La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 20 agosto 2017

Paura dei robots o paura della politica miope?

di Sergio Farris
Si parla sempre più spesso di avvento delle più recenti innovazioni tecnologiche (robotizzazione e industria 4.0) nei processi produttivi e delle possibili ripercussioni in termini di nuova disoccupazione, in un contesto nel quale questa è già troppo elevata. A parere di chi scrive, non bisogna avere timore nei confronti dell'innovazione tecnologica, ma piuttosto, nei confronti di una politica poco lungimirante. La nuova "rivoluzione tecnologica" (se di questo si tratterà, una volta che ne saranno meglio definiti i contorni e le potenzialità) può, almeno nel breve periodo, creare disoccupazione, andando probabilmente ad interessare le fasce professionali “medio-basse”.
Ora, anche supponendo che il tasso di incremento delle nuove forme di automazione e robotizzazione proceda spedito, l'unico modo affinchè il paventato ”effetto sostituzione” delle operazioni umane venga compensato, è che i benefici (gli attesi aumenti di produttività) derivanti dalle nuove tecniche vengano distribuiti a tutti i ceti sociali. Se l'incremento della capacità di creare ricchezza si riverbererà sull'intero corpo sociale, se cioè il miglioramento delle condizioni di “offerta” troverà un corrispondente miglioramento nelle condizioni della “domanda”, da ciò potranno derivare investimenti in ulteriori nuovi settori, in grado a loro volta di compensare l'iniziale “eccedenza” di lavoro.
Se, invece, il già notevole attuale divario fra l'offerta (la capacità produttiva) e la domanda (la capacità di acquisto dei prodotti) dovesse accentuarsi, si avrà una conferma della tendenza già denunciata da autorevoli economisti: quella relativa alla “stagnazione secolare”. Sarà, il mercato, in grado di provvedere autonomamente all'accennata distribuzione generale dei benefici?
Uno degli eterni rovelli degli economisti è se il mercato, ove dominano le scelte individuali tese alla massimizzazione dell'utilità, contenga adeguati meccanismi (o forze) in grado di condurre spontaneamente l'economia su un sentiero di crescita equilibrata. Ebbene, l'incedere della “Grande recessione” una decina di anni orsono, dovuta questa proprio a un grave fallimento del mercato globale, avrebbe dovuto rigenerare il favore dell'opinione politica (e della stessa professione economica) verso una riconsiderazione dell'intervento pubblico nelle questioni economiche.
La predilezione dell'azione politica per interventi “pro competitività nel mercato”, proseguita ostinatamente anche all'indomani della “Grande recessione” (Paolo Leon ha in proposito coniato l'espressione “poteri ignoranti”), oltre a provocare quello che Joseph Stiglitz ha definito “il decennio perduto”, ha invece consolidato un assetto istituzionale e di relazioni socioeconomiche che rende, allo stato attuale dei fatti, molto improbabile l'estensione generalizzata dei benefici che dalle nuove applicazioni tecniche dovrebbero sprigionarsi.
Una delle domande chiave, riecheggianti dal passato (quando le “macchine” fecero la loro comparsa), dovrà allora essere: a chi appartengono i robots? Sarà possibile la costituzione di soggetti caratterizzati da una proprietà “diffusa” degli impianti produttivi che incorporano le nuove tecnologie? In alternativa, se i benefici che deriveranno dalla proprietà dei robots dovessero, come è probabile, tradursi e restare confinati in un ristretto (esclusivo e oligarchico) numero di patrimoni, il potere pubblico sarà capace di mutare indirizzo politico e ideologico così da poter approntare strumenti di intervento per la redistribuzione della nuova ricchezza? Non mi riferisco tanto alle dibattute questioni del reddito di cittadinanza e della tassazione dei robots, ma soprattutto all'opportunità, per le autorità pubbliche, di farsi promotrici di una politica fiscale maggiormente progressiva, mirata alla realizzazione di più investimenti in servizi pubblici, proprietà pubblica strategica, nonché piani per la piena e genuina occupazione (non certo lo scarso lavoro, povero e precario, indotto dalle cosiddette “riforme strutturali” come il jobs act). Sarebbe anche un passo in direzione del recupero, da parte delle istituzioni democratiche, della fiducia popolare la quale è (comprensibilmente) sempre più rarefatta. Conosco la facile obiezione: il ritorno del “pubblico” sarebbe improponibile. Ma, nel prossimo futuro, si tratterà di scegliere fra una società sempre più oligarchica e una società un minimo più democratica.

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