La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 26 settembre 2015

Il potere biopolitico del visuale

di Alessandro Santagata
Le imma­gini pos­sono essere armi con le quali deco­struire il discorso del potere, sve­larne le con­trad­di­zioni e arti­co­lare la resi­stenza. L’ultimo libro di Chri­stian Uva, stu­dioso di sto­ria del cinema e di sto­ria poli­tica ita­liana, ci riporta alle ori­gini di que­sta rifles­sione, a que­gli “anni Ses­san­totto” che, pro­prio gra­zie alle imma­gini dei film, dei video­tape e della foto­gra­fia mili­tante, sono entrati a far parte dell’immaginario nazio­nale (L’immagine poli­tica. Forme del con­tro­po­tere tra cinema, video e foto­gra­fia nell’Italia degli anni Set­tanta, Mime­sis, pp. 284, euro 24). Punto di par­tenza della rico­stru­zione è il ruolo svolto da alcune rivi­ste nell’elaborare il discorso del «con­tro­po­tere». Per Gof­fredo Fofi e Paolo Ber­tetto, redat­tori di «Ombre rosse», il cinema deve essere pie­gato alle esi­genze della lotta di classe.
Il modello di rife­ri­mento, da supe­rare «a sini­stra», sono di docu­men­tari di Gre­go­retti, che con il suo docu­men­ta­rio Apol­lon ha por­tato sugli schermi il con­flitto di fab­brica. Con­tro il cinema «di par­tito» dell’Unitefilm del Pci e la fil­mo­gra­fia d’autore, il film-ciclostile si afferma dun­que come uno stru­mento di con­tro­in­for­ma­zione che, ripren­dendo la lezione di Debord e Godard, intende «mor­dere la realtà» attra­verso la rap­pre­sen­ta­zione delle lotte nelle uni­ver­sità e nelle offi­cine. Un momento chiave è rap­pre­sen­tato dalla strage di piazza Fontana.
Nell’indagine delle rea­zioni pro­vo­cate dalle prese di posi­zione della stampa e del potere poli­tico, Uva rac­conta come la mobi­li­ta­zione del Comi­tato cinea­sti con­tro la repres­sione abbia coin­volto attori e regi­sti del cali­bro di Volontè, Petri, Ber­to­lucci e Paso­lini. Quest’ultimo super­vi­siona il pro­getto di Lotta con­ti­nua 12 dicem­bre, con il quale l’organizzazione approda al campo della cine­ma­to­gra­fia mili­tante con il fine di smon­tare le argo­men­ta­zioni della stampa bor­ghese sulla bomba e i suoi esecutori.
Di tutt’altro tipo sono invece pro­dotti come Paghe­rete caro paghe­rete tutto, una cro­naca degli scon­tri dell’aprile 1975 a firma del Col­let­tivo cinema mili­tante di Milano, e Fil­mando in città – Roma 1977, ultima opera cine­ma­to­gra­fica legata al gruppo di (ex) Lotta con­ti­nua. Siamo ormai alle ultime bat­tute del film-ciclostile e anche in Ita­lia la tec­no­lo­gia video sta rivo­lu­zio­nando l’informazione con l’allargamento della pla­tea degli ope­ra­tori «dal basso». Roberto Faenza va teo­riz­zando la «guer­ri­glia tele­vi­siva», il movi­mento fem­mi­ni­sta si è appro­priato della mac­china da presa e il movi­mento del ’77 com­batte la sua bat­ta­glia d’immagini con­tro i soste­ni­tori degli «oppo­sti estremismi».
In tale con­te­sto si col­loca Anna di Alberto Grifi, pro­ba­bil­mente il risul­tato miglio­rie della video-arte di movi­mento. Pre­sen­tata in forma ridotta al Festi­val di Ber­lino del 1975, que­sta pro­du­zione spe­ri­men­tale con­si­ste nella regi­stra­zione di circa undici ore della vita di una tos­si­co­di­pen­dente incinta e senza fissa dimora. Quello di Anna – spiega Uva – è un «corpo indo­cile» che esprime un’istanza radi­cal­mente anta­go­ni­sta alla bio­po­li­tica del potere. Il merito del regi­sta sta nell’aver por­tato all’estremo il desi­de­rio di rea­li­smo, fino allo sve­la­mento dell’inconciliabilità tra il pro­getto poli­tico dell’autore e la vita nuda del «sot­to­pro­le­ta­riato». Nel cuore del decen­nio la «guer­ri­glia semio­lo­gica» assume però anche altre forme.
Le pagine più inte­res­santi del libro sono dedi­cate alla discus­sione svi­lup­pa­tasi attorno all’istantanea dell’«uomo che spara» (mag­gio 1977), in cui si vede un mili­tante di Auto­no­mia Ope­raia impu­gnare a due mani una pistola e pun­tarla ad altezza uomo. Di que­sta «car­to­lina degli anni di piombo» Umberto Eco scrive sull’«Espresso» che si tratta della fine dell’iconografia rivo­lu­zio­na­ria, ormai tra­volta dall’estetica della vio­lenza. Su «Lotta con­ti­nua» Pio Bal­delli rea­gi­sce attac­cando la mani­po­la­zione delle imma­gini ope­rata dalla stampa bor­ghese, accu­sata di aver iso­lato un foto­gramma per costruire il pro­prio teo­rema. Di certo c’è che que­sta imma­gine, insieme alle pola­roid bri­ga­ti­ste dei rapi­menti Sossi e Mac­chia­rini e quelle di Moro pri­gio­niero delle Br (o le foto del suo corpo dopo la sua morte), hanno segnato in maniera inde­le­bile l’immaginario col­let­tivo siglando la scon­fitta defi­ni­tiva della lotta armata, ma anche la fine della sta­gione dei movi­menti sociali.
Sono rima­ste invece le strut­ture teo­ri­che pro­fonde che ani­ma­vano il pro­getto ico­no­gra­fico del con­tro­po­tere, oggi parte inte­grante della meto­do­lo­gia di chiun­que intenda affron­tare cri­ti­ca­mente l’analisi della società contemporanea.

Fonte: il manifesto 

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