La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 9 gennaio 2018

Tra Gramsci e Sraffa, il sodalizio fra due comunisti indisciplinati

















di Sergio Cesaratto 
La figura di Piero Sraffa è perlopiù sconosciuta al grande pubblico italiano, persino a quello più colto; appena più fortunata è la figura di Antonio Gramsci. Eppure si tratta di due degli studiosi sociali più straordinari – i più straordinari – che il nostro Paese può vantare nel ventesimo secolo. Il volume di Giancarlo De Vivo (Nella bufera del Novecento – Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Castelvecchi, 2017) apre una serie di squarci sull’interazione intellettuale, politica e umana che si stabilì fra i due nei frangenti drammatici del novecento, come recita l’azzeccato titolo. Il libro non si rivolge solo ad accademici e “specialisti”, ma è di grande interesse per ogni lettore colto. 
Gramsci e Sraffa si conobbero, com’è noto, nella Torino dell’immediato primo dopoguerra, entrambe allievi di Umberto Cosmo (come Terracini e Togliatti). I periodi di più intenso colloquio furono dunque quello torinese (1919-1921) e quello romano (1924-1926). Ma mai si interruppe il filo, né nel periodo 1921-24 in cui prima Sraffa (a Londra) e poi Gramsci (a Mosca) furono assenti dall’Italia. Da Londra Sraffa continuò a collaborare all’Ordine Nuovo. Dopo l’arresto di Gramsci nel novembre 1926 Sraffa funse da collegamento con il Partito comunista in esilio. Sino alla concessione della libertà condizionale nel 1934 Sraffa poté purtroppo incontrare Gramsci solo una volta nel 1927, mentre la corrispondenza poté svolgersi solo in maniera indiretta attraverso la cognata del prigioniero, Tatiana Schucht. Solo dal gennaio 1935 Sraffa poté rivedere l’amico in sette altri incontri. Dell’ultimo, a fine marzo 1937, Tatiana scrive (p. 17, i riferimenti sono al volume di De Vivo) che “è già il terzo giorno che Antonio riceve la sua visita, mattina e sera… La sua contentezza mi tocca infinitamente, e le sue richieste dirette perché l’amico ascolti tutto quanto lui ha voglia di raccontare, e lui stesso stare ad ascoltare. Queste conversazioni certo lo stancano molto ma sono per lui più dell’aria che respira”. 
Gramsci non è l’unico che riceverà grande appagamento dalle conversazioni con Sraffa, basti ricordare quelle settimanali con Wittgenstein a Cambridge, e l’affermazione di quest’ultimo che da una conversazione con Sraffa si esce come un albero potato. Delle conversazioni con Gramsci, la cui componente umana è palpabile nelle parole di Tatiana, De Vivo ci fornisce qualche intuizione che richiameremo più avanti. Di Wittgenstein (e di Gramsci) Sraffa doveva ammirare la ricerca del rigore portata all’estremo: nulla l’economista ammirava di più dell’onestà, del rigore e della curiosità intellettuale. 

Le lettere (primo capitolo) 
La corrispondenza di Sraffa con Tatiana è il tramite con cui l’economista (dal 1927 a Cambridge) colloquia con Gramsci. Egli riceve dalla cognata di Gramsci copia delle lettere del prigioniero, e le fa pervenire al centro estero del Partito Comunista a Parigi. Sraffa segue di persona sia le pratiche legali per la liberazione di Gramsci (tanto da meritarsi l’appellativo di avvocato in alcune lettere), anche attraverso conoscenze del padre, antifascista ed ex Rettore della Bocconi, che (pare) quelle illegali. Alla luce dei profondi legami fra Sraffa e Gramsci appare dunque sorprendente che il ruolo dell’economista italiano sia stato, ricorda De Vivo, per lungo tempo poco noto, quasi occultato, ed è solo dalla metà degli anni sessanta che esso comincia a emergere. E purtroppo con tale emersione sono anche cominciate a fiorire illazioni le più varie, il più spesso non documentate, sul ruolo di Sraffa quale tramite fra Gramsci e il Partito. In sintesi l’accusa è che Sraffa avrebbe agito come agente del Partito e addirittura del Comintern a stretto contato con Togliatti e Stalin. Purtroppo studiosi affermati come Luciano Canfora si sarebbero prestati a questo gioco. Il quadro che emerge dalla ricostruzione documentale che De Vivo ne fa nel primo capitolo del libro è invece di un comportamento estremamente corretto di Sraffa sia nei confronti del Partito che, soprattutto, del suo amico in carcere senza lesinare ogni possibile sforzo volto alla sua liberazione e comunque ad alleviare le sue sofferenze materiali e intellettuali. 
V’è poi la questione della famosa lettera di Ruggero Grieco. Come forse i lettori sanno, nel 1928 la polizia segreta fascista intercettò una lettera del dirigente comunista in esilio indirizzata a tre dirigenti imprigionati, Terracini, Scoccimarro e Gramsci. In quanto mostrava i tre come membri ancora attivi nelle scelte del Partito, questa missiva poteva costituire un elemento aggravante della loro posizione nell’imminente processo davanti al Tribunale Speciale. Gramsci fu immediatamente scosso e insospettito da questa mossa improvvida del Partito tornando sull’argomento cinque anni più tardi in due lettere a Tatiana dove esplicitava il suo tormento che la lettera fosse stata deliberatamente inviata per aggravare la sua posizione. E da chi, se non da Togliatti? Tale è la fiducia di Gramsci verso Sraffa, che egli chiede a Tatiana che le sue due lettere siano trasmesse solo all’”avvocato” (e dunque non al Partito). Accertare se Sraffa abbia o meno rispettato la volontà dell’amico è dunque dirimente, tanto più che i soliti avvoltoi si sono scatenati a sostenere che quel desiderio non fu rispettato. La ricostruzione di De Vivo, che si fa a questo punto appassionante (ma il libro nel suo insieme lo è davvero), documenta passo passo e in maniera che mi sembra inoppugnabile come Sraffa abbia certamente onorato quella volontà. In particolare Sraffa al principio degli anni settanta era ancora in possesso delle due lettere di cui parliamo (le copie trasmessegli da Tatiana) assieme a una ventina di lettere successive che, evidentemente, Sraffa aveva smesso di trasmettere al Partito. Si tratta di materiali che il Partito ricevette poi da altre vie, sostanzialmente dalle autorità sovietiche che ereditarono gli originali custoditi da Tatiana. Perché, ci si domanda, Sraffa non solo rispetta la volontà di Gramsci nel non consegnare le due lettere, ma non gira neppure quelle successive? De Vivo avanza l’ipotesi che in seguito alla vicenda Grieco (e ad altre “leggerezze” successive) anche in Sraffa fosse sorto un crescente sospetto verso il Partito, ipotesi avvalorata nel 1983 da Giorgio Napolitano che nel secondo dopoguerra fu tramite fra il Partito e Sraffa. Quest’ultimo, precisa De Vivo, non ruppe però mai col Partito (di cui non era peraltro membro). Dal suo canto Togliatti tenne volutamente nell’ombra la figura di Sraffa per oltre trent’anni sino a manipolare un’importante lettera di Tatiana a Sraffa, in cui si racconta la fine di Gramsci, presentandola come indirizzata “alla moglie e ai compagni”. Una svolta nell’atteggiamento di Togliatti si ha in prossimità della sua morte sicché a metà anni sessanta sono finalmente pubblicate le due lettere di Gramsci in cui emergeva la vicenda Grieco (avute, come s’è detto non da Sraffa), che cominciò così a essere dibattuta assieme al tema della possibile rottura di Gramsci col Partito comunista sia riguardo alle vicende della dirigenza sovietica, che successivamente nei riguardi della parola d’ordine della costituente democratica sostenuta da Gramsci contro la linea del Partito (al riguardo un articolo di Leonardo Paggi del 1966 suscitò gli strali di Amendola). La dirigenza comunista cominciò a quel punto a sospettare che Sraffa possedesse ulteriori documenti gramsciani dando il via a una gustosa caccia al topo in cui solo dopo molte insistenze nel 1974 Sraffa (che nel frattempo stava cominciando a perdere la memoria) consegna quanto ancora possedeva. Ma si trattava, come s’è già detto, di materiali già in possesso del Partito e persino già pubblicati. In una appendice al capitolo De Vivo demolisce ulteriori accuse di Canfora a Sraffa in merito alla famigerata lettera di Grieco. Ci si domanda solo perché persino intellettuali rispettabili, lasciamo perdere gli avvoltoi, abbiano in Italia interesse a sporcare la figura cristallina di Sraffa. Che cosa dà fastidio di Sraffa? 

Il materialismo delle idee (secondo capitolo) 
Sraffa intrattenne rapporti di profondo scambio intellettuale con alcuni fra i più geniali pensatori di Cambridge, fra loro il genio matematico Frank Ramsey prematuramente scomparso a 26 anni, e naturalmente Wittgenstein e Keynes. Purtroppo poche tracce rimangono delle lunghe conversazioni in cui costoro sottoponevano al rasoio di Sraffa le loro teorie (probabilmente più che viceversa). Le conversazioni con Wittgenstein, secondo il racconto di Amartya Sen che De Vivo riferisce, dovettero a un certo punto annoiare Sraffa per la loro astrattezza rispetto a quelle più concrete con Keynes. La distanza fra i due economisti fu naturalmente notevole, in politica e in economia, tanto che nel 1951 Sraffa scrive a Dobb di Keynes come un “reazionario”. In realtà, precisa De Vivo, Sraffa fu molto toccato dalla scomparsa del grande economista nel 1946. La genialità di Sraffa si può constatare dal fatto che se da un lato Keynes considerava un test le “estenuanti” critiche di Sraffa alle bozze della Teoria generale, dall’altro Dennis Robertson, antico allievo di Keynes ma poi cardinale dell’ortodossia e recensore assai critico della Teoria generale, nel ringraziare Sraffa per i suggerimenti gli attribuisce in pratica la paternità di buona parte delle critiche. Sraffa “l’enigma assoluto” come lo definì Richard Kahn (p. 82), Zelig dell’intelligenza, capace di aiutare a chiarire punti di vista opposti, quello di Keynes e quello dei suoi critici, nella bramosia estrema del rigore. 
Anche delle conversazioni con Gramsci sappiamo poco. Sul giudizio su Benedetto Croce v’è probabilmente distanza fra i due: Sraffa è decisamente a favore e curioso della scienza moderna e ritiene deleterio l’idealismo crociano: 
“È un fatto curioso che nella cultura di tutti gli italiani che hanno una cultura vi sia un gran buco: l’ignoranza delle scienze naturali. Croce è un caso estremo, ma tipico. I filosofi credono che, quando han provato che gli scienziati sarebbero degni di essere vergognosamente bocciati in filosofia, il loro compito sia finito” [lettera a Tania, 23 agosto 1931, citata a p.96). 
Inizialmente soprattutto interessato a temi economici applicati e finanziari (questi ultimi lo resero personalmente inviso a Mussolini non meno di Gramsci), verso la metà degli anni venti Sraffa comincia a interessarsi di temi di teoria economica e si rivolge alla carriera accademica, ciò che diventerà l’avventura intellettuale della sua vita e la più importante sfida teorica al marginalismo dello scorso secolo, accanto a quella di Keynes. Ciò non impedì a Sraffa di continuare a mantenere contatti politici, non solo col Partito comunista, ma a metà anni venti anche con la sinistra riformista, da Turati alla Kuliscioff, dai Rosselli a Gobetti. Peraltro Sraffa si prese allora i rimbrotti severi di Gramsci e Togliatti per aver sostenuto una linea di unità delle forze antifasciste in senso opposto al settarismo comunista, senza che tuttavia questo facesse venir meno la fiducia del primo nei suoi confronti. 
Di cosa discussero sino “a tarda notte” Gramsci e Sraffa a Roma nel periodo 1924-26? Forse dello stato non soddisfacente degli studi economici marxisti - su cui Gramsci diede un giudizio severo nei Quaderni, condiviso da Sraffa (p. 119). Si deve tener conto che solo alcuni anni dopo, nel 1928, Sraffa cominciò a farsi un’idea sufficientemente chiara di quella ripresa dell’impostazione degli economisti classici e di Marx che lo occupò nelle decadi successive. Lo stesso Sraffa viveva dunque ancora quella condizione comune a molti marxisti (pp. 104-7) di vassallaggio intellettuale verso il marginalismo, rappresentato in particolare dalla figura di Alfred Marshall, pur avendogli affibbiatogli critiche assai severe in due memorabili articoli del 1925 e 1926. Le sollecitazioni di Sraffa verso l’amico in carcere con riguardo agli studi economici non sortirono peraltro grandi effetti (p. 115). Sarebbe stato forse qui utile che De Vivo avesse approfondito per il lettore gli spunti che si traggono dalle lettere e dai Quaderni, magari confrontandosi con precedenti interpretazioni come quella di Giorgio Lunghini (1994). E’ sull’interpretazione del materialismo storico su cui forse, secondo De Vivo, i due studiosi trovano un terreno di elaborazione comune. In particolare l’autore cita un brano del 1932 dovuto a Maurice Dobb, ma ispirato da Sraffa nel quale in un punto chiave si parla delle “idee” come “parte della storia, esse sono ‘fatti’ dell’esperienza storica non meno delle invenzioni meccaniche o i [sic] rapporti di proprietà, ed entrano nel processo storico allo stesso modo degli altri ‘fatti’”. Questo “marxismo indisciplinato” di Sraffa (e indirettamente di Gramsci) fu oggetto di accuse di “perversione idealistica” da parte della cellula del Partito Comunista di Cambridge, accuse alle quali Dobb rispose piccato che il punto era ispirato da un compagno straniero molto più colto di marxismo e ben più coinvolto in attività rivoluzionarie (persino illegali) dei salottieri membri della cellula (p. 126). 

La riscoperta di Marx 
Come s’è detto De Vivo descrive assai bene la situazione intellettuale del marxismo negli anni venti: una sorta di divisione del lavoro per cui si accettava l’analisi economica borghese quale analisi scientifica rispettabile dei problemi economici concreti, relegando il marxismo alle grandi “leggi di movimento” del capitalismo. Questa divisione del lavoro continuò nel PCI (e altrove nel marxismo internazionale) ben oltre gli anni venti, almeno sino all’austerità berlingueriana quando si abbandonò il corno del marxismo lasciando solo l’altro, quello della teoria economica borghese. L’economia critica non fu materia prima del PCI, come ahinoi non lo è oggi nelle sue farsesche riproposizioni elettorali. Ciò detto il cammino che Sraffa percorse prima del 1928 per liberarsi del marginalismo e recuperare il punto di vista degli economisti classici e di Marx, ovvero la teoria del sovrappiù (v. Cesaratto 2016) è questione controversa. In sintesi, Sraffa fu ispirato e guidato da Marx o percorse un sentiero più complicato che culminò in una sorta di riscoperta di Marx? La questione è delicata sotto due profili. Il primo analitico nel senso che, come scrisse l’economista torinese, il percorso per raggiungere una meta è spesso più importante della meta stessa. Ricostruire e rifare quel cammino non è infatti mero esercizio di storia del pensiero, ma vuole dire ripercorrere il processo di catarsi dalle idee errate che si ramificano in ogni angolo della nostra mente (secondo la famosa espressione di Keynes) e quello altrettanto faticoso di intravedere un nuovo punto di vista. Il secondo profilo è più politico, nel senso che una diretta derivazione marxiana della ripresa dell’approccio classico espone Sraffa alla sottile accusa, rivoltagli per esempio da Paul Samuelson di essere sì stato un grande economista, ma purtroppo guidato dal desiderio di validare a tutti i costi Marx. 
In una appendice al secondo capitolo De Vivo riprende quanto già da lui sostenuto in alcuni interventi scientifici, segnatamente che, piaccia o meno, sia stato il Capitale di Marx a indirizzare Sraffa (in particolare il secondo volume e il cosiddetto quarto volume dedicato alla storia delle teorie del sovrappiù). Evocando implicitamente il contesto schizofrenico descritto da De Vivo, per cui negli anni venti si poteva essere al contempo marxisti ma ritenere valido l’apparato marginalista della determinazione dei prezzi attraverso curve di domanda e offerta, più complessa è la posizione di coloro che ritengono che vi sia una continuità fra i famosi articoli di Sraffa del 1925 e 1926 sulla teoria dei prezzi in Alfred Marshall (il più influente dei marginalisti) e i successivi progressi. In particolare Sraffa rintraccia in Alfred Marshall l’idea per cui, con rendimenti costanti di scala, è il solo costo a determinare il prezzo delle merci. Partendo da questo suggerimento, Sraffa giunge successivamente ad ancorare la determinazione dei prezzi e della distribuzione ad elementi materiali (oggettivi) rintracciati nelle teorie del sovrappiù del tardo mercantilista William Petty e dei Fisiocratici francesi, piuttosto che nei concetti soggettivi di “sforzi e sacrifici” dei marginalisti o nella teoria del valore-lavoro di Ricardo e Marx (quest’ultima ritenuta quasi una corruzione dell’approccio materiale al calcolo del sovrappiù degli autori precedenti a favore di una nozione semi-etica del valore delle merci, si veda al riguardo il bel saggio di Saverio Fratini del 2016). Una volta riscoperto questo punto di vista materiale e impiegatolo per le proprie equazioni, più tardi Sraffa tornerà a Marx guardando più benevolmente alla teoria del valore-lavoro come il tentativo proprio di Ricardo e Marx di sviluppare l’approccio del sovrappiù in maniera originale e fruttuosa, pur nei limiti di quella teoria. Il fatto che, tuttavia, il valore-lavoro fosse una base malferma, come era peraltro noto già a Ricardo e Marx, fu utilizzato da uno dei fondatori del marginalismo, Boehm- Bawerk per attaccare il Capitale, predisponendo quella sudditanza del marxismo rispetto al “più scientifico” marginalismo che De Vivo opportunamente evoca nel libro. Il lascito teorico più importante di Sraffa al pensiero marxista e democratico è dunque nell’aver spezzato questa sudditanza e la schizofrenia fra marxismo e marginalismo illustrata da De Vivo. La questione del percorso compiuto da Sraffa in quegli anni decisivi resta naturalmente aperta. Sarebbe stato un arricchi­mento, al riguardo, se De Vivo avesse accennato all’esistenza di altre autorevoli interpretazioni. 

Una figura fastidiosa 
La vicenda di Sraffa è dunque intellettualmente affascinante e profondamente immersa nella storia del secolo breve, e in quella del marxismo e dell’economia politica. Il libro di De Vivo è sotto questo profilo lettura rigorosa ma assolutamente avvincente. Una riflessione conclusiva dell’autore sull’impatto purtroppo marginale di Sraffa sulla cultura italiana sarebbe stata interessante per il lettore. Negli studi economici l’eredità di Sraffa è ben viva, e la sua scuola è fra le più vivaci in campo eterodosso – anche lì, tuttavia, spesso avversata a favore di impostazioni più frettolose. Gli spazi per il pensiero critico in economia si sono però drammaticamente ristretti, i bocconiani di ogni risma dominano, nonostante la crisi abbia clamorosamente dimostrato la loro inconsistenza scientifica. Il volume di De Vivo è in questo senso importante al fine di sensibilizzare l’intera cultura italiana verso l’opportunità di tutelare gli spazi per la libera ricerca economica, non solo per difendere un’eredità scientifica che è tutta italiana, interdisciplinare, democratica e antifascista, ma perché solo da lì e dall’eredità di Keynes potrà scaturire una nuova e più fruttuosa scienza economica superando il penoso autismo della teoria dominante. In un momento di smarrimento del nostro Paese, è tempo che l’Italia riscopra la tempra umana e intellettuale di Gramsci e Sraffa. 

Riferimenti 
Cesaratto, S. (2016) Sei lezioni di Economia, Imprimatur, Reggio Emilia. 
Fratini, S.M. (2016) Sraffa on the Degeneration of the Notion of Cost, Centro Sraffa Working Papers, n.21. 
Lunghini, G. (1994) Gramsci critico dell'economia politica, introduzione a: Antonio Gramsci, Scritti di economia politica, Bollati Boringhieri, Torino. 
Robertson, Dennis H. (1936) Some Notes on Mr, Keynes' General Theory of Employment, Quarterly Journal of Economics 51, pp. 168-91. 
Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online
Originale: http://temi.repubblica.it/micromega-online/tra-gramsci-e-sraffa-il-sodalizio-fra-due-comunisti-indisciplinati/#.WlO7J5Ogy-4.facebook

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