La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 25 settembre 2015

Uniti con Podemos? Per Garzón si può

Intervista a Alberto Gar­zón di Luca Tancredi Barone
Alberto Gar­zón ha bru­ciato le tappe. Classe 1985, in que­sta legi­sla­tura è stato il più gio­vane depu­tato al Con­gresso, e al momento è il più gio­vane desi­gnato come capo­li­sta dai par­titi che saranno in lizza per le ele­zioni poli­ti­che di dicem­bre. Eco­no­mi­sta di fede mar­xi­sta, mili­tante del Par­tito comu­ni­sta spa­gnolo e di Izquierda Unida dal 2003, Gar­zón par­te­cipò ai movi­menti indi­gna­dos del 2011 ed è stato eletto depu­tato nella cir­co­scri­zione di Málaga (in Anda­lu­sia), sua città adot­tiva in ele­zioni, quelle del 2011, in cui IU con i suoi alleati ha otte­nuto 11 depu­tati, con 7% dei voti.
La sua linea poli­tica punta tutto sulla crea­zione di una lista popo­lare che uni­sca le liste di sini­stra con­tra­rie al bipar­ti­ti­smo, in pri­mis Pode­mos. È con­vinto che sia arri­vato il momento di supe­rare la mar­gi­na­lità e di pun­tare all’agglutinamento delle forze alter­na­tive, sul modello delle can­di­da­ture che hanno por­tato per­sone come Ada Colau e Manuela Car­mena a diven­tare sin­da­che delle prin­ci­pali città spa­gnole. In que­sti giorni è in Cata­lo­gna per appog­giare la lista uni­ta­ria Cata­lu­nya, sí que es pot (CSQEP) che riu­ni­sce pre­ci­sa­mente Pode­mos, i rosso-verdi di ICV e la stessa IU. Ele­zioni carat­te­riz­zate dalla pola­riz­za­zione del discorso indipendentista.
«Siamo davanti a un cam­bio epo­cale, e stiamo discu­tendo di come sarà la società che sor­gerà da que­sto cam­bio — spiega al mani­fe­sto — se sarà l’oligarchia a diri­gerlo, con un cam­bia­mento del modello sociale, con mag­giori tagli, e del lavoro, verso una mag­giore pre­ca­rietà, oltre che con un adat­ta­mento giuridico-politico delle isti­tu­zioni alle neces­sità del capi­ta­li­smo; o se invece vivremo un pro­cesso diretto dal basso, par­te­ci­pa­tivo, demo­cra­tico e di recu­pero dei diritti sociali. Anche le ele­zioni cata­lane si col­lo­cano in que­sto con­te­sto. Con una sin­go­la­rità: che sono attra­ver­sate dalla que­stione nazio­nale, iden­ti­ta­ria, ter­ri­to­riale. Chi con­di­vide il modello di società costruito dall’oligarchia – Pp, Con­ver­gèn­cia (par­tito di Mas, ndr) e Ciu­ta­da­nos – si trova molto bene­fi­ciato dall’idea di ridurre il con­flitto poli­tico a una que­stione ter­ri­to­riale. Il diritto a deci­dere sul modello di stato è parte della disputa, evi­den­te­mente, ma assieme ad altre que­stioni, come l’istruzione, la sanità o i ser­vizi sociali. La reto­rica vuole ridurre tutto a indi­pen­denza Sì o No. Però secondo noi in gioco c’è molto più».
In Cata­lo­gna però molti movi­menti pro indi­pen­denza, come la Cup, sono mar­ca­ta­mente di sini­stra.
"Un nazio­na­li­smo di sini­stra si può capire. La stessa parola “nazione” pro­viene da un vin­colo con il popolo – e “recu­pe­rare per il popolo”, la nazio­na­liz­za­zione, ha la stessa radice. Nell’analisi di noi mar­xi­sti, alle con­di­zioni mate­riali di vita si deve dare prio­rità. Esi­ste l’identità nazio­nale o cul­tu­rale come esi­ste quella sociale. Io ho molto più in comune con un lavo­ra­tore cata­lano che con un impren­di­tore della mia città. Vote­rei No a una con­sulta sull’indipendenza anda­lusa, per­ché credo che sia pos­si­bile costruire un’entità giu­ri­dica supe­riore al ter­ri­to­rio che ci per­metta di con­vi­vere assieme con le altre iden­tità e lot­tare assieme. Siamo molto più uniti in ter­mini di classe sociale che sepa­rati in ter­mini di lin­gua. Dal mio punto di vista, il nazio­na­li­smo non è il miglior modo di guar­dare le cose da sinistra."
In Cata­lo­gna si è riu­sciti a con­cre­tiz­zare una lista uni­ta­ria fra IU e Pode­mos. Anche se con pro­spet­tive così così: i son­daggi danno meno del 15%.
"È un esem­pio che si può lavo­rare assieme, sal­vando le dif­fe­renze, per­ché si è data prio­rità al fatto che in gioco c’è tanto, costrin­gen­doci a smet­tere di guar­darci l’ombelico. Se si è riu­sciti a farlo in Cata­lo­gna, per­ché non si può fare nel resto dello stato? Quanto al risul­tato, vedremo. Qui il regime ha por­tato tutto sul piano iden­ti­ta­rio, costruendo una nar­ra­zione “ple­bi­sci­ta­ria” in cui non ci rico­no­sciamo. A dicem­bre la poten­zia­lità sarà molto maggiore."
Gli indi­pen­den­ti­sti sfi­dano la costi­tu­zione dal punto di vista ter­ri­to­riale. Non potreb­bero essere gli apri­pi­sta per supe­rarla?
"La costi­tu­zione del 1978 è già ai ferri corti da molto tempo. I suoi fon­da­menti, il con­te­sto socio-storico, sono scom­parsi. Il patto capitale-lavoro, che cer­cava di intro­durre lo stato sociale che nel resto d’Europa è arri­vato 30 anni prima, non c’è più. Ma gli attac­chi che ha rice­vuto sono stati soprat­tutto da parte dell’oligarchia: un supe­ra­mento della sua impo­sta­zione giu­ri­dica da parte dell’Unione Euro­pea, e uno svuo­ta­mento della sua impo­sta­zione sostan­ziale per le pri­va­tiz­za­zioni e le poli­ti­che neo­li­be­rali. Ora non serve più a indi­riz­zare una società che è com­ple­ta­mente diversa. Il pro­cesso cata­lano è parte di que­sto, ma non è l’apripista per­ché la pista è già aperta. Il pro­cesso costi­tuente è già in corso. La scelta non è fra un pro­cesso costi­tuente o niente. È fra un pro­cesso costi­tuente diretto dall’oligarchia, o uno diretto dal popolo."
La vostra idea di lista uni­ta­ria nasce con que­sta ambi­zione?
"La nostra dia­gnosi ha por­tato alla con­clu­sione che era neces­sa­ria l’unità popo­lare, almeno dal punto di vista elet­to­rale. All’inizio la volontà poli­tica non c’era da parte di molti degli attori – e molte resi­stenze riman­gono. Non è ancora pos­si­bile sapere se ci riu­sci­remo e in che modo. Credo però che siamo sem­pre più vicini per­ché tutti si stanno ren­dendo conto che la fram­men­ta­zione poli­tica in ele­zioni così impor­tanti darebbe il potere di nuovo al bipar­ti­ti­smo e con­cre­ta­mente a Mariano Rajoy. Per que­sto la mag­gior parte delle per­sone è a favore di una lista popo­lare. Le resi­stenze ven­gono da parte di per­sone che non hanno com­preso il momento storico."
Il retro­cesso di Pode­mos nei son­daggi li ha resi più fles­si­bili?
"Anche se Pode­mos non avesse perso ter­reno, non avrebbe avuto comun­que abba­stanza peso per cam­biare il paese. L’unità popo­lare era già una neces­sità anche con per­cen­tuali più alte di oggi. La legge elet­to­rale ti distrugge quanto più è pic­cola la tua per­cen­tuale elet­to­rale. E noi di IU siamo esperti in que­sto. Credo che l’importante sia una dia­gnosi con oriz­zonte più ampio: se a dicem­bre le sini­stre di que­sto paese riu­sci­ranno a pren­dere una posi­zione di rot­tura o se defi­ni­ti­va­mente rica­dremo nella marginalità."
Izquierda Unida è cam­biata?
"Quando entrai in IU, gover­nava Izquierda Abierta (uno dei par­titi che for­mano IU, e che sta minac­ciando di uscirne, ndr) e loro teo­riz­za­vano che IU doveva essere l’opposizione “influente”, che la sua mis­sione sto­rica era quella di faci­li­tare i governi social­de­mo­cra­tici. Era una IU del 5%, che le per­met­teva di soprav­vi­vere in ter­mini di appa­rato. Cer­ta­mente era una IU che non lot­tava per la tra­sfor­ma­zione sociale, era a favore di una gestione un po’ più pro­gres­si­sta del sistema eco­no­mico capi­ta­li­sta. Que­sto a me è sem­pre sem­brato pro­fon­da­mente erro­neo. Le orga­niz­za­zioni sono con­ser­va­trici per natura, quella che Robert Michels chia­mava “la legge di ferro dell’oligarchia”: cia­scuna comu­nità sociale quando si isti­tu­zio­na­lizza tende ad avere un con­trollo anti­de­mo­cra­tico da parte di una oli­gar­chia che con­trolla gli appa­rati. Quando un par­tito è al 10% e si domanda se salta o rimane fermo, c’è sem­pre una ten­denza molto forte a non rischiare. Noi vogliamo rom­pere que­sta dina­mica per­ché cre­diamo che dob­biamo costruire un qua­dro nuovo, e che non pos­siamo rima­nere solo per gestire le mise­rie che ci lascia il sistema."
Dopo quello che è suc­cesso alla Gre­cia e ai rifu­giati, l’Europa è finita?
"Una cosa è l’europeismo teo­rico: siamo per­sone con valori inter­na­zio­na­li­sti e che cre­diamo che tutti siamo uguali e non ci sono per­sone ille­gali. Poi però c’è la realtà: la Ue in nes­sun momento è stata un pro­getto di fra­ter­nità fra popoli. Erano patti fra potenze eco­no­mi­che che per le con­se­guenze della II guerra mon­diale cer­ca­vano un aggiu­sta­mento isti­tu­zio­nale che evi­tasse un con­fronto bel­lico futuro e il con­ta­gio delle idee comu­ni­ste. Così venne costruita una Ue coman­data da pochi paesi e da inte­ressi eco­no­mici. Quello che dob­biamo fare oggi è rico­struire la Ue tenendo pre­sente che que­sta Europa è morta, ha fir­mato l’inizio della fine. Con la Gre­cia si è com­por­tata come ricat­ta­trice, una banda di mafiosi non soli­dali che invece di pen­sare ai diritti umani ven­dono all’asta le per­sone, che si ripar­ti­sce i rifu­giati con quote. Biso­gna rifarla, ma l’opzione non è l’autarchia, il rifu­gio in un nuovo stato-nazione. Oltre­tutto sarebbe impos­si­bile, nello sta­dio di glo­ba­liz­za­zione finan­zia­ria ed eco­no­mica in cui viviamo. Ci vogliono alleanze regio­nali che costrui­scano nuovi legami di soli­da­rietà e di fra­ter­nità. Come fu l’Alba latino-americano, per­met­tendo che attorno a un pro­getto poli­tico vero con prin­cipi e valori e di inte­ra­zione e soli­da­rietà, si pos­sano costruire nuovi spazi di inte­gra­zione. Il sud d’Europa avrebbe la capa­cità e la poten­zia­lità di costruire que­sto legame. Con un oriz­zonte chiaro, la volontà poli­tica, oggi assente, biso­gnerà costruirla."
Lei dice spesso che uscire dall’euro è come essere su un aereo: è molto più facile scen­dere prima del decollo che durante il volo. È arri­vata l’ora di lan­ciarsi dall’aereo?
"Io credo che il dibat­tito sull’Unione Euro­pea non è un dibat­tito esclu­si­va­mente mone­ta­rio. È un dibat­tito sulla strut­tura pro­dut­tiva, sul per­ché ci sono paesi che si sono spe­cia­liz­zati in strut­ture di alto valore aggiunto, come Ger­ma­nia o Fran­cia, men­tre paesi come la Spa­gna sono stati dein­du­stria­liz­zati tra­sfor­man­doli in mano d’opera a poco prezzo per il resto dell’Unione. Uscire dall’euro non farebbe sì che d’improvviso cam­biasse que­sta situa­zione. Dovremmo finan­ziare un’attività eco­no­mica pro­fon­da­mente defi­ci­ta­ria nella bilan­cia com­mer­ciale. Il dibat­tito sull’euro arric­chi­sce, ma credo che il dibat­tito vero sia sulla capa­cità pro­dut­tiva, sull’uguaglianza e sulla divi­sione inte­ra­zione del lavoro."
Si sente più vicino a Varou­fa­kis o a Tsi­pras?
"Per l’analisi eco­no­mica, cer­ta­mente a Varou­fa­kis. Oltre­tutto si è dimo­strato che chi aveva più inte­resse che la Gre­cia uscisse dall’euro era il mini­stro delle finanze tede­sco. Per­ché aveva pas­sato sei anni tra­sfe­rendo le per­dite pos­si­bili e poten­ziali dell’uscita dell’euro dalle mani pri­vate a quelle pub­bli­che. Se fosse uscita sei anni fa, le per­dite le avreb­bero avute le ban­che. Se esce ora, il suo debito lo rice­vono entità pub­bli­che che hanno fal­sa­mente “riscat­tato” la Gre­cia. D’altra parte, uscendo dall’euro ci sarebbe il dramma di come ricom­porre un’economia basata soprat­tutto sull’import, con un aggiu­sta­mento dei salari di quasi il 40%, in edu­ca­zione, in sanità e pen­sioni. È più facile nego­ziare con la Ue quando sei den­tro e hai più capa­cità di ricatto che quando sei fuori. Sono con­tento per la vit­to­ria di Syriza, anche se un paese con il peso eco­no­mico della Gre­cia avrà molte dif­fi­coltà a cam­biare le poli­ti­che della Ue da solo. Noi da dicem­bre lavo­re­remo per­ché la Spa­gna la possa aiu­tare a cam­biare l’Europa."
Par­lando delle ele­zioni, la vostra pro­po­sta più impor­tante è quella del lavoro garan­tito.
"For­nire lavoro deve essere quindi un obbligo per lo stato a tutti quelli che vogliono lavo­rare, come accade con l’istruzione o la sanità. Nella nostra pro­po­sta baste­reb­bero 9,4 miliardi di euro per togliere un milione di disoc­cu­pati dalla strada. È una quan­tità impor­tante, ma che con­fron­tata con quello che abbiamo speso per esem­pio per riscat­tare il sistema finan­zia­rio è ridi­cola. La stra­te­gia del lavoro garan­tito in ter­mini macroe­co­no­mici serve per sti­mo­lare la domanda interna, per recu­pe­rare l’economia attra­verso la garan­zia di un’entrata a chi stia lavo­rando. È una misura com­ple­men­tare a quella del red­dito di cit­ta­di­nanza, che è quella di Pode­mos per esem­pio. Io sono molto più favo­re­vole al lavoro garan­tito per­ché è molto più rea­li­sta e ha più van­taggi eco­no­mici. Ovvia­mente se una per­sona non può lavo­rare biso­gna garan­tir­gli un altro tipo di prestazione."
Ma pra­ti­ca­mente, come fun­zio­ne­rebbe?
"Si tratta di met­tere in piedi delle borse di lavoro attra­verso una stra­te­gia di pia­ni­fi­ca­zione, ma non come diceva Kay­nes sca­vando un buco per poi tap­parlo. Invece si deve dia­gno­sti­care quello di cui abbiamo biso­gno per cam­biare il modello pro­dut­tivo. La costru­zione è caduta lasciando milioni di per­sone fuori dal mer­cato del lavoro e allo stesso tempo i cen­tri sto­rici sono dete­rio­rati? Allora fac­ciamo un pro­gramma di ria­bi­li­ta­zione dei cen­tri sto­rici che serva per sti­mo­lare il turi­smo, ma allo stesso tempo per dare entrate a que­ste per­sone e che sti­moli la domanda interna delle pic­cole e medie imprese di ogni città. Altre linee stra­te­gi­che pos­sono essere: le ener­gie rin­no­va­bili, la rifo­re­sta­zione dei boschi, la cura delle per­sone… Linee che mar­che­rebbe lo stato con pro­grammi con­creti. Per il momento le fasce sala­riali sareb­bero due: tra 900 e mille euro e tra mille a 1200, secondo le qua­li­fi­ca­zioni. Sono quan­tità esi­gue ma per comin­ciare pos­sono fun­zio­nare. Il pro­gramma sarebbe pub­blico, ma la gestione la potreb­bero fare entità o ong."

Fonte: il manifesto 

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