, e chi ne doveva uscire con la dignità di una pensione e di un welfare. In questa chiarezza di politica di classe e di rispetto reciproco, l’idea dell’unità al di sopra delle diversità poteva avere un senso, una nobiltà e una ragione anche tattica.
Oggi il Pd non rappresenta il mondo del lavoro. Il Jobs Act è solo uno, forse il più clamoroso, tra gli esempi. Non è nemmeno equiparabile al blairismo, perché Blair accettò di guidare un partito che, nel suo statuto, si autodichiarava ancora “socialista”. E che con la vittoria di Corbyn dimostra quanti anticorpi di sinistra abbia ancora.
Oggi il Pd è una associazione politica di tipo anfibio, interclassista, che si adatta camaleonticamente ai cambiamenti della società italiana, indotti da forze esterne, essenzialmente di tipo finanziario e geopolitico, proponendosi come forza di “gestione” di tali cambiamenti, e non di governo, perché, per parafrasare Juan Bautista Alberdi, “governare è indirizzare”, e non adeguarsi e gestire.

Gli 8 referendum di Civati, una speranza di democrazia

di Antonia Battaglia
Una sfida democratica gli otto referendum lanciati da “Possibile” di Pippo Civati –su referendum.possibile.com l'elenco dei banchetti attivi in tutta Italia – per mettere un freno alle politiche sbagliate di un Governo e di un Parlamento che sembrano non tenere in alcun conto la sovranità popolare. Il panorama politico attuale, infatti, non offre la possibilità di esprimere compiutamente il proprio voto o dissenso in merito a questioni fondamentali della vita della Repubblica e gli otto referendum vogliono interrogare i cittadini su alcuni dei punti principali dell’attuale azione governativa.
Uno strumento che vuole ridar voce alla partecipazione dei cittadini su otto punti chiave, invitandoli a esprimere il proprio parere e a riacquistare la sovranità che hanno perso rispetto a quanto accaduto in questi ultimi anni. 
“Una ventata d’aria fresca che diradi la cappa afosa che tiene stretta l’Italia in una morsa. Che spazzi via il clima verticistico e autoreferenziale della politica attuale e restituisca la sovranità al popolo”, scrive Civati su Possibile.
Come farlo? Andando a votare gli otto quesiti che toccano quattro temi essenziali quali la partecipazione democratica e la sovranità popolare (legge elettorale Italicum); la riconversione ecologica dell’economia (tema toccato pesantemente dal recente decreto Sblocca Italia); la protezione dei diritti dei lavoratori (Jobs Act); la scuola, con tutte le problematiche relative alla docenza ed all’apprendimento (la Buona Scuola). 

Basta austerita', giustizia e democrazia per l'Europa

123 milioni di donne e di uomini in Europa sono poveri, uno su quattro. Una cifra che aumenta, fino a uno su tre nei Paesi più in sofferenza come quelli dell'Europa del Sud. Un numero enorme, che smentisce gli obbiettivi della UE per la riduzione della povertà, che al contrario cresce. Alle vecchie ingiustizie di questa Europa si sono sommati gli effetti catastrofici delle politiche di austerità.
Il 17 ottobre, giornata di lotta contro la povertà, l'Altra Europa con Tsipras sarà a Bruxelles raccogliendo l'appello a tre giorni di mobilitazione lanciato dalle reti europee. Ci mobiliteremo contro chi provoca la povertà, le ingiustizie e il malessere sociale crescenti in questa Europa. Saremo in piazza contro le politiche di austerità, crudeli e fallimentari. Contro i predatori economici, a partire da quelli della finanza, che sono le vere e proprie macchine da guerra del massacro sociale e dell'ingiustizia. Contro le oligarchie tecnocratiche e dei governi che soffocano ogni idea di democrazia e di alternativa. Contro xenofobie, razzismi, i muri che devastano le nostre coscienze. Contro chi fa del Mediterraneo, che fu culla della nostra nascita, una tomba di donne e uomini e delle loro speranze. Contro le guerre disseminate anche dalla Europa. Contro la privatizzazione dei beni comuni, ambientali e sociali e la loro devastazione. Saremo in piazza convinti che o questa Europa cambia o muore, facendo morire prima di tutto persone e diritti. Saremo in piazza per costruire un grande movimento europeo di resistenza e liberazione.

Trivelle, sei Regioni dicono sì. Il referendum si può fare

di Raffaele Lupoli
Abruzzo e Sardegna sono arrivate ieri dopo il sì di Marche, Molise, Puglia e Basilicata. Il referendum abrogativo contro le trivelle si farà. Sono sei le Regioni che hanno finora approvato in consiglio la delibera per promuovere la consultazione, una più del numero minimo previsto dalla Costituzione. E altre potrebbero aggiungersi fino a lunedì 29: in particolare, devono ancora esprimersi, Veneto, Campania, Liguria, Umbria e Calabria, dopo di che il 30 settembre i quesiti saranno depositati presso la Corte di Cassazione perché la consultazione si svolga il prossimo anno.
Annunciato ma non pervenuto, invece, il voto favorevole dell’assemblea regionale siciliana. Dopo l’adesione annunciata nel corso dell’assemblea alla Fiera dl Levante di Bari il 18 settembre, ieri l’Ars ha respinto sia il quesito riguardante l’articolo 38 dello Sblocca Italia del governo Renzi sia quello che abroga l’articolo 35 del decreto Sviluppo di Monti. Ago della bilancia, il voto contrario di quasi tutti i parlamentari siciliani del Pd (Crocetta compreso), che diversamente dai colleghi delle altre Regioni non hanno voluto esprimersi contro norme introdotte dai vertici nazionali del partito. Spaccando anche la maggioranza in Regione, dal momento che l’Udc, partito che sostiene Crocetta, si è espresso a favore del referendum.

Fiom: «Italia non immune dal caso Volkswagen. Il governo apra una consulta»

Intervista a Michele De Palma di Jacopo Rosatelli
«La vicenda Volk­swa­gen riguarda anche l’Italia», sostiene il respon­sa­bile nazio­nale auto della Fiom-Cgil, Michele De Palma. Dif­fi­cile dar­gli torto: Lam­bor­ghini e Ducati fanno parte del gruppo di Wol­fsburg, e c’è il set­tore della com­po­nen­ti­stica che ha grandi volumi di com­messe dalla casa tedesca.
Quali riper­cus­sioni in ter­mini eco­no­mici e occu­pa­zio­nali vede nel nostro Paese?
"È pre­sto per dirlo, ma non c’è dub­bio che siamo pre­oc­cu­pati, come lo sono anche le imprese. Il mini­stro del lavoro Poletti pare invece tran­quillo, e io credo che sot­to­va­luti la situa­zione. Certo, oggi nes­suno può dire quale sarà il danno: il colpo alla cre­di­bi­lità alle aziende auto­mo­tive, nes­suna esclusa, non è ancora cal­co­la­bile. Ma qual­cosa già si nota: ad esem­pio la Fca sta già pagando un prezzo in borsa. La nostra pre­oc­cu­pa­zione è che, alla fine, siano i lavo­ra­tori del set­tore a subirne le con­se­guenze: l’amministratore dele­gato può con­tare su una buo­nu­scita di 60 milioni, i lavo­ra­tori no. Nello spe­ci­fico dell’Italia, il primo timore è per la com­po­nen­ti­stica, che aveva retto anche durante la crisi della Fiat pro­prio gra­zie alla diver­si­fi­ca­zione dei clienti."

Franceschini usa i laureati da tappabuchi nei Beni culturali

di Roberto Ciccarelli
Beni Cul­tu­rali. Dop­pia morale «made in Italy»: due ore di assem­blea al Colos­seo sono un danno di imma­gine, il pre­ca­riato no. Il caso dei tiro­ci­nanti usati per sup­plire alle carenze di orga­nico pro­vo­cate da pen­sio­na­menti e blocco delle assun­zioni. Sono i pro­grammi di tiro­ci­nio per gio­vani, for­mati e deman­sio­nati nei beni cul­tu­rali. Altro che Jobs Act. Il paese «pizza, arte e mandolino».
Spente le luci sul Colos­seo, pagati gli straor­di­nari ai custodi dopo la cagnara del governo «per il grave danno d’immagine» cau­sato alla patria, sei ragazzi hanno deciso di rac­con­tare la loro espe­rienza lavo­ra­tiva in uno dei set­tore stra­te­gici del «made in Italy». Ales­san­dra Gabel­lone, Mar­tina De Mon­tis, Daniela Enas, Bruno Maf­fei, Anna­rita Romano e Elena Stil­litti hanno scritto una let­tera al mini­stro Dario Fran­ce­schini dove rac­con­tano il lavoro dei gio­vani nel paese della dop­pia morale: quello della vetrina all’estero (pizza, arte e man­do­lino) e quella del cini­smo verso gli occu­pati con il lavoro pre­ca­rio, volon­ta­rio o gratuito.
Lau­reati magi­strali in archi­vi­stica e biblio­te­co­no­mia hanno vinto una borsa nell’ambito del pro­getto «150 gio­vani per la Cul­tura» ban­dito l’anno scorso dal Miur. Uno simile è stato ban­dito poco tempo fa e riguarda altri 130 gio­vani. Il tiro­ci­nio è stato svolto fino ad ago­sto alla Biblio­teca nazio­nale di Firenze.

Under 24, la nuova generazione perduta

di Paolo Fiore
Italia Paese di santi, navigatori e Neet. Arriva anche dall'Ue, numeri alla mano, la conferma che a pagare la crisi sono soprattutto i più giovani. Con la probabilità che quella dei 15-24enni diventi la nuova generazione perduta.
Secondo un reportdell'Eurofound , agenzia dell'Ue che si occupa di politiche sociali e lavoro, cresce il rischio di “povertà ed esclusione sociale”. Un'espressione che non significa solo mancanza di lavoro ma anche di partecipazione. Perché chi è escluso sopporta maggiori privazioni economiche, ha meno fiducia nelle istituzioni e non è coinvolto nella vita politica. Una condizione che riguarda un quarto dei giovani europei e che è più diffusa oggi rispetto al 2008 in 20 Paesi Ue su 28.
L'Italia non se la passa meglio. Tutt'altro: il rischio tocca poco meno del 30% dei giovani. Fanno peggio solo Irlanda, Croazia, Lituania, Ungheria, Lettonia, Grecia, Romania e Bulgaria. Se per alcuni di questi Paesi, si fanno sentire una scolarizzazione più modesta o condizioni sanitarie peggiori, per l'Italia la responsabilità dell'esclusione sociale è più univoca: manca il lavoro, almeno quanto la fiducia di un avvenire migliore.

Non chiudersi, ma nemmeno rinunciare ad una autonoma fisionomia

di Domenico Moro e Fabio Nobile
Le vicende greche, la crisi che si estende alla Cina, gli imponenti flussi migratori e il rafforzamento della tendenza alla guerra caratterizzano il quadro generale degli ultimi mesi. In Italia e in Europa siamo davanti ad uno stravolgimento del piano economico, sociale, istituzionale e politico. Di fronte alla complessità degli eventi appare utile assumere un posizionamento chiaro per aggregare forze e consensi. Per farlo occorre provare a comprendere fino in fondo la realtà, capire le nuove dinamiche sociali e economiche, proporre una prospettiva a medio termine e un modello di società alternativa a lungo termine.
A monte dello stravolgimento della realtà, c’è la crisi di lunga durata del capitalismo. Alcuni economisti, tra cui l’ex Segretario al Tesoro statunitense Larry Summers, parlano di “crisi secolare”. Altri economisti paragonano la crisi attuale alla grande crisi ventennale che si sviluppò tra 1873 e 1895, dando luogo alla fase imperialista del capitalismo e alla competizione tra potenze che sfociò nella Prima guerra mondiale. La crisi attuale è iniziata con lo scoppio dei mutui subprime nel 2007 ed è proseguita come crisi del debito sovrano, ma non è specificatamente una crisi finanziaria. Quella finanziaria è solo la forma esteriore che assume. Il contenuto della crisi è la sovraccumulazione di capitale che ha raggiunto livelli assoluti e determina crescenti difficoltà nel mantenimento di adeguati saggi di profitto. Come in ogni grande crisi, anche in questa occasione il capitale sta generando una riorganizzazione profonda dei processi di produzione e di circolazione. Quelle che osserviamo ogni giorno ne sono le conseguenze più o meno dirette.

Diritto all’insolvenza

di Matteo Botolon
Il dibat­tito sull’euro e sulle sue rica­dute poli­ti­che è diven­tato molto caldo nei movi­menti e nel radi­ca­li­smo di ogni matrice.
Fra il 2011–2012 era molto più vivo il tema del debito: in que­gli anni si mos­sero le cam­pa­gne Rivolta il Debito di Sini­stra Cri­tica, e Smonta il Debito del Cen­tro Nuovo Modello di svi­luppo con altre realtà. A livello più poli­tico si formò invece un Comi­tato No Debito nazionale.
Tutte que­ste realtà si erano mosse nel con­te­sto della crisi del debito sovrano che sostan­zial­mente ini­ziò fra il 2010–2011. Il punto di pre­ci­pi­ta­zione può essere con­si­de­rato l’affermazione del nuovo pre­mir Papan­dreu a fine 2009 che i conti greci non per­met­te­vano di fare fronte ai pro­pri debiti. Da allora la situa­zione è costan­te­mente peggiorata.
In Ita­lia la que­stione venne mossa dall’arrivo al potere di Mario Monti e dal rin­no­va­mento tec­no­cra­tico che pro­met­teva di abbi­nare rigore e equità: restrin­gere la spesa e aumen­tare la com­pe­ti­ti­vità per pagare i debiti dello Stato con un certo grado di giu­sti­zia sociale. Di quest’ultima se n’è vista poca, per la verità. Comun­que fra il 2013–14 il tema della moneta ha acqui­sito molto suc­cesso, men­tre il debito è rima­sto con­fi­nato alle noti­zie occasionali.

La Carta del docente: come ripensare il rapporto tra lo Stato e i suoi insegnanti

di Carlo Scognamiglio
Quasi tutti hanno salutato con favore, e con ragione, il decreto firmato pochi giorni fa dal Presidente del Consiglio, che assegna a ciascun docente di ruolo nella scuola statale una sorta di bonus stipendiale da 500 euro annui, da spendere in attività di formazione e aggiornamento culturale o professionale.
Posto come criterio generale del buon senso l’associazione di un giudizio positivo per ogni iniziativa che miri a migliorare le possibilità di crescita dei lavoratori, è necessario esercitare il proprio pensiero anche in una valutazione più critica e analitica dell’iniziativa governativa.
Se è vero che, stando a quanto espressamente scritto nella Legge 107, meglio nota come riforma per la “buona scuola”, il bonus destinato all’aggiornamento si presenterà nella veste di una “social card” per insegnanti (come l’ha definita la CGIL, cogliendone alcune affinità con la tessera tremontiana per indigenti), e che solo per quest’anno sarà accreditato direttamente in busta paga, in fondo quei 500 euro costituiscono, vuoi o non vuoi, un aumento salariale. Certamente si tratta di somme finalizzate al consumo culturale, ma in ogni caso definiscono un aumento di stipendio di circa 42 euro al mese. Letto in questi termini, e al di là della soddisfazione, occorrerebbe ammettere che degli aumenti si discute in fase di contrattazione, e non con decisioni unilaterali rispetto all’entità o alla destinazione da parte del datore di lavoro.

La solidarietà dal basso

di Carlo Petrini
Traditi da un mercante menzognero, vanno, oggetto di scherno allo straniero. Bestie da soma, dispregiati iloti. Carne da cimitero. Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti». De Amicis nel 1882 cantava così neGli emigranti le esistenze di coloro che a Genova facevano la fila per salire sulle navi in partenza per altre terre, per scappare lontano da casa. È certo utile tener presente la nostra storia nel momento in cui non passa giorno in cui i media snocciolino il loro drammatico bollettino sulla tragedia che ben conosciamo. Una moltitudine di persone cerca di varcare confini chiusi, s’imbarca e s’incammina in cerca di futuro, scappa da orrori tremendi, o semplicemente dalla fame. Già, anche la fame causata dal landgrabbing e dall’ingordigia neocolonialista e non soltanto le guerre e la ferocia cieca e idiota di certi fanatici. Perché non si possono fare distinzioni tra migranti, profughi, rifugiati e le cause che li spingono a fuggire. Ciò che si può fare è prendere atto che quest’onda di umanità disperata non si fermerà, si protrarrà per anni e cambierà profondamente la geopolitica europea, la composizione sociale di interi territori e città. Ma rendersi pienamente contro della situazione è ciò che si può fare come minimo, mentre in verità è giunto il momento di non limitarsi ad aprire gli occhi.
Si può fare di più. Una società civile matura deve essere capace di superare ogni ostacolo e appartenenza, deve saper compattarsi e reagire con forza, senza esitazione e senza distinguo. In Italia questo tipo di realtà di base esiste, il terreno è fertile, ma non può dare frutto se non è dissodato.

Università e conflitto di classe

di Massimo Grandi
Dentro ed oltre lo scenario della crisi, la fase che stiamo vivendo è quella di un conflitto di classe. Un conflitto di classe questa volta “rovesciato” dove la grande borghesia e le classi dominanti, a partire dai primi anni ’80, si sono mobilitate per sferrare un attacco alla riconquista di un terreno perduto nel ventennio precedente.
Il capitale, giunto alla sua fase più avanzata di sviluppo ha necessità di abbattere tutti gli ostacoli di ordine politico, economico, sociale e culturale che possano intralciare o frenare la sua inarrestabile ricerca del massimo profitto. Il capitale rompe il sistema delle mediazioni e si fa direttamente macchina da guerra contro tutte le conquiste ed i diritti sociali maturati dal mondo del lavoro.
Le stessa democrazia borghese a questo punto evidenzia i suoi limiti.
Sindacati, sistema di contrattazione collettiva, forme di rappresentanza, tutto il sistema dei rapporti tra capitale e lavoro saltano perché deve saltare qualsiasi forma di dialettica nei rapporti di forza. Il comando sul lavoro deve essere unilaterale a partire da una generale precarizzazione del rapporto stesso. Le regole non si devono patteggiare.
L’attacco come sempre è al salario: diretto, indiretto e differito, lo stato sociale deve essere smantellato, mattone per mattone, il ruolo del settore pubblico annientato e trasferito nelle mani del privato: dalla sanità alle pensioni, dalla mobilità all’istruzione.
Lo scontro è aperto, drammatico e non fa prigionieri. E’ una guerra di sistema e su questo crudo terreno dobbiamo purtroppo misurarci.

La rivincita degli integrati

di Vanni Codeluppi
In una società che appare essere sem­pre più domi­nata dalla per­so­na­liz­za­zione e dall’individualismo, esi­ste ancora qual­cosa che possa essere chia­mato cul­tura di massa? È vero che la dif­fu­sione del Web ha enor­me­mente poten­ziato negli ultimi anni le pos­si­bi­lità espres­sive di cia­scun indi­vi­duo, ma è anche un dato di fatto che l’industria cul­tu­rale con­ti­nua più che mai a sfor­nare pro­dotti che otten­gono un enorme suc­cesso com­mer­ciale attra­verso la loro dif­fu­sione a livello pla­ne­ta­rio. È il caso dun­que di doman­darsi se può esserci ancora uno spa­zio oggi per una rifles­sione sulla cul­tura di massa. E con esso anche uno spa­zio che possa con­sen­tire lo svi­luppo di una visione cri­tica di tale cultura.
La ricerca sulla cul­tura di massa in Ita­lia ha pro­ba­bil­mente il suo testo fon­da­tivo in Apo­ca­lit­tici e inte­grati di Umberto Eco. Tale testo è uscito nel 1964 e, in occa­sione del cin­quan­te­simo anni­ver­sa­rio dalla pub­bli­ca­zione, è stato esplo­rato a fondo da venti autori in un volume curato da Anna Maria Lorusso: 50 anni dopo Apo­ca­lit­tici e inte­grati di Umberto Eco (Alfa­beta 2 – Derive Approdi, pp. 149, euro 16). Se dopo tanti anni ci si inter­roga ancora su Apo­ca­lit­tici e inte­grati, è pro­ba­bil­mente a causa della pro­po­sta for­mu­lata da Eco in que­sto volume di guar­dare alla cul­tura di massa delle società avan­zate da una nuova pro­spet­tiva. Una pro­spet­tiva basata sull’idea che, come ha sot­to­li­neato Gian­franco Mar­rone, uno dei venti autori del volume curato da Lorusso, «Per stu­diare la cul­tura di massa e i suoi media biso­gna arre­trare lo sguardo, e andare in cerca non delle verità dell’ultimo momento, delle varia­zioni di super­fi­cie delle cose e delle idee, delle forme e degli stili, ma degli schemi inva­rianti su cui que­ste stesse muta­zioni si fon­dano». Eco dun­que ha arre­trato lo sguardo per poter osser­vare meglio ciò su cui si con­cen­trava la sua attenzione.

Il potere biopolitico del visuale

di Alessandro Santagata
Le imma­gini pos­sono essere armi con le quali deco­struire il discorso del potere, sve­larne le con­trad­di­zioni e arti­co­lare la resi­stenza. L’ultimo libro di Chri­stian Uva, stu­dioso di sto­ria del cinema e di sto­ria poli­tica ita­liana, ci riporta alle ori­gini di que­sta rifles­sione, a que­gli “anni Ses­san­totto” che, pro­prio gra­zie alle imma­gini dei film, dei video­tape e della foto­gra­fia mili­tante, sono entrati a far parte dell’immaginario nazio­nale (L’immagine poli­tica. Forme del con­tro­po­tere tra cinema, video e foto­gra­fia nell’Italia degli anni Set­tanta, Mime­sis, pp. 284, euro 24). Punto di par­tenza della rico­stru­zione è il ruolo svolto da alcune rivi­ste nell’elaborare il discorso del «con­tro­po­tere». Per Gof­fredo Fofi e Paolo Ber­tetto, redat­tori di «Ombre rosse», il cinema deve essere pie­gato alle esi­genze della lotta di classe.
Il modello di rife­ri­mento, da supe­rare «a sini­stra», sono di docu­men­tari di Gre­go­retti, che con il suo docu­men­ta­rio Apol­lon ha por­tato sugli schermi il con­flitto di fab­brica. Con­tro il cinema «di par­tito» dell’Unitefilm del Pci e la fil­mo­gra­fia d’autore, il film-ciclostile si afferma dun­que come uno stru­mento di con­tro­in­for­ma­zione che, ripren­dendo la lezione di Debord e Godard, intende «mor­dere la realtà» attra­verso la rap­pre­sen­ta­zione delle lotte nelle uni­ver­sità e nelle offi­cine. Un momento chiave è rap­pre­sen­tato dalla strage di piazza Fontana.

L’ecologia politica oltre le discipline

di Stefania Barca
Disuguaglianze, potere e conflitto sociale sono al cuore della questione ambientale, ma le attuali strutture della conoscenza non sono attrezzate per affrontarli. La maggior parte della ricerca avviene dentro silos disciplinari isolati e le domande sono strutturate in rapporto a tradizioni e linguaggi di ciascuna disciplina, non alla struttura del problema. Il progetto europeo Marie Curie ITN ‘Entitle’ – Rete Europea di Ecologia Politica – partito nel 2012, é stato creato con l’idea di superare questi limiti della formazione e della ricerca socio-ecologica, e si concluderá nel marzo prossimo con una conferenza internazionale a Stoccolma che intende appunto discutere le possibilitá per una ecologia politica non-disciplinare, o anche, come il titolo suggerisce, ‘indisciplinata’.
La conferenza offre tre sessioni plenarie, ciascuna organizzata in forma di dialogo tra due speakers provenienti da contesti gegorafici e disciplinari diversi, e una serie di sessioni parallele, che raccoglieranno i contributi dei/le partecipanti. Le tre sessioni plenarie ruoteranno intorno ai temi della decolonizzazione del sapere, del post-capitalismo, e dei beni comuni.
Con colonialismo intendiamo non soltanto le disuguaglianze di potere che pervadono ancora le interazioni sociali, culturali, economiche ed ambientali a livello globale, ma anche le attitudini mentali e relazionali di dominio e sfruttamento che informano il nostro rapporto con noi stessi, i nostri simili, e gli altri essere viventi. Vogliamo perció discutere in che modo l’Ecologia Politica puó interagire con le epistemologie de-coloniali (in particolare quelle indigene e femministe/queer) , e con le filosofie dell’emancipazione, per produrre un pensiero socio-ecologico decolonizzato. Questa sessione sará basata su un dialogo tra l’antropologa nativo-americana Kim Tallbear e lo scrittore/attivista indigeno brasiliano Ailton Krenak.

Montaigne contemporaneo?

di Antonella Del Prete
Cercare nel passato elementi della contemporaneità è probabilmente altrettanto inutile e sbagliato che gridare al cambiamento epocale a ogni nuova campagna di marketing. E tuttavia c’è parecchio di vero nel ritenere i Saggi di Montaigne il primo esempio moderno di autobiografia, certamente più vicino alle Confessioni di Rousseau che a quelle di Agostino per il suo orizzonte risolutamente mondano e anche per il desiderio di non rifuggire dalla descrizione di tratti scomodi della personalità o dell’esistenza dell’autore, pur senza indulgervi.
Si potrebbe poi istituire un altro paragone, un po’ più claudicante: leggere uno dei saggi di Montaigne è un po’ come affrontare un flusso di coscienza. Soprattutto nei primi due libri, dobbiamo seguire un pensiero estremamente vagabondo, che salta da un argomento a un altro e apre digressioni, il più delle volte senza che sia possibile identificare facilmente i nessi (con grande piacere della critica, che può così cercare di reperirne), e con la disdicevole tendenza a trattare soprattutto di cose che poco hanno a che vedere con il titolo del saggio stesso. I due saggi presentati da Federico Ferraguto per Fazi (Michel de Montaigne, La fame di Venere, Roma, 2015, pp. 151, euro 14,50) sono invece la testimonianza di uno stile di pensiero e di scrittura più tardo, quello che Montaigne adotta tra il 1580 e il 1588, quando pubblica il terzo libro dei suoi Saggi, caratterizzato da una maggiore compattezza tematica e da una maggior corrispondenza tra titolo e contenuto, ma anche da una presenza dell’io autoriale più impudica che nei primi due libri.

Il papa all'Onu e le ferite aperte dell'America latina

di Geraldina Colotti
Sono arri­vati ieri all’Onu anche i pre­si­denti dell’America latina, per esporre riven­di­ca­zioni, cer­care media­zioni o rea­liz­zare incon­tri a mar­gine per que­stioni deli­cate. Prima di tutto Raul Castro, che lunedì pro­nun­cerà il suo primo discorso nell’ambito delle aper­ture volute da Obama. La Casa Bianca ha con­fer­mato le voci di un fac­cia a fac­cia tra il capo di stato cubano e quello Usa, dopo la tele­fo­nata inter­corsa tra i due la scorsa set­ti­mana alla vigi­lia dell’arrivo del papa all’Avana. Castro tor­nerà a chie­dere la fine del blocco eco­no­mico — impo­sto 55 anni fa dagli Usa — che ha stre­mato ma non pie­gato il suo paese.
Una misura ripe­tu­ta­mente con­dan­nata dalla mag­gio­ranza dei paesi all’Onu, ma sem­pre con l’eccezione degli Usa e di Israele e di qual­che paese di con­torno, suf­fi­ciente a bloc­carne la rimo­zione. Que­sta volta, invece, gli Usa potreb­bero aste­nersi. Obama darebbe così un altro segnale al Con­gresso, comun­que a mag­gio­ranza repub­bli­cana. L’altro grande tema è quello della resti­tu­zione di Guan­ta­namo, sede della base mili­tare Usa e campo di con­cen­tra­mento che Obama – nono­stante le pro­messe – non è ancora riu­scito a sman­tel­lare. Il Nobel per la pace Adolfo Pérez Esqui­vel gli ha inviato una let­tera al riguardo.
E da Cuba è arri­vato anche il pre­si­dente colom­biano Manuel San­tos. All’Avana ha con­cluso uno sto­rico accordo con Timo­shenko, lea­der della guer­ri­glia mar­xi­sta Farc, sotto l’egida di Raul Castro.

Lo storico discorso di Papa Francesco all'Onu

E’ stato davvero denso ed emozionante, e interrotto da molti applausi, il discorso che Papa Francesco ha indirizzato all’assemblea generale dell’Onu. Un intervento che andrà riletto e analizzato con attenzione, e che ripropone il forte impegno del Pontefice per l’ambiente e i poveri, ma che affronta, a volte anche in modo inatteso (a volte ribadendo il conservatorismo cattolico su alcuni temi), le maggiori crisi planetarie, fustigando i mercanti di armi e di morte e apprezzando l’accordo nucleare tra Iran e G5+1.
Un discorso che vi riproponiamo integralmente perché questo viaggio pastorale di Papa Bergoglio a Cuba e negli Usa sta già creando nuovi equilibri nella regione e rischia di terremotare la campagna elettorale per le presidenziali statunitensi, facendo apparire in tutta la sua meschinità le politiche egoistiche e neoliberiste esibite dai candidati repubblicani.
Ma il discorso all’Onu di questo Papa, dimesso e inflessibile e che preferisce i bambini e i senza tetto ai potenti, è anche un monito a quei governanti e politici europei che – spesso giustificando addirittura la xenofobia con la difesa delle radici cristiane – vogliono respingere i profughi, chi fugge dalla guerra, dalla persecuzione dai disastri naturali e da una miseria “innaturale”.
Per questo vi proponiamo la lettura integrale dell’intervento integrale del Papa all’Onu.
Buona e attenta lettura quindi, comunque la pensiate.

Tsipras detta i compiti: nuove leggi e niente tv

di Teodoro Andreadis Synghellakis
La prio­rità, per Ale­xis Tsi­pras, è ben chiara: «Riu­scire a difen­dere la dignità dei greci, per poter, nei pros­simi quat­tro anni, sot­trarre il paese al com­mis­sa­ria­mento dei cre­di­tori e, paral­le­la­mente, pro­teg­gere da subito i più deboli». È quanto ha voluto subito sot­to­li­neare, nel corso della riu­nione del primo con­si­glio dei mini­stri, prima della par­tenza per New York, dove oggi pren­derà parte all’assemblea gene­rale delle Nazioni Unite. Il lea­der della sini­stra greca ha sot­to­li­neato che tutti i mini­steri dovranno essere inin­ter­rot­ta­mente in con­tatto tra di loro, in modo da risol­vere velo­ce­mente qua­lun­que pro­blema debba essere affron­tato congiuntamente.
Tsi­pras ha ricor­dato ai mini­stri che «nes­suno è fisso, e tutti devono dimo­strarsi all’altezza dei com­piti e delle respon­sa­bi­lità», chie­den­do­gli di non diven­tare i prin­ci­pali ospiti delle tra­smis­sioni tele­vi­sive del mat­tino, dal momento che il loro lavoro deve essere svolto all’interno dei ministeri.
Tra le prin­ci­pali leggi che dovranno essere votate nelle pros­sime set­ti­mane ci sono quelle con­tro il con­trab­bando del tabacco, per l’assegnazione, secondo regole ben chiare, delle fre­quenze alle tv pri­vate e sulle coo­pe­ra­tive degli agri­col­tori e sul soste­gno alla ricerca.

La strigliata del papa ai potenti della terra

di Luca Celada
È stata a dir poco una intensa gior­nata poli­tica e diplo­ma­tica quella di ieri fra Washing­ton e New York dove il papa ha par­lato alla seduta ple­na­ria delle Nazioni unite men­tre Obama ospi­tava alla casa bianca il pre­si­dente cinese Xi Jin­ping. Per i noti­sti ame­ri­cani entrambi i fatti hanno rischiato di essere momen­ta­nea­mente oscu­rati dalle cla­mo­rose dimis­sioni annun­ciate a sor­presa da John Boeh­ner lo spea­ker repub­bli­cano che ha affer­mato che lascerà la camera a fine otto­bre. Una doc­cia fredda per la lea­der­ship repub­bli­cana che molti com­men­ta­tori hanno cre­duto di attri­buire ad una «crisi di coscienza» in qual­che modo pre­ci­pi­tata dalla pre­senza di papa Fran­sceso. Boeh­ner, cat­to­lico devoto, era stato seduto sul suo scanno durante il discorso di Fran­ce­sco al con­gresso ed era parso visi­bil­mente com­mosso men­tre il pon­te­fice si appel­lava all’unità e la coo­pe­ra­zione fra le fazioni ideologiche.
Al di là di ipo­te­ti­che crisi misti­che, Boeh­ner in quanto lea­der della mino­ranza prima e, dal 2012, della mag­gio­ranza par­la­men­tare repub­bli­cana ha pre­sie­duto uno dei con­gressi più aspra­mente divisi della sto­ria. Non solo fra demo­cra­tici oba­miani e i repub­bli­cani fau­tori di un ostru­zio­ni­smo a tutto campo, ma anche di uno stesso par­tito repub­bli­cano spac­cato da una fronda oltran­zi­sta che reclama la rot­tura totale. Per que­sto il fianco destro del par­tito ha con­te­stato e sabo­tato ogni pur raro ten­ta­tivo di media­zione imba­stito da Boeh­ner e irri­me­dia­bil­mente com­pro­messo l’autorità della sua lea­der­ship. L’annuncio delle dimis­sioni a pochi giorni da un enne­simo scon­tro sul bilan­cio che la pros­sima set­ti­mana potrebbe por­tare a un nuovo enne­simo shut­down del governo fede­rale, segnala una resa dei mode­rati all’inizio di una sta­gione elet­to­rale che pro­mette di pola­riz­zare ulte­rior­mente il paese.

Unione franco-tedesca all'assalto dell'acqua greca

di Roberto Lessio e Marco Omizzolo
Tra le grandi con­trad­di­zioni che Ale­xis Tsi­pras dovrà scio­gliere ce n’è una che atte­sta tutta l’ipocrisia del capi­ta­li­smo e che riguarda anche il nostro paese. In breve: con gli accordi per il sal­va­tag­gio mone­ta­rio fir­mati dal governo e rati­fi­cati dal Par­la­mento quest’estate, la Gre­cia si è impe­gnata a soste­nere un pro­gramma di pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi idrici, par­tendo dalle città di Salo­nicco e Atene. La con­trad­di­zione sta nel fatto che nelle capi­tali dei due paesi con­si­de­rati lea­der dell’Ue, Fran­cia e Ger­ma­nia, i cit­ta­dini hanno già can­cel­lato le rela­tive pri­va­tiz­za­zioni dell’acqua con il loro voto. A Parigi la gestione era stata affi­data alle due mul­ti­na­zio­nali fran­cesi Veo­lia e GdF-Suez (quest’ultima nata dalla fusione tra Gas de France e Suez). Si tratta delle due aziende più grandi al mondo sia nei ser­vizi idrici che nello smal­ti­mento dei rifiuti, eppure espulse dal mer­cato per via refe­ren­da­ria. Per otte­nere la con­ferma del man­dato nelle ele­zioni del 2008 il sin­daco socia­li­sta Ber­trand Dela­noë aveva garan­tito il ritorno alla gestione inte­ra­mente pub­blica e gli elet­tori lo ave­vano pre­miato con il 70% dei voti. E infatti dal 1° gen­naio 2010 le bol­lette dell’acqua sono state abbas­sate e ci sono stati con­si­stenti risparmi di gestione. A Ber­lino invece il comune ha riscat­tato prima le quote dete­nute dalla mul­ti­na­zio­nale elet­trica tede­sca RWE per 658 milioni di euro e poi quelle di Veo­lia per 590 milioni. Anche in que­sto caso è stata rispet­tata la volontà degli elet­tori mani­fe­stata con un refe­ren­dum nel feb­braio 2011 con il quale 666mila ber­li­nesi si erano espressi per la ripub­bli­ciz­za­zione del ser­vi­zio. Altre otto città tede­sche, tra le quali Stoc­carda, hanno fatto la stessa scelta.
Ora anche in Gre­cia i cit­ta­dini dovranno ascol­tare la bella pre­dica della pri­va­tiz­za­zione. E que­sto dovrebbe acca­dere anche se già nel 2014 la Corte costi­tu­zio­nale elle­nica aveva sta­bi­lito che la ven­dita del ser­vi­zio idrico di Atene, voluta dal pre­ce­dente governo Sama­ras, è inco­sti­tu­zio­nale.

Il voto in Catalogna. Baños, capolista della Cup: «Vogliamo la repubblica»

Intervista a Anto­nio Baños di Luca Tancredi Barone 
Anche se la lista pot-pourri “Junts pel Sí” (Uniti per il sì), die­tro cui si nasconde l’attuale pre­si­dente cata­lano Artur Mas, di centro-destra, secondo tutti i son­daggi sarà la più votata nelle ele­zioni cata­lane di dome­nica, il vero pro­ta­go­ni­sta di que­ste ele­zioni sarà un par­tito che non è un par­tito: la CUP.
La Can­di­da­tura d’Unità Popo­lare è un’organizzazione assem­blea­ri­sta e indi­pen­den­ti­sta che dal 2012 è entrata per la prima volta nel Par­la­mentcata­lano con 3 rap­pre­sen­tanti. I son­daggi oggi le danno almeno 10 seggi – ma pro­ba­bil­mente saranno di più.
Il gior­na­li­sta indi­pen­dente Anto­nio Baños è stato scelto come capo­li­sta per que­sta tor­nata elet­to­rale dato che i tre depu­tati si erano impe­gnati a rima­nere in par­la­mento solo per una legislatura.
“Io sono solo il por­ta­voce della CUP, la CUP non ha lea­der né capi”, ci spiega subito. “Saranno le assem­blee che deci­de­ranno il da farsi”.
Qual è il vostro piano?
"Fon­de­remo una repub­blica, punto. Che c’è di più bello? Una repub­blica per ampliare i diritti. Abbiamo un piano di riscatto cit­ta­dino per far sì che le per­sone pos­sano man­giare 3 volte al giorno – pensa che fol­lia! E che si bloc­chino le pri­va­tiz­za­zioni in sanità ed edu­ca­zione. Vogliamo fare la repub­blica per vivere meglio e con più diritti."
Per que­sto vi met­tete d’accordo con chi come Mas que­ste pri­va­tiz­za­zioni le ha fatte?

Brasile: il genocidio dei Guarani-Kaiowá

di Loretta Emiri 
Un leader indigeno si è nuovamente rivolto agli organismi internazionali per denunciare la situazione di estrema barbarie e crisi umanitaria che il popolo Guarani-Kaiowá ** affronta nel Mato Grosso do Sul. Il 22 settembre, durante la 30ª Sessione del Consiglio di Diritti Umani delle Nazioni Unite, a Ginevra in Svizzera, Eliseu Lopes ha richiamato l’attenzione sul recente aggravarsi dei conflitti che si susseguono ormai da decenni.
Solo cinque mesi fa si era recato a Nuova York per partecipare al Forum Permanente per Questioni Indigene dell’ONU, durante il quale aveva denunciato i soprusi quotidiani praticati contro i popoli del Mato Grosso do Sul, lo stato più violento e anti-indigeno del Brasile. Il leader della comunità Kurusu Ambá ha affermato che negli ultimi mesi la situazione si è ulteriormente aggravata. Il 29 agosto, Semião Vilhalva, di soli 24 anni, è stato assassinato durante un attacco che i proprietari terrieri hanno sferrato alla comunità Ñanderú Marangatú, localizzata nel comune di Antônio João. Marçal de Souza e Durvalino Rocha sono altri importanti leader assassinati nella stessa area.
Nonostante il fatto che il territorio tradizionale sia stato riconosciuto e omologato dal governo federale nel 2005, da 10 anni più di 1.200 persone vivono in appena 30 ettari. “Questo perché, da un decennio, il ministro della Corte Suprema, Gilmar Mendes, che è legato a settori dell’agro-business, rimanda l’esame dell’azione che sospese drasticamente gli effetti dell’omologazione presidenziale. In quell’occasione, fummo barbaramente scacciati dalle forze dell’ordine”, ha dichiarato Eliseu.

Alla Columbia university, studenti letteralmente alla fame

di Paolo Mossetti
All’università Colum­bia di New York, una delle più pre­sti­giose al mondo, molti stu­denti stanno patendo la fame. Let­te­ral­mente. Schiac­ciati dalle rette inso­ste­ni­bili, dal costo della vita new­yor­chese, dai debiti. Così, mossa dalla com­pas­sione, una star­tup che era nata per donare cibo ai sen­za­tetto per­met­terà agli allievi bene­stanti di con­di­vi­dere i buoni pasto con i col­le­ghi meno for­tu­nati. Suc­cede in un’istituzione-colosso che nel 2014 ha rice­vuto 9,2 miliardi di dol­lari in dona­zioni, ha un patri­mo­nio di oltre 16 miliardi e ha media­mente oltre quat­tro miliardi di ricavi l’anno. L’idea è stata par­to­rita dai volen­te­rosi rap­pre­sen­tanti del corpo stu­den­te­sco, di con­certo con l’università.
«È stato por­tato alla nostra atten­zione il fatto che molti stu­denti non hanno da man­giare», si legge nella new­slet­ter inviata il 9 set­tem­bre dal pre­si­dente del Colum­bia Col­lege Stu­dent Coun­cil, Ben Makansi, e dal vice respon­sa­bile del rego­la­mento interno, Viv Rama­kri­sh­nan. Nella let­tera annun­ciano «un approc­cio duale» per affron­tare «l’insicurezza ali­men­tare nel cam­pus» (food inse­cu­rity è il pudico ter­mine tec­nico usato dagli ammi­ni­stra­tori, ndr). Da un lato, una app che con­sen­tirà agli stu­denti più ric­chi di cedere i pro­pri buoni pasto ai più poveri («Come un Uber per la con­di­vi­sione del cibo», l’hanno defi­nita). Dall’altro, una banca di buoni pasto («Emer­gency Meal Fund») accu­mu­lati gra­zie a dona­zioni pri­vate. Un Kick­star­ter per gli affa­mati? Il duo non ha usato que­sta meta­fora, anche se ci sem­bra la più ovvia.
Ma come fun­ziona il sistema dei buoni pasto in Ame­rica?

Kirchner: più stato contro i privati

di Geraldina Colotti
In Argen­tina, il par­la­mento ha votato una legge impor­tante, che impe­di­sce di ven­dere le azioni delle imprese sta­tali alle imprese pri­vate senza il con­senso dei due terzi dei depu­tati e dei sena­tori. La legge è pas­sata con 127 voti a favore e 84 con­trari. Sta­bi­li­sce che le azioni del Fondo di Garan­zia e Soste­ni­bi­lità, che ammi­ni­stra la Anses (Ammi­ni­stra­zione Nazio­nale della Pre­vi­denza Sociale) dopo il ritorno nelle mani dello stato del sistema pen­sio­ni­stico, potranno in futuro essere ven­dute solo con un con­senso con­di­viso dai due terzi delle camere. Un risul­tato otte­nuto con l’appoggio del campo gover­na­tivo — il Frente para la Vic­to­ria (Fpv) e dei suoi alleati del Frente Civico de San­tiago del Estero, del Par­tido Soli­da­rio Si e del Movi­miento Popu­lar Neuquino.
La mag­gio­ranza dell’opposizione si è pro­nun­ciata con­tro, con qual­che signi­fi­ca­tiva asten­sione (depu­tati di Uni­dad Popu­lar e del Frente de Izquierda). Per il governo Kirch­ner, si è trat­tato di un forte segnale: «un cam­bia­mento fon­da­men­tale che con­clude un ciclo ini­ziato negli anni ’90 durante il quale lo Stato ha comin­ciato ad accu­mu­lare un pas­sivo sfo­ciato poi nella crisi del 2001». Un segnale — ha soste­nuto il governo — anche per quanti accu­sano la gestione kirch­ne­ri­sta di essere cor­rotta fino al midollo, «men­tre sta facendo di tutto per raf­for­zare lo Stato e pre­ser­varlo dai pro­cessi di inde­bi­ta­mento rimet­tendo le deci­sioni nelle mani della sovra­nità popo­lare». La legge è pas­sata dopo quasi sei ore di discus­sione in una ses­sione spe­ciale. Ora è in campo una pro­po­sta del Frente para la Vic­to­ria per creare una Com­mis­sione bica­me­rale di iden­ti­fi­ca­zione delle com­pli­cità eco­no­mi­che e finan­zia­rie durante la dit­ta­tura mili­tare (1976–1983).

Messico: un anno senza i 43

di Geraldina Colotti
Grande allarme, in Mes­sico, tra i movi­menti e i fami­gliari dei 43 stu­denti scom­parsi il 26 set­tem­bre dell’anno scorso. Si teme una nuova ondata di repres­sione: annun­ciata dall’intervento vio­lento della poli­zia che mar­tedì ha attac­cato la caro­vana di madri che cer­cava di rag­giun­gere la capi­tale: «Siamo arri­vati al limite della pazienza — ha dichia­rato Roge­lio Ortega, gover­na­tore dello stato del Guer­rero -, da adesso in poi, chiun­que attac­chi le isti­tu­zioni dovrà rispon­derne di fronte alla legge». Si rife­riva alla pro­te­sta dei fami­gliari che hanno fatto irru­zione nei locali della Pro­cura gene­rale per gri­dare slo­gan con­tro l’impunità e il nar­co­stato. Quanto alla lega­lità vigente nel Guer­rero, spec­chio di tutto un paese, val­gono le cifre for­nite dallo stesso pre­si­dente neo­li­be­ri­sta Enri­que Peña Nieto: almeno 25.000 scom­parsi dal 2006, la mag­gio­ranza dei quali durante la sua gestione.
Il 26 set­tem­bre dell’anno scorso, un gruppo di stu­denti delle scuole rurali di Ayo­tzi­napa è stato vio­len­te­mente attac­cato da poli­zia locale e nar­co­traf­fi­canti. Il bilan­cio è stato di sei morti — due stu­denti, due gio­vani cal­cia­tori, un tas­si­sta e una pas­seg­gera -, nume­rosi feriti e 43 desaparecidos.
Gli stu­denti delle com­bat­tive scuole rurali pro­te­sta­vano con­tro le poli­ti­che di pri­va­tiz­za­zione del governo. Erano arri­vati a Iguala per rac­co­gliere fondi per cele­brare un altro mas­sa­cro, com­piuto dall’esercito il 2 otto­bre del 1968: la strage di Tla­te­lolco, una delle tante di cui è costel­lata la sto­ria del Mes­sico.

Portogallo: Capitani d’Aprile alla riscossa

di Aldo Colonna
Esterno notte. Una Quinta in quel di S.Pedro do Esto­ril, un com­pren­so­rio immerso nel verde e rac­chiuso discre­ta­mente da un pesante can­cello metal­lico. Quat­tro auto­mo­bili sci­vo­lano den­tro ingo­iate dal buio e cia­scuna illu­mi­nata a turno dal fascio tre­mulo di un lam­pione in balia del flusso atlan­tico che dalle Azzorre incre­spa le onde dell’Atlantico. Ne escono fuori gli amici lisboeti con i quali abbiamo acqui­sito, negli anni, grande fami­lia­rità. C’è Rodrigo Sousa e Castro, Car­los Trin­dade Cle­mente, l’intellettuale Nunu Naza­reth Fer­nan­des e Cer­queira, il Conte Josè Luis Cabral, un monar­chico che finì in galera, durante la dit­ta­tura, per aver sal­vato la vita ad alcuni rivoluzionari.
Sousa e Castro e Cle­mente sono due dei Capi­tani di Aprile, arte­fici della Rivo­lu­zione dei Garo­fani, oggi dive­nuti colon­nelli. Il motivo della loro visita? Ami­ci­zia a parte, orga­niz­zare una stra­te­gia per uscire dall’isolamento.
Il 5 otto­bre dello scorso anno hanno fon­dato il Par­tido demo­crá­tico repub­bli­cano che esor­dirà quest’anno, il 4 di otto­bre, alle ele­zioni. Sousa e Castro è il capo­li­sta, seguono Cle­mente, Teó­filo Bento, il colon­nello medico José Manuel Lei­tâo. Men­tre il cuoco Claude Bel­tramé ci serve un sauté di von­gole viet­na­mite («ma non sanno di un cazzo», «va be’, ma che non lo sai che nella segunda feira , il lunedì, non si tro­vano frutti di mare?», «ma tu pensa che anche ’ste von­gole sono rivo­lu­zio­na­rie…»), Rodrigo illu­stra il pro­gramma del Par­tito; un Par­tito che si pre­senta come non ideo­lo­gico, un Par­tito di valori, di atten­zione verso il sociale, radi­cale nella lotta alla cor­ru­zione.

George Orwell, la soppressione delle idee, e il mito dell’eccezionalismo americano

di Noam Chomsky e Amy Goodman
In una trasmissione speciale di Democracy Now! Trascorriamo un’ora con Noam Chomsky, il dissidente politico famoso nel mondo e linguista, autore, professore emeritus all’Istituto di Tecnologia del Massachusetts dove ha insegnato per più di mezzo secolo. Chomsky ha scritto più di 100 libri, compreso il più recente: “Because We Say So,” [Perché diciamo così], che è una raccolta delle sue rubriche mensili. Sabato Chomsky ha parlato davanti a un pubblico di quasi 1.000 persone nell’Auditorium John L. Tishman della The New School a New York City, completamente esaurito. In un discorso intitolato “Il potere dell’ideologia,” ha parlato della persistenza dell’eccezionalismo * americano, dei tentativi dei Repubblicani di silurare il patto nucleare iraniano, e della normalizzazione delle relazioni tra gli Stati Uniti e Cuba.
AMY GOODMAN: Oggi, in una trasmissione speciale di Democracy Now!, trascorriamo un’ora con Noam Chomsky, il dissidente politico famoso nel mondo e linguista, autore, professore emeritus all’Istituto di Tecnologia del Massachusetts dove ha insegnato per più di mezzo secolo. Chomsky ha scritto più di 100 libri, compreso il più recente: “Because We Say So,” [Perché diciamo così], una raccolta delle sue rubriche mensili. Sabato Chomsky ha parlato davanti a un pubblico di quasi 1.000 persone nell’Auditorium della New School qui a New York City. Chomsky ha parlato della persistenza dell’eccezionalismo americano, dei tentativi dei Repubblicani di silurare il patto nucleare iraniano, e della normalizzazione delle relazioni tra gli Stati Uniti e Cuba. Il Professor Chomsky ha anche spiegato perché crede che gli Stati Uniti e i loro alleati più stretti, cioè Arabia Saudita e Israele, stiano minando le prospettive di pace in Medio Oriente. Il suo discorso era intitolato “Il potere dell’ideologia.”

Dalla parte di chi fugge da guerre e povertà, contro ogni frontiera

In questi mesi, decine di migliaia di persone che fuggono da guerre e povertà hanno raggiunto, o stanno provando a raggiungere, il territorio europeo. Mentre diversi governi hanno reagito alzando muri e filo spinato, inasprendo le leggi sull’immigrazione e sul controllo della popolazione interna, gridando a un’invasione che non c'è (i nuovi arrivati non superano neppure lo 0,1% della popolazione europea), causando migliaia di morti, in tantissimi luoghi si moltiplicano invece le iniziative di solidarietà. DaVentimiglia a Calais, dalle isole greche a Opatovac, da Edirne a Rözske, da Tovarnik al Brennero, migranti e solidali insieme stanno mettendo in crisi la governance europea dell’immigrazione, facendo saltare il regolamento di Dublino e gli accordi di Schengen. Nonostante nessuna frontiera riesca a fermare il bisogno di fuga e la voglia di pace e libertà di queste persone, si continuano a diffondere segnali di preoccupanti chiusure identitarie e razziste e si ricostruiscono vecchi e nuovi confini.
Pochi giorni fa alcuni di noi sono tornati dalla Carovana per Kobane, che ha chiesto l’apertura di un canale umanitario verso la città simbolo della resistenza allo Stato Islamico, portando solidarietà al popolo curdo (in lotta contro l’ISIS e il regime autoritario di Erdogan) e sostegno all’esperienza del confederalismo democratico del Rojava.

Il realismo dei sonnambuli. La Turchia, il Pkk, l'Isis e l'Occidente

di Giovanni Tomasin
Alla fine dell’agosto scorso il generale in pensione ed ex direttore della Cia David Petraeus ha suggerito di armare alcune componenti di al-Nusra, il ramo siriano di al-Qaida, per combattere il sedicente Stato islamico. Di primo acchito potrebbe sembrare l’ennesimo riflesso pavloviano del Pentagono: armare gli islamisti ha funzionato contro i sovietici negli anni ’80, funzionerà contro l’Isis, poco importa che il califfato sia l’esito finale di quella stessa operazione afghana. Si tratta invece di una predisposizione al patto con il diavolo che pare affliggere buona parte degli analisti occidentali orientati a una soluzione “realista” della crisi. Una pulsione che, considerato il numero di diavoli in azione nel conflitto siriano, potrebbe costare caro.
Il monumentale Diplomacy di Henry Kissinger dipinge con efficacia l’alternarsi, nella storia della politica estera americana, di due correnti di pensiero: l’eccezionalismo messianico, volto a perseguire la missione storica degli Usa come faro della libertà nel mondo, e un realismo d’impronta più europea. Il primo è storicamente associato ai presidenti democratici, il secondo a quelli repubblicani. L’equazione è rimasta pressoché valida fino alla presidenza Clinton. George W. Bush e i circoli neoconservatori hanno rovesciato i termini della questione in otto anni di amministrazione radicalmente interventista e unilaterale. I risultati sono noti.

L'altra Enciclica: non sarai mai alto come le montagne

di Gustavo Duch
Il netto pronunciamento delle accademiche e degli accademici islamici in vista della Conferenza dell’Onu sul cambiamento climatico è avvenuto un mese fa, a Istanbul durante un importante Simposio. Prese di posizione simili a quella che chiama un miliardo e 600 milioni di musulmani a sostenere il raggiungimento di un accordo ambientale rigoroso a Parigi si sono avute anche in altre confessioni religiose. Da quella ebraica a quella buddista, passando per l’Enciclica, ormai molto nota, e molto ben accolta, di papa Francesco. D’altra parte, Il Corano invita l’uomo – che non sarà mai alto come le montagne – alla modestia, a non incedere sulla terra con alterigia.
L’altra enciclica inizia con una premessa che in sintesi dice: “Il nostro pianeta esiste da miliardi di anni e il cambiamento climatico non è nuovo in sé. Il clima della Terra ha attraversato periodi umidi e secchi, freddi e caldi, in risposta a molti fattori naturali. La maggioranza di questi cambiamenti è stata graduale, in modo che le forme e le comunità di vita hanno potuto evolversi con essi. (…) In passato il cambiamento climatico ha prodotto le immense riserve di combustibili fossili che oggi, ironicamente, con il loro uso sconsiderato e miope, sta causando la distruzione delle condizioni che hanno reso possibile la nostra vita sulla Terra“. (…)
“Peraltro, il cambiamento climatico attuale è indotto dall’uomo, che si è convertito in una forza dominante della natura (…) Cosa diranno di noi le generazioni future che come eredità lasciamo loro un pianeta degradato?” (…)

venerdì 25 settembre 2015

Fine della democrazia? Iniziò con Thatcher. E continua con Renzi

Intervista a Luciano Gallino di Davide Turrini
«La vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie», spiegava Margaret Thatcher nel lontano 1980. L’inizio della fine della democrazia che l’Europa sta vivendo nel 2015, l’annus horribilis in cui Banca centrale Europea e Fmi piegano il volere di cittadini e governo greco, è lì. All’origine dell’applicazione pratica delle politiche neoliberiste, sostiene il sociologo Luciano Gallino. Fosse stato per la Scuola di Chicago di Milton Friedman, i Chicago Boys, i pensatori che costruirono l’impero teorizzando che il mercato si regola da solo, e che meno stato nell’economia meglio è, si sarebbe già potuto iniziare nei primi anni Settanta. Giusto il tempo degli ultimi fuochi keynesiani dei “Trente Glorieuses” (1945-75), quelli della ripresa economica improntata sul risparmio e sul welfare, sulle istituzioni statali indipendenti e sovrane rispetto ai fondi monetari, alle banche mondiali, alla rapacissima finanza. Il big bang lo fa deflagrare quella signora dalla permanente un po’ blasé, assieme all’ex attore hollywoodiano Ronald Reagan, che cominciano ad asfaltare sindacati e sindacalizzati, a cancellare il sistema di welfare a protezione delle fasce più deboli. Le tornate elettorali cominciano a diventare un optional. Governi conservatori o progressisti, europei o statunitensi, agiscono tutti verso la stessa direzione: smantellare lo stato sociale e privatizzare i servizi pubblici. Tanto ci pensa il mercato.

Austerità cultura di morte. La mostruosità del taglio degli esami diagnostici

di Giorgio Cremaschi
Che cosa rende una visita, un esame clinico, inutile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende particolarmente inutile? Il fatto che questo esame sia stato prescritto solo in via precauzionale, magari proprio solo per escludere il rischio malattia e tranquillizzare il paziente.
Questi esami inutili, se passa il provvedimento legislativo annunciato dal governo, non si potranno più fare, pena sanzioni contro il medico che li prescrive. Quindi saranno utili solo gli esami clinici che riscontrino effettive patologie, magari irrecuperabili.
Ci rendiamo conto della mostruosità di questa misura, naturalmente giustificata con la necessità del rigore nei conti dello stato?
Naturalmente i soliti pifferai liberisti spiegheranno che si tratta di eliminare sprechi, definendo standard validi per tutti, senza danni per nessuno. Mi pare che abbiano annunciato come esempio che gli esami sul colesterolo dovrebbero farsi ogni cinque anni. Immaginiamo una persona che improvvisamente abbia sintomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scompensi nel metabolismo, da sottoporre ad analisi.

Guerre, muri, quote, i tre veleni dell’Europa

dIi Guido Viale
I governi dell’Unione euro­pea non ave­vano pre­vi­sto le con­se­guenze del caos e delle guerre che hanno gene­rato l’attuale flusso di pro­fu­ghi. Hanno pre­valso, ieri e oggi, cini­smo e irre­spon­sa­bi­lità. E gli ultimi ver­tici dell’Unione hanno preso o stanno per pren­dere tre deci­sioni mise­ra­bili: fare la guerra agli sca­fi­sti, pre­lu­dio all’estensione del fronte di guerra a tutta la Libia e oltre; ren­dere le fron­tiere esterne dell’Unione imper­mea­bili ai pro­fu­ghi (lo esige il pre­mier unghe­rese Orban); imporre quote obbli­ga­to­rie di pro­fu­ghi a tutti gli Stati mem­bri, come se ci fosse da spar­tirsi un carico di emis­sioni o di mate­riali inqui­nanti, e non per­sone al cul­mine delle loro sof­fe­renze. Ma l’accoglienza è un’altra cosa, richiede rispetto, dignità, diritti, e poi anche casa, lavoro, istru­zione e tutele, cose per cui la Com­mis­sione non pre­vede né stan­dard comuni né stan­zia­menti. La guerra agli sca­fi­sti libici è un alibi, un’infamia e un crimine.
E’ un alibi: si vuol far cre­dere che le maniere forti pos­sano sosti­tuire l’accoglienza che non c’è. E per ridi­men­sio­nare i flussi — e risol­vere la que­stione – si conta di acco­gliere i rifu­giati (quelli che pro­ven­gono da paesi “insi­curi”, in guerra) e di respin­gere i migranti (quelli che pro­ven­gono da paesi defi­niti “sicuri”). Anche Prodi ha ricor­dato che nes­suno Stato dell’Africa — e meno che mai Iraq, Afgha­ni­stan o Kur­di­stan – è sicuro; e anche il mini­stero degli esteri avverte i turi­sti che tutti i paesi da cui pro­ven­gono i migranti non sono sicuri. Se in tanti rischiano morte e vio­lenza per fug­gire dal loro paese è per­ché là non pos­sono più vivere.
E’ un’infamia, per­ché nasconde il fatto che se venis­sero appron­tati cor­ri­doi uma­ni­tari per per­met­tere a chi fugge di rag­giun­gere in sicu­rezza l’Europa, gli sca­fi­sti di mare e di terra non esi­ste­reb­bero e si sareb­bero evi­tate decine di migliaia di morti.

Un compromesso contro la Costituzione

di Giovanni Russo Spena
Il cedimento della minoranza dem sulla controriforma costituzionale è grave all’interno della vicenda parlamentare. Non siamo, in verità, tra coloro che si erano fatti illusione. Ma prendiamo atto che la situazione è cambiata, i rapporti di forza sono mutati in vista del referendum che si svolgerà, probabilmente, nell’ottobre del prossimo anno (un referendum che sarà impostato come plebiscito su Renzi, imperatore massimo senza freni e controlli). Avremo bisogno di una capillare e creativa controinformazione rimettendo al centro il fondamento politico della Costituzione repubblicana e costruendo un sistema di alleanze (innanzitutto sociali, ma non solo) contro una grave ferita alla Costituzione stessa voluta da tutto il PD. Credo che dovremo saper coinvolgere a fondo sindacati, movimenti, coalizioni sociali.
Lotte democratiche e sociali sono, infatti, sempre più connesse. Il combinato disposto tra controriforma costituzionale e legge elettorale Italicum crea, infatti, un presidenzialismo di fatto, senza controlli e regole. Un impianto che ha in Europa un solo parziale precedente nel sistema ungherese di Orban.

Il diritto del lavoro nell'era del mercato delle regole

di Umberto Romagnoli
Non è un’esagerazione agiografica affermare che Giorgio Ghezzi si prodigò in una molteplicità di sedi – dalle aule universitarie a quelle giudiziarie e parlamentari – per dimostrare come il diritto del lavoro del ‘900 fosse una delle più significative acquisizioni del progresso civile nell’Europa moderna a vantaggio delle moltitudini di individui che, per poter disporre di un reddito, devono vendere un pezzo di vita. Ma, quando Giorgio ci lasciò, anche nella cultura giuridica di cui era uno dei più autorevoli esponenti serpeggiava già il presentimento che il più eurocentrico dei diritti nazionali dell’Occidente sarebbe andato incontro al destino del suo secolo; un secolo che un’accreditata storiografia definisce breve: cominciato più tardi di quanto fosse d’obbligo calcolare, è finito prima di quanto si potesse prevedere. Adesso sappiamo che stava cambiando l’idea stessa di diritto del lavoro. Perdute la cifra identitaria e l’unità spazio-temporale che aveva in passato, neanche il lavoro è quello di prima: da maiuscolo e tendenzialmente omogeneo che era (come ama dire Aris Accornero) è diventato minuscolo ed eterogeneo. Difatti, la legislazione lo ha ri-mercificato e tutti lo declinano al plurale. Insomma, ciò che è cambiato è lo statuto epistemologico di un’intera disciplina giuridica.
La percezione era condivisa da Giorgio. Il diritto del lavoro, scriveva all’aprirsi del XXI secolo, “ha suscitato le più grandi speranze e nel contempo ha cancellato molte illusioni”. Giorgio, però, era turbato più che dalla rottura del paradigma culturale, di cui lo Statuto dei lavoratori rappresentava l’espressione normativa più acuminata, dal ritardo nella preparazione ad elaborarne uno nuovo.

Senza investimenti, non c’è Pil che tenga

di Sergio Ferrari e Roberto Romano
Ancora una volta sen­ti­remo il primo mini­stro soste­nere che l’Italia ha cam­biato verso. Standard&Poor’s afferma che l’Italia è uscita dalla reces­sione, ma la ripresa è tie­pida per­ché i salari non cre­scono abba­stanza e per­si­ste un alto livello di disoc­cu­pa­zione. Siamo usciti dalla reces­sione tec­nica, ma il paese rimane lon­tano dai paesi euro­pei. In altri ter­mini: l’Italia è uno dei pro­blemi dell’Europa. Infatti, il titolo dell’ultimo report dell’agenzia Standard&Poor’s si inti­tola «Ripresa super­fi­ciale dell’Italia».
Forse ci sono dei segnali di con­tro­ten­denza, ma nulla di com­pa­ra­bile a quanto accade nei paesi di area euro. Ci doman­diamo quale sia il segnale posi­tivo che Renzi con­ti­nua a pub­bli­ciz­zare. Inol­tre, nell’ultimo periodo c’è stato un declino nella for­ma­zione di capi­tale, aggiun­giamo coe­rente con la per­dita del 20% della capa­cità pro­dut­tiva. Se l’Italia esce dalla crisi, occorre ricor­dare che il suo cam­mino sarà più lento e fra­gile. Alla fine con­cor­diamo con l’affermazione di Six: «Dalla fine del 2014 si sono visti segni di un’economia che sta rina­scendo ma sarà una lunga strada per tor­nare a tassi di cre­scita del Pil sem­pli­ce­mente supe­riori a 1,5%».
Nella let­tura della situa­zione economico-sociale del paese, le pro­po­ste e gli inter­venti «pre­con­cetti» del governo rischiano di creare una barriera-freno alla com­pren­sione della crisi.

Il male radicale della sinistra

di Paolo Ercolani
Io li ho visti. Voi non ci cre­de­rete ma io li ho visti sul serio. Esi­stono ancora. E pur­troppo eser­ci­tano un ruolo tut­tora influente. Pate­tico ma distruttivo. Comu­ni­sti, socia­li­sti, leni­ni­sti, social­de­mo­cra­tici, rifor­mi­sti, mas­si­ma­li­sti, trotz­ki­sti, bern­stei­niani, kau­tsky­sti. Que­sto e molto altro pur di mar­ciare seria­mente e con­vin­ta­mente divisi, a Sinistra.
Pur di accam­pare ottime e soli­dis­sime ragioni per indi­vi­duare, rigo­ro­sa­mente al nostro interno, il nemico peg­giore e più odiato, il tra­di­tore della causa, il rin­ne­gato. Il ven­duto. L’opportunista. Quello che, comun­que vada, non riu­scirà mai a cor­ri­spon­dere all’ideale per­fetto e asso­luto di lea­der, o sem­pli­ce­mente di com­pa­gno (se non altro di strada), di cui ogni cor­rente si sente por­ta­trice e sacer­do­tessa infal­li­bile ed esclusiva.
Ora, sarebbe un’impresa fran­ca­mente cru­dele anche sol­tanto chie­dersi quanto di tutte le distin­zioni sopra ripor­tate (e mi sono limi­tato alle più clas­si­che) gliene possa impor­tare a un elet­tore dei giorni nostri, pur deciso nell’aderire agli ideali che in qual­che modo si richia­mano alla Sini­stra. Più ancora se di gio­vane età.
Eppure, sem­bra assurdo ma è così, den­tro ai par­ti­tini e alle realtà che a vario titolo si richia­mano alla Sini­stra è prin­ci­pal­mente sulla base di quelle cate­go­rie che ci si divide, ci si odia, ci si distrugge reciprocamente.
Costruendo, in que­sto modo e giorno per giorno, la vit­to­ria facile e scon­tata di coloro che sono ben decisi, e coesi, nell’appoggiare il sistema tecno-finanziario.

Scuola, Università e Ricerca un “buon declino”

di Loredana Fraleone
Ciò che si prepara per l’università, in continuità con la “buona scuola”, mostra con maggiore chiarezza dove vada a parare l’intero sistema d’istruzione.
L’uscita dall’amministrazione pubblica, con la trasformazione delle università in fondazioni, consentirebbe non solo l’applicazione del “jobs act” a ricercatori e docenti, ma anche una vera e propria privatizzazione del sistema, che metterebbe quelle “pubbliche” in una competizione fratricida, esaltata dalla totale deregolamentazione.
Il progressivo allontanamento del sistema d’istruzione dal dettato costituzionale, negli ultimi venti anni, subisce oggi un’accelerazione, attraverso la rottura del modello cooperativo nella scuola, la destrutturazione dell’università pubblica, la subordinazione dell’erogazione delle poche risorse a criteri aziendalistici, la vanificazione del diritto allo studio con l’aumento dei costi, i numeri chiusi per l’accesso agli indirizzi ritenuti più appetibili (vedi medicina), la diffusione di modelli culturali che considerano l’istruzione un’attività residuale.

I non detti del premierato assoluto

di Valter Tocci
Quando gli storici di diritto costituzionale studieranno questa revisione della Carta, noteranno un'anomalia che noi non possiamo oppure non vogliamo vedere. Con i voti di un premio di maggioranza viziato da illegittimità si riscrive quasi tutta la seconda parte. La famosa sentenza della Corte raccomandava di approvare subito la legge elettorale per andare a votare al più presto, ma non chiedeva di riscrivere la Carta. Lo fa la classe politica proprio per evitare le elezioni. So di dire una cosa che suona sgradevole e mi viene quasi di scusarmi con voi. È come se ci fosse un inconsapevole accordo a non parlarne qui. Che la dice lunga sullo straniamento di questo dibattito. 
Apparentemente si discute di riforma del bicameralismo, dopo l'approvazione della legge elettorale. Ma il combinato disposto, come si dice in gergo, produce una mutazione di sistema. Si cambia la forma di governo del Paese, senza annunciarla, senza discuterla come tale e senza neppure deliberarla esplicitamente. La legge costituzionale e l'Italicum istituiscono in Italia il premierato assoluto, come lo chiamava, con tremore di giurista, Leopoldo Elia. Lo definiva assoluto non perché fosse una svolta autoritaria come si dice oggi, ma perché privo dei contrappesi, cioè di quei meccanismi compensativi che sono in grado di trasformare ogni potere in democrazia.

Grande propaganda e miniripresa

di Michele Prospero
Dopo 9 lunghi anni di crisi, è inevitabile che qualche marginale spostamento numerico si verifichi nei fondamentali assetti dell’economia. Che il segno “più” nei consumi, nella crescita significhi che la crisi sia ormai finita è però solo un esercizio di propaganda, che il governo – via tweet – sembra prediligere sempre di più. In Italia c’è un circuito politica-media che rende arduo ogni accostamento alla realtà. I media fanno a gara nello stabilire un nesso causale tra la ripartenza dell’economia e il magico funzionamento della ricetta dell’esecutivo sul mercato del lavoro.
La chiacchiera sommerge il reale e vengono evitati paragoni molto semplici, per esempio con gli indicatori di altri paesi europei (la Spagna viaggia al ritmo del 3 per cento in più, l’Italia del preteso boom renziano cresce in maniera assai inferiore a quella della media dei paesi dell’Unione). Nella piccola ripresa in atto, le scelte del governo non hanno proprio inciso in positivo: non c’è una politica industriale, questo è il punto. Le decontribuzioni, il bonus degli 80 euro, hanno semplicemente tolto introiti pubblici (e, quindi, meno servizi) e non hanno certo prodotto nuova ricchezza.
Non c’è stata cioè una crescita effettiva, con una ripresa della contrattazione per il recupero del reddito perduto dal lavoro. Ma si incontra solo un minor afflusso di risorse nelle casse statali.

Tagli alla sanità, solito scaricabarile tra governo e regioni

di Eleonora Martini
E ora la mini­stra della Salute Bea­trice Loren­zin prova a sca­ri­care sulle sole regioni la respon­sa­bi­lità dei tagli agli esami cli­nici coperti dal Ssn. Ma il pre­si­dente della Con­fe­renza delle Regioni non ci sta, e ini­zia a incri­narsi anche il fronte unico dei gover­na­tori, rispetto a quella che appare come una vera «controriforma».
«L’obiettivo è rispar­miare per rein­ve­stire dove è neces­sa­rio, in quelle cure che ci chie­dono i cit­ta­dini. Dalle Regioni, che hanno for­te­mente voluto que­ste norme, mi aspet­te­rei che inter­ve­nis­sero per spie­gare alle per­sone il per­ché dob­biamo fare que­sto salto cul­tu­rale», si difende la tito­lare della Salute pub­blica, in una inter­vi­sta a quo​ti​dia​no​sa​nita​.it, dopo che gli ordini dei medici e i sin­da­cati ospe­da­lieri hanno annun­ciato la mobi­li­ta­zione gene­rale e lo scio­pero già a novem­bre con­tro la lunga lista di test cli­nici, arri­vata a 208 voci, con­te­nuta nel decreto gover­na­tivo in via di defi­ni­zione sull’«appropriatezza» delle pre­scri­zioni mediche.
Ser­gio Chiam­pa­rino fa un salto sulla sedia, alle parole di Loren­zin: «L’atteggiamento del mini­stro della Salute non mi sem­bra cor­retto e soprat­tutto non ci fa andare da nes­suna parte. Se si sono con­di­vise delle scelte lo si è fatto insieme — ribatte il pre­si­dente della Con­fe­renza delle Regioni — Io potrei allora dire: bastava non togliere i due miliardi alle Regioni, di que­sto passo si fa la corsa del gam­bero. Potrei dire che Loren­zin non ha voluto che si inter­ve­nisse su altri capi­toli.