La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 5 gennaio 2018

Donne e lavoro, facciamo come l'Islanda


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di Chiara Saraceno
Ora sarà più difficile per i datori di lavoro islandesi aggirare le norme, che pure esistevano da tempo, sulla parità salariale, demansionando le donne o discriminandole nei percorsi di carriera.
La nuova legge, approvata l’8 marzo scorso dopo uno “sciopero delle ore non pagate” messo in atto dalle donne, ed entrata in vigore con il nuovo anno, sposta proprio sui datori di lavoro l’onere della prova. Dovranno dimostrare che non fanno discriminazioni né salariali né di carriera, a parità di qualifiche, per ottenere una certificazione, obbligatoria, positiva. In caso contrario, dovranno mettersi rapidamente in regola e pagare una multa salata. Il tempo che la legge dà per raggiungere la piena parità è contenuto: quattro anni, fino al 2022.
La legge islandese, che segue quella che ha imposto di non scendere al di sotto del 40% di donne nei consigli di amministrazione, è un cambio di passo importante in una materia che troppo a lungo è stata lasciata alle dichiarazioni di principio e anche quando è stata regolata da norme nazionali e internazionali è stata disapplicata, come testimonia il persistente gender gap nei salari.
Ora, in Islanda (ma anche il Regno Unito si sta muovendo nella stessa direzione) i datori di lavoro sono fatti responsabili dell’applicazione della norma, con lo Stato come garante nei confronti delle donne e delle minoranze. Il Paese, che a livello internazionale è definito tra i più egualitari, non distoglierà più lo sguardo di fronte a questa ingiustizia, senza temere di apparire troppo statalista o di interferire “con le leggi di mercato”.
Al contrario, ha valutato come queste siano spesso frutto della combinazione di stereotipi culturali e difesa di privilegi. Affidarsi alla moral suasion per modificarli non basta. Occorre muoversi sul piano di obblighi e punizioni. Anche in Italia la parità salariale, oltre a trovare fondamento negli articoli 3 e 37 della Costituzione, è stata normata per la prima volta per legge nel 1956, ribadita nel 1977, con la legge sulla parità di trattamento, e infine con il decreto legislativo 198/06 (cosiddetto codice delle pari opportunità). Tuttavia rimangono sia un forte divario di genere nella partecipazione al mercato del lavoro (siamo al quarantunesimo posto tra i Paesi Ocse) sia un divario salariale.
Non inganni, infatti, il dato che mette l’Italia tra i Paesi più “virtuosi”, con un modesto gap del 5,6% a sfavore delle donne, rispetto ai divari ben più alti di altri Paesi, compresa l’Islanda. Il fatto è che in Italia la partecipazione delle donne al mercato del lavoro non solo è bassa.
È anche molto selettiva, coinvolgendo principalmente le donne più istruite. Il confronto con gli uomini non è tra gruppi omogenei, stante che tra questi ultimi non vi è selettività nella partecipazione. A parità di qualifiche, il gender gap italiano è simile alla media. Ad esempio, a cinque anni dalla laurea le giovani donne guadagnano l’83% di quanto guadagnano i loro coetanei con lo stesso titolo di studio. In generale, pure per le donne che non escono dal mercato del lavoro per le difficoltà di conciliare lavoro e famiglia, le carriere sono più lente di quelle degli uomini e le maternità spesso penalizzanti. C’è quindi spazio perché anche da noi si passi dalle affermazioni di principio alle azioni, con un’iniziativa del Parlamento prima e degli organismi dello Stato poi. Ci sono le forze e la volontà per imporre la questione nelle agende politiche, senza farsi ricattare dalla priorità del lavoro a ogni condizione?
Fonte: micromega.blogautore

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