La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 26 settembre 2015

Montaigne contemporaneo?

di Antonella Del Prete
Cercare nel passato elementi della contemporaneità è probabilmente altrettanto inutile e sbagliato che gridare al cambiamento epocale a ogni nuova campagna di marketing. E tuttavia c’è parecchio di vero nel ritenere i Saggi di Montaigne il primo esempio moderno di autobiografia, certamente più vicino alle Confessioni di Rousseau che a quelle di Agostino per il suo orizzonte risolutamente mondano e anche per il desiderio di non rifuggire dalla descrizione di tratti scomodi della personalità o dell’esistenza dell’autore, pur senza indulgervi.
Si potrebbe poi istituire un altro paragone, un po’ più claudicante: leggere uno dei saggi di Montaigne è un po’ come affrontare un flusso di coscienza. Soprattutto nei primi due libri, dobbiamo seguire un pensiero estremamente vagabondo, che salta da un argomento a un altro e apre digressioni, il più delle volte senza che sia possibile identificare facilmente i nessi (con grande piacere della critica, che può così cercare di reperirne), e con la disdicevole tendenza a trattare soprattutto di cose che poco hanno a che vedere con il titolo del saggio stesso. I due saggi presentati da Federico Ferraguto per Fazi (Michel de Montaigne, La fame di Venere, Roma, 2015, pp. 151, euro 14,50) sono invece la testimonianza di uno stile di pensiero e di scrittura più tardo, quello che Montaigne adotta tra il 1580 e il 1588, quando pubblica il terzo libro dei suoi Saggi, caratterizzato da una maggiore compattezza tematica e da una maggior corrispondenza tra titolo e contenuto, ma anche da una presenza dell’io autoriale più impudica che nei primi due libri.
A dire il vero, alcuni autorevoli contemporanei – Blaise Pascal in primis, ma anche, Antoine Arnauld, Pierre Nicole e Nicolas Malebranche – trovavano che il progetto di Montaigne fosse in sé deprecabile, perché l’idea di consacrare il proprio tempo alla descrizione di se stessi, e di renderla pubblica, infrangeva al tempo stesso i precetti religiosi che invitavano a rivolgere tutti i nostri pensieri alle realtà ultramondane, e quelli sociali, che prescrivevano di non porsi al centro dell’attenzione, soprattutto se la propria vita aveva ben poco di eccezionale e di esemplare. Montaigne, consapevole di infrangere le convenzioni, avverte subito il lettore che il suo scopo è eminentemente privato, perché si rivolge ai suoi manzoniani venticinque lettori, ossia ai parenti e agli amici, affinché possano ricordarselo come era da vivo, difetti compresi. Che questo proposito sia quanto meno ambiguo è reso evidente non solo dalla decisione di dare alle stampe queste riflessioni, invece di lasciarle manoscritte, dedicandosi fino alla morte alla loro redazione e riscrittura, ma anche dalle riflessioni che emergono a tratti ne L’esperienza. Se la scrittura divagante è un’immagine fedele non solo dell’indole asistematica dell’autore, ma della vita e della natura – mai fisse, stabili e uguali a se stesse -, il desiderio di rappresentarsi pubblicamente mette in pratica uno dei precetti più universalmente accettati e noti della filosofia antica, quello che prescrive di conoscere se stessi. La descrizione di se stessi ha poi un duplice valore morale. Da un lato si contrappone sia a uno dei vizi più diffusi, l’ipocrisia (e il lettore non può non pensare al Tartuffe di Molière), sia alla facilità con cui facciamo convivere le «opinioni iperuranie e i costumi sotterranei»: dove l’invito di Montaigne non è a abbandonare i secondi, quanto a ammetterne l’esistenza. Dall’altro, la vena autobiografica traduce in scrittura quello che nei Saggi è presentato come il più alto dovere dell’uomo: vivere con naturalezza la nostra vita. Ciò su cui si misura il valore reale anche dei più grandi condottieri e sovrani non sono le loro imprese militari e politiche, ma la capacità di godersi i piccoli piaceri naturali, come un pranzo con gli amici prima della battaglia. Saper meditare e regolare la propria vita è il nostro capolavoro e la nostra grande impresa; conquistare province, vincere battaglie, scrivere libri sono solo dettagli rispetto questa opera ben più impegnativa.
I teologi di Port-Royal avevano dunque ragione nel sottolineare l’ambiguità di questo intento: un’ambiguità che sfiora lo scandalo se ci addentriamo nelle pagine di Su alcuni versi di Virgilio e de L’esperienza. Nel primo saggio, Montaigne ci dipinge un amore quanto mai lontano dall’ideale romantico: una volta accomunato il rapporto moglie-marito all’amicizia, sentimento per cui ha la più alta stima, Montaigne si concentra sulla passione amorosa, o forse si dovrebbe dire sul desiderio sessuale, che descrive e regola con una libertà pressoché totale. Una libertà che si manifesta anche nel deprecare la condizione delle donne, addestrate all’adescamento e al piacere fin da piccole, ma al tempo stesso tenute a una continenza assolutamente inattingibile: il tutto in nome di convenzioni sociali che non hanno stabilito loro. O nell’affermare apertamente che le norme morali dell’epoca sono decisamente strane, se ritengono la lussuria un peccato più grave dell’assassinio o dell’empietà.
Altrettanto spregiudicata è la descrizione di un desiderio che sicuramente si può definire come passionale, per la sua capacità di coinvolgere l’anima e il corpo e per la sua natura innanzitutto immaginativa e fantastica, ma che mai sente il bisogno di trasfigurarsi in un sentimento profondo e puro: innamorarsi significa cercare il piacere con qualcuno, un piacere sicuramente anche intellettuale, perché è bene che l’anima accompagni il corpo nelle sue funzioni, ma che sempre piacere rimane.
Questi temi sono però accompagnati da elementi che forse la nostra sensibilità contemporanea in materia riterrebbe non pertinenti: anche il desiderio e il piacere sessuale sono infatti inglobati nella ricerca della salute mentale e fisica, nel perseguimento dell’equilibrio, nel tentativo di raggiungere la saggezza. Con buona pace di Federico Ferraguto, che interpreta il conosci te stesso come una forma di ascesi (e che talora stravolge il testo, traducendolo: gli avrebbe sicuramente giovato la consultazione della bella edizione dei Saggi curata Fausta Garavini per Adelphi), Montaigne critica apertamente l’ascetismo cristiano (e stoico). Non solo rifugge da una saggezza arcigna e masochista, ma rilegge tutta la tradizione filosofia occidentale alla luce di un ideale di saggezza che valorizzi tutte le dimensioni dell’uomo, facendo collaborare l’anima e il corpo e cercando di moderare l’uno attraverso l’altro. E così l’anima deve assecondare e accompagnare il corpo nei suoi piaceri come nei suoi dolori, godendone o dolendosene senza farsi travolgere né dagli uni né dagli altri: non a caso ciò che Montaigne apprezza delle sue terribili coliche renali, descritte accuratamente neL’esperienza, è proprio il fatto che non intacchino le forze mentali, impedendo radicalmente il tranquillo fluire del pensiero. Il corpo a sua volta costituisce un sano freno alle sregolatezze dello spirito: rispetto a quelle dei sensi, le alterazioni dell’immaginazione e della ragione sono infatti molto più pericolose (è una delle lezioni che Montaigne trae dalle guerre di religione che hanno a lungo insanguinato la Francia del suo tempo). Il desiderio sessuale e la malattia sono così due occasioni per riflettere sul piacere e sul rapporto tra l’anima e il corpo. A loro volta questi temi aprono a una meditazione sulla filosofia, la virtù e la saggezza. L’esperienza di sé permette infatti a Montaigne di indicare come raggiungerle, evitando ogni tipo di rigido dogmatismo, compreso quello delle diete salutiste, e ogni tipo di disprezzo per il corpo. La sua è una saggezza gaia, piacevole, civile: fa buon uso di una moderazione che non bandisce il piacere, ma lo condisce, e se ne serve per divertire l’anima e per saggiarne la salute e la forza.

Questo articolo è uscito su «Alias – il manifesto».
Fonte: Le parole e le cose 

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