La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 10 gennaio 2018

Quando il lavoro lo crea lo Stato








di Cédric Durand, Dany Lang
In base al principio dello Stato come Datore di Lavoro di Ultima Istanza, lo Stato – o le autorità locali – dovrebbero offrire un’occupazione a tutti coloro che sono disposti ad accettarlo a un salario pubblico di base. Una misura che consentirebbe di affrontare il problema della disuguaglianza e della disoccupazione

La Grande Recessione in cui le economie sviluppate sono entrate nel 2007 si è trasformata in Europa in un vero e proprio disastro sociale. In Francia, ci sono tutte le ragioni per essere disperati dei nuovi governanti che tengono in pugno le redini dal 2012; di fatto, l’abbandono dei sindacati al loro destino dopo le poco convinte minacce di nazionalizzazione è solo la punta dell’iceberg.
La politica economica di François Hollande comprende il rigore di bilancio su una scala senza precedenti dalla Seconda Guerra Mondiale (in 5 anni previsti tagli per un valore pari a 60 miliardi di euro), l’istituzionalizzazione della “golden rule” europea che limita il disavanzo pubblico strutturale allo 0,5% del PIL, il programma per la “competitività” che offre alle imprese 20 miliardi di euro sotto forma di crediti di imposta (7 miliardi dei quali finanziati tramite un aumento dell’IVA) e il recepimento nell’ordinamento nazionale di un accordo raggiunto tra alcune organizzazioni di lavoratori e organizzazioni sindacali minori volto a incrementare drasticamente la flessibilità sul mercato del lavoro. Un orientamento profondamente neoliberista basato su scelte che vanno necessariamente analizzate.
La prima scelta è quella dell’austerità. La strategia d’uscita dalla crisi di tipo deflazionista propugnata dalle élites europee può soltanto condurre a una lunga e dolorosa recessione. In seguito a una crisi finanziaria, il settore privato ha bisogno di liberarsi dai propri debiti. Se, in più, lo Stato inizia a ridurre periodicamente la propria spesa, la spirale della depressione può solo peggiorare.[1] Per quattro anni, le previsioni della “Troika” (Commissione Europea, BCE e FMI) sono state sistematicamente contraddette dai fatti, proprio a causa del loro rifiuto di prendere in considerazione questo elementare meccanismo macroeconomico. D’altro canto, un recente studio condotto dal Fondo Monetario Internazionale[2] riconosce quanto appena detto. Inizialmente, il FMI riteneva che una riduzione della spesa pubblica pari a 1 euro comportasse una diminuzione del Prodotto Interno Lordo pari solamente a 0,5 euro, salvo poi realizzare che tale decremento avrebbe condotto a una contrazione dell’attività per una somma computabile tra 0,9 e 1,7 euro.
Quindi, mentre l’austerità si sta diffondendo in tutta Europa, non rimane la minima possibilità di veder mantenute la promessa di Hollande di spostare verso il basso la curva di disoccupazione. Eppure non c’è proprio nulla di “naturale” nella piaga della disoccupazione.

I limiti del rilancio degli investimenti
Hyman Minsky è l’economista più osannato dall’inizio della crisi finanziaria. Dall’agosto 2007, il “Wall Street Journal”[3] è stato il sostenitore più accanito della sua postuma glorificazione. Ai margini del mondo accademico, Minsky aveva spiegato come la finanza generi cicli violenti e destabilizzanti. Una delle prime formulazioni della sua “ipotesi sull’instabilità finanziaria” può essere rintracciata in un articolo pubblicato nel 1973, “The Strategy of Economic Policy and Income Distribution”[4], in cui Minsky individua due strategie anti-disoccupazione oggi estremamente istruttive. Per quanto riguarda la prima strategia, esisterebbe una visione secondo la quale “la crescita economia è desiderabile e il tasso di crescita è determinato dal ritmo degli investimenti privati”, strategia che condurrebbe all’“enfasi sugli investimenti privati come il modo migliore per raggiungere la piena occupazione”. Pertanto, l’obiettivo della politica di recupero sarebbe quello di assicurare che le aspettative di profitto degli investitori tornino a essere orientate verso l’alto, consentendo così il riavvio del processo di accumulazione.
Tutto ciò implica sgravi fiscali su investimenti e appalti pubblici (tipicamente, in armamenti o costruzioni e opere pubbliche) e sussidi diretti al settore edilizio o a quello della Ricerca e Sviluppo. Minsky individua numerosi punti deboli in questa strategia: provoca un aumento della quota di reddito destinata al capitale, promuove relazioni finanziarie instabili, contribuisce alla crescita delle disparità retributive, alla diffusione del consumismo e potrebbe anche indurre inflazione. Oggi, andrebbe anche aggiunto che queste politiche si scontrano con i limiti della crescita capitalista. L’esaurirsi del dinamismo industriale nei Paesi sviluppati, l’aumentata domanda di servizi prodotti da persone per le persone (salute, tempo libero, educazione, ecc.) e il peggioramento delle condizioni ambientali vengono a maturazione in una fase in cui la tendenza secolare caratterizzata da una crescita più lenta della produttività[5], richiede un ripensamento di fondo su quale deve essere la futura evoluzione delle dinamiche industriali.

Lavoro pubblico centrato sulle capacità dei disoccupati
La strategia anti-disoccupazione sostenuta da Minsky è focalizzata su un’occupazione pubblica. Il principio cardine è basato sull’idea di Stato come Datore di Lavoro di Ultima Istanza (d’ora innanzi ELR, employer of last resort). Secondo questo approccio, i cui principali fautori sono gli economisti della Modern Monetary Theory, lo Stato – o le autorità locali – dovrebbero offrire un’occupazione a tutti coloro che sono disposti ad accettarlo a un salario pubblico di base (possibilmente al di sopra di esso, in base alle qualifiche richieste per occupare il posto di lavoro offerto).
Lo Stato “prende i disoccupati così come sono, adattando i posti di lavoro alle loro capacità”, ma non si tratta di workfare. Il rendere disponibili i posti di lavoro non implica necessariamente l’obbligo di lavorare; non rimpiazza, bensì integra gli attuali sussidi di disoccupazione e i programmi di assistenza sociale. L’impiego è in attività ad alta intensità di manodopera che producono utilità immediatamente manifeste per la collettività, specialmente in ambiti quali l’assistenza ad anziani, bambini e malati, i miglioramenti urbani (spazi verdi, mediazione sociale, restauro di immobili, ecc.), il ripristino ambientale, le attività scolastiche e le iniziative artistiche. Caratteristica comune a tutte queste attività è che esse si svolgono in settori nei quali la pressione per aumenti di produttività sono deboli o nulli. Come sottolineato da Minsky, l’obiettivo è quello di “un migliore impiego delle attuali capacità” piuttosto che un loro incremento.

Lo scontro fiscale con il capitale
Una tassazione fortemente redistributiva e i risparmi realizzati sui sussidi di disoccupazione fornirebbero i fondi necessari per pagare questi nuovi posti di lavoro. Questa strategia condurrebbe anche a una “parziale, veloce eutanasia dei rentier”. Dunque, non c’è “nessun bisogno di stimolare gli investimenti (…). Possono così essere introdotte imposte di successione realmente progressive ed efficaci”[6]. E le imposte sui profitti “non hanno più bisogno di essere determinate dalla necessità dei flussi di cassa aziendali”[7]. Questo è particolarmente vero da più di tre decenni, in quanto la maggior parte dei profitti non è stata reinvestita[8], bensì distribuita agli azionisti. A differenza di una politica di rilancio indiscriminata, un ulteriore vantaggio della politica ELR risiede nel fatto che essa è rivolta ai disoccupati, i quali non solo rappresentano i soggetti che più ne necessitano, ma costituiscono anche capacità produttiva inutilizzata.
Dato l’immenso spreco umano e sociale rappresentato dalla disoccupazione, che cosa impedisce ai Governi di adottare questo tipo di politiche? La risposta è che l’agenda della “competitività” è quella preferita dal mondo degli affari. Se incentrata sui costi, la strategia della “competitività”, basata sulla compressione dei salari o sulla riduzione delle imposte pagate dalle imprese, punta a rilanciare investimenti e occupazione grazie alla maggiore profittabilità e alla più ampia quota di mercato. Se orientata verso la fascia alta del mercato, implica che la spesa pubblica sia indirizzata a sostenere innovazione e formazione visti come mezzi per incrementare la produttività. In entrambi i casi, comunque, le argomentazioni a sostegno di tale strategia dipendono dalle opportunità di apprezzamento del capitale in un contesto altamente competitivo, il quale comporta che i benefici attesi da queste politiche andranno, in larga parte, a scapito dei partner commerciali.
Ciò nonostante, mettere in pratica la strategia ELR significa modificare la struttura dell’integrazione economica su scala mondiale e, nell’immediato, su quella europea. D’altro canto, risulta necessario prevenire la fuga dei capitali che sarebbe inevitabilmente innescata da una politica fiscale troppo risoluta (se necessario, facendo ricorso ai controlli valutari) e stabilizzare le importazioni, attraverso politiche di deprezzamento del tasso di cambio o misure di contingentamento.
Per altri versi, si dovrebbe porre in essere un sistema per il finanziamento del debito pubblico sostenuto dai risparmi delle famiglie in tutti quei Paesi che accettano di mettere congiuntamente in pratica questa politica, assicurandosi allo stesso tempo che la Banca centrale garantisca i titoli da esso emessi. Risulta necessario anche porre delle barriere al libero scambio in modo da orientare l’attività economica verso la produzione del valore d’uso e la conservazione della biosfera. Tutto ciò comporta misure orientate alla riduzione del circuito di produzione e alla negoziazione di accordi che stabiliscano i prezzi nel medio periodo, specialmente nel campo delle materie prime e degli alimenti.
Se tali misure appaiono troppo radicali, esse non sono niente in confronto al fanatismo mercatista che ha ormai preso piede tra i nostri leader politici. Proprio questo fanatismo li ha spinti a rifiutare quelle opzioni che consentirebbero di affrontare risolutamente disuguaglianza e disoccupazione. Ma non è forse questo il tipo di audacia che ci si dovrebbe aspettare da una politica realmente di sinistra?

(Traduzione di Federica Colasanti)

[1] Richard C. Koo, “The world in balance sheet recession: causes, cure, and politics”, Real-World Economics Review, issue no. 58.
[2] Olivier Blanchard and Daniel Leigh, “Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers”, IMF Working Paper, WP/13/1, January 2013.
[3] Justin Lahart, “In Time of Tumult, Obscure Economist Gains Currency”, Wall Street Journal, August 18, 2007
[4] Minsky, Hyman P., “The Strategy of Economic Policy and Income Distribution” (1973). Hyman P. Minsky Archive, Paper 353.
[5] Robert J. Gordon, “Is U.S. Economic Growth Over? Faltering Innovation Confronts the Six Headwinds”, NBER Working Paper, No. 18315, issued in August 2012.
[6] Minsky, Hyman P., op. cit., p. 100.
[7] Ibid.
[8] Engelbert Stockhammer, “Some Stylized Facts on the Finance-Dominated Accumulation Regime”, Working Papers wp142, Political Economy Research Institute, University of Massachusetts at Amherst, 2007.
Fonte: http://sbilanciamoci.info
Originale: http://sbilanciamoci.info/lo-datore-lavoro-ultima-istanza/

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