La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 4 luglio 2017

Il Totem della Germania da smontare


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di Fabrizio Marcucci
Cosa si nasconde dietro il "miracolo" della Germania? Chi lo ha pagato? E davvero conviene esportare il modello nell'intera Europa? A guardarli bene i dati smentiscono il racconto dominante.
Per alcuni è un miracolo. Altri lo definiscono un paradosso, pure pericoloso per il resto dell’Europa. I dati di una recentissima pubblicazione di Steffen Lehndorff, economista e ricercatore dell’Iaq, Istituto per il lavoro e la formazione dell’Università di Duisburg-Essen, fanno propendere per la seconda definizione.
E del resto già in diversi hanno tentato di smontarlo, il totem della Germania. Che a pensarci meglio, ha l’aspetto del totem, ma è una matrioska. Perché, incastrate l’una dentro l’altra, lì ci sono molte delle ragioni che spiegano almeno in parte la condizione deprimente in cui si trova tutto il continente: cioè perché i lavoratori vanno perdendo soldi, potere contrattuale e dignità; come si è gonfiata la bolla finanziaria che esplodendo ha provocato il disastro ovunque; e, infine, come funziona il circo dei media orientato da chi ha mezzi così potenti da riuscire a far credere che la Luna sia solo quella illuminata che vediamo dalla Terra. Invece no, la Luna ha anche un altro lato, che noi da qui non vediamo mai.

La storia del miracolo
La storia del miracolo che ci viene raccontata e che si è imposta nonostante le voci tacciate di eresia o poco meno, è questa: la Germania cresce più del resto d’Europa e ha una disoccupazione contenuta, che anzi è scesa negli anni della Grande Crisi, perché ha attuato per tempo riforme contro le odiate rigidità del mercato del lavoro e per il contenimento della spesa; ecco perché oggi fa buone performance. Ora, per cominciare a illuminare il lato oscuro della Luna si potrebbe partire dalla fine, cioè dagli effetti che quelle riforme hanno avuto sulla pelle di chi le ha subite. Dal 2000 al 2010 gli occupati a tempo pieno in Germania sono calati di 2,5 milioni, i part time aumentati di 1,8 milioni e si è assistito all’esplosione del fenomeno dei cosidetti mini-jobbers: oggi circa 7 milioni di persone che sulla carta lavorano fino a 15 ore a settimana per uno stipendio massimo di 450 euro. Occhio: la riforma del lavoro e del welfare – “Agenda 2010”, voluta dall’allora cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, che la mise in mano all’allora direttore delle risorse umane della Volkswagen, Peter Hartz – aveva come obiettivo dichiarato quello di istituire i mini-job per dare un’opportunità ai disoccupati meno qualificati per entrare nel mercato del lavoro. Bene: nel 2012, con la riforma a pieni giri, solo un quinto dei mini-jobber risultava sprovvisto di qualifiche professionali e titoli scolastici, condizioni nelle quali si trovava invece il 46 per cento degli iscritti alle liste di disoccupazione. Insomma, a cosa è servita, nei fatti, la riforma? A garantire alle imprese manodopera, anche qualificata, a prezzi più bassi rispetto al passato e con meno diritti. E c’è un dato che fotografa al meglio la situazione: se si prende in esame l’arco di anni 1991-2013, i profitti da investimenti di capitale in Germania sono saliti dell’80 per cento, i salari solo del 66 per cento. Ancora: secondo le statistiche raccolte dall’Eurostat, dal 2005 al 2014 è raddoppiata la percentuale di popolazione che, pur lavorando, si trova sotto la soglia di povertà (dal 4,8% del 2005 al 9,9% del 2014). Un balzo che non ha eguali in Europa. Nello stesso periodo, il rapporto tra il reddito detenuto dal 20% dei tedeschi più ricchi e il 20% di quelli più poveri è passato da 3,8 a 5,1. Anche in questo caso si tratta di uno dei balzi in avanti più sensibili del continente. In repubblica Ceca quel rapporto è diminuito, così come in Belgio. In Italia, pur partendo da un dato più alto, è rimasto sostanzialmente stabile (da 5,6 a 5,8). Eccoli, i frutti della riforma.

"Dal 2009 al 2014, dopo le riforme del lavoro e dello stato sociale, il divario tra il reddito detenuto dal 20 per cento dei tedeschi più ricchi e quello del 20 per cento più povero, è aumentato da 3,8 a 5,1

Ma fin qui, si obietterà, si sono guardate le cose in maniera unilaterale, cioè solo dalla parte di chi lavora o cerca lavoro. Ok, ma anche passando ai dati macroeconomici la sostanza non cambia. I “compiti a casa” o le cosidette “riforme strutturali” che la Germania ha fatto nella prima metà degli anni duemila non hanno portato grandi risultati né in termini di Pil, né di occupazione “vera”. Perché sì, il tasso di disoccupazione è calato, ma le ore lavorate e i dipendenti full time sono diminuiti. Come i salari, calati in termini reali, nella locomotiva d’Europa, del 6,2 per cento dal 2001 al 2009 (anche in questo caso una discesa senza eguali nel continente). “È come se una fetta di lavoro fosse stata divisa in pezzi più piccoli”, secondo l’efficace metafora di un altro economista dello Iaq, Matthias Knuth. E la crescita del Pil? Sempre sotto la media europea, certifica Eurostat, con un’inversione di tendenza solo dal 2011 (non dovuta alle “riforme”, come vedremo, anzi).

Gli effetti reali delle “riforme”
Ma allora, quali sono stati gli effetti di queste celebrate riforme che ora, visto il loro presunto potere taumaturgico, dovrebbero essere seguite dalle esangui economie dei restanti poco virtuosi stati europei? Ad un primo effetto si è già accennato: l’ampliamento della forbice profitti-salari a vantaggio dei primi. Ma c’è di più. Perché negli anni pre-crisi, grazie alla compressione degli stipendi medi ottenuta con Agenda 2010 e, prima, con la progressiva erosione della contrattazione collettiva e del ruolo dei sindacati, la Germania ha abbassato i costi di produzione incrementando notevolmente i margini di guadagno delle aziende operanti nell’export, settore strategico nell’economia tedesca. Sono così arrivati “profitti senza fare investimenti”, dice Lehndorff. E dove sono finiti allora quei soldi? Ecco la chiusura del cerchio: secondo una ricerca della Banca europea degli investimenti, quei capitali derivanti dalle vendite delle merci all’estero e “frutto della moderazione salariale e delle riforme del mercato del lavoro, sono stati utilizzati per acquisire asset stranieri”, ossia sono andati a finanziare debiti pubblici e privati tanto nel sud dell’Europa quanto negli Stati Uniti. Ora, quanti più capitali “facili” si hanno, tanto più li si vuol far fruttare, anche con operazioni finanziarie spericolate (cioè ad alto rendimento perché ad alto rischio). Di qui, lo spiega bene Luciano Gallino nell’ultimo suo volume lasciato a mo’ di testamento, la propensione all’utilizzo di strumenti via via più spregiudicati e, si badi, svincolati dall’economia reale, quella cioè che produce beni e servizi. E di qui l’esplosione di bolle finanziarie quando i crediti vengono non solo concessi, ma “spinti” (alzi la mano chi non si è mai visto recapitare nella cassetta della posta depliant con proposte di prestiti, ovviamente e sempre “vantaggiosissimi”) affinché il denaro generi denaro. Solo che, come insegna la vicenda dei titoli tossici della Lehman Brothers, può capitare che i denari non rientrino. E allora, come sanno bene i cittadini degli stati che hanno salvato dal fallimento banche piene di titoli tossici, sono dolori (e soldi da sborsare per tutti, cioè più tasse e meno servizi).

"Grazie all’abbassamento del costo del lavoro, sono aumentati i profitti delle aziende che sono stati investiti nella finanza e sono stati anche la causa delle bolle finanziarie di cui stiamo pagando le 
conseguenze

Già, ma adesso, si obietterà ancora, la Germania continua a crescere, e la disoccupazione a scendere. E soprattutto crescono anche i salari. Esatto. Perché il governo tedesco, resosi conto che la domanda esterna, vista la crisi, andava calando, ha fatto robuste iniezioni per agevolare l’aumento di quella interna. Cioè il contrario dell’austerity che impone al resto d’Europa. E ciò si è tradotto anche a livello di singole aziende e di clima generale in Germania, dove per un paio di decenni si è inseguito il mito dell’aumento della flessibilità esterna (la possibilità delle imprese di assumere e licenziare), e oggi invece si è tornati alla contrattazione coi sindacati per la flessibilità interna, cioè la modulazione delle ore di lavoro per dipendente in funzione delle oscillazioni del mercato, che si traduce in conservazione dei posti di lavoro.

Un paradosso, anzi tre, forse quattro
Ok, ma dov’è il paradosso? Ce ne sono più d’uno, a dire il vero. Primo: quello di definire riforme dei cambiamenti istituzionali che peggiorano le condizioni di chi li subisce. Secondo: quello di spacciare le stesse “riforme” per propulsori di miracoli, trasformandoli in modelli da seguire quando gli effetti, abbiamo visto, sono esattamente opposti (“se tutti avessero perseguito le politiche della Germania, in Europa non ci sarebbe stata domanda per le merci tedesche e la crisi sarebbe arrivata anche prima”, dice Lehndorff). Terzo: consentire a chi ha già ampie disponibilità economiche di arricchirsi ulteriormente a scapito di chi è costretto a vendere il proprio tempo per vivere, i lavoratori. Cosa questa, che oltre a peggiorare le condizioni di vita della gran parte delle persone, porta all’esplosione di bolle finanziarie virtuali i cui danni reali poi ricadono sulle spalle della collettività.
Infine, c’è il paradosso dei paradossi, ben nascosto nel lato oscuro della luna: a cosa serve produrre beni e servizi se tutto ciò non consente alle comunità, alle persone, di vivere decentemente, e anzi, arricchendo pochi e indebolendo molti? E soprattutto, a cosa serve quando lo strapotere dei pochi e la bramosia di far soldi coi soldi, porta a tempeste finanziarie i cui effetti si traducono in più tasse e meno servizi?
Originale: ribalta.info

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