La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 29 luglio 2015

Cina e globalizzazione: il debito, infrastrutture delle economie contemporanee

di Marco Bertorello
A metà luglio l’Economist ripor­tava una bat­tuta su come in Cina si fosse pas­sati da un mer­cato azio­na­rio che per la sua robu­stezza asso­mi­gliava a un toro (bull mar­ket) a uno che costi­tuiva una trap­pola per orsi (bear market).
In effetti fino a poco tempo fa le intem­pe­rie finan­zia­rie cinesi veni­vano con­si­de­rate pas­seg­gere dagli ope­ra­tori, come acquaz­zoni di sta­gione a cui sarebbe seguito il bel tempo. Tali con­vin­zioni si basa­vano su una cre­scita che, pur in via di ridi­men­sio­na­mento, si atte­stava su un robu­sto 7% annuo, e soprat­tutto su un ruolo della finanza con ancora una quota da paese emer­gente rispetto al Pil.
Nell’ultimo decen­nio, infatti, il valore del Pil è cre­sciuto di sei volte, men­tre quello della Borsa di due, e la capi­ta­liz­za­zione della Borsa sul Pil è pari al 40%, cioè a meno della metà di molti paesi occidentali.
In que­sti mesi l’instabilità greca ha assor­bito pie­na­mente l’attenzione euro­pea. Ora che tale fat­tore appare risolto, il crollo della borsa di Shan­ghai di due giorni fa (-8.5%) appare per quello che è: una poten­ziale crisi della Cina, indice delle dif­fi­coltà dei paesi di cui essa è capo­fila. Le cause di tale affanno sono, come spesso accade, mol­te­plici, ma tutte ricon­du­ci­bili da un lato alla man­cata cre­scita glo­bale, spe­cie nei paesi occi­den­tali, dall’altro alla con­se­guente con­tra­zione della capa­cità di ven­dita dei paesi che hanno fon­dato la pro­pria eco­no­mia sull’export. Le scelte della Fed, poi, non sono ininfluenti.
Dalla seconda metà del 2014 la banca cen­trale ame­ri­cana ha abo­lito il quan­ti­ta­tive easing e entro la fine dell’anno è pre­vi­sto l’aumento del tasso d’interesse, insomma ha con­tri­buito a creare le con­di­zioni per una riti­rata degli inve­sti­menti di paesi emer­genti che ave­vano goduto delle poli­ti­che mone­ta­rie espan­sive. Ciò ha deter­mi­nato un deprez­za­mento delle loro monete e feno­meni di fuga di capi­tali e di rifu­gio nel dollaro.
A tutto ciò va aggiunto che la con­tra­zione della cre­scita cinese ha signi­fi­cato una ridu­zione della domanda delle mate­rie prime e quindi del loro prezzo, con pesanti rica­dute su paesi espor­ta­tori come il Bra­sile (è noti­zia di que­sti giorni la pre­vi­sione del segno nega­tivo per l’economia carioca per il 2015). L’aspetto più stra­bi­liante però è costi­tuito da come i pro­cessi di glo­ba­liz­za­zione abbiano modi­fi­cato i ritmi di svi­luppo, facendo bru­ciare le tappe per i paesi emer­genti rispetto a quelli più svi­lup­pati. La Cina, fab­brica del mondo, ha visto il debito delle pro­prie aziende pas­sare dal 98% del Pil nel 2008 al 160% nel 2014.
Que­sto inde­bi­ta­mento spesso non giunge da canali ban­cari, è stato incen­ti­vato attra­verso sconti fiscali e ha dato vita a feno­meni di finanza crea­tiva. Esi­stono così imprese manu­fat­tu­riere che val­gono in borsa 10 o 20 volte il loro fat­tu­rato e il loro patri­mo­nio. Una leva finan­zia­ria estrema dilaga pro­prio nel cuore dell’economia reale e fa temere per l’esplosione di una bolla. Si è, inol­tre, affer­mato un sur­plus nel set­tore delle costru­zioni con un cre­scente inven­duto. Feno­meni di finanza dif­fi­cil­mente sepa­ra­bili dall’economia coniu­gati con pro­cessi tra­di­zio­nali di sovraproduzione.
L’Eco­no­mist iro­nizza sull’incapacità della nomen­cla­tura cinese a gestire i mer­cati e si augura ulte­riori aper­ture, ma non pos­sono sfug­gire le strut­tu­rali simi­li­tu­dini che esi­stono nell’economia glo­bale. Il debito è diven­tato l’infrastruttura dell’economia con­tem­po­ra­nea a tutte le lati­tu­dini. Non sono scon­tati gli esiti di tale para­bola, non è detto che esplo­de­ranno bolle con un con­ta­gio a livello inter­na­zio­nale, ma per­lo­meno pos­siamo rico­no­scere che in que­sta fase i paesi emer­genti non fanno più parte della solu­zione dei mali che afflig­gono l’economia mondiale.

Fonte: il manifesto

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