di Ross Douthat
L’era di Trump ha spinto alla riflessione la nostra élite — nottate passate a leggere Elegia americana per lo più, — ma ha anche sollevato un’ondata di orgoglio cosmopolita. Alla promessa elettorale di Trump di fare l’America di nuovo grande, Hillary Clinton rispondeva dicendo che l’ « America è già grande » , intendendo dinamica, multiculturale, tollerante e orientata al futuro, tutte caratteristiche che Trump sembra rifiutare e che paiono spaventare i suoi elettori. Il concetto che l’America sia già grande è stato ribadito in molte sedi dall’élite e la settimana scorsa Will Wilkinson del Niskanen Center, sul Washington Post, ne ha dato una motivazione precisa: a far grande l’America sono le sue grandi, fiorenti città liberali.
Secondo Wilkinson, Trump ama denigrare le metropoli americane, dandone immagini da incubo, stile Il giustiziere della notte o Quel pomeriggio di un giorno da cani perché il nostro presidente sente il bisogno di “diffondere l’idea che la metropoli poliglotta sia un pericoloso fallimento”. In realtà invece le nostre città sono effettivamente già grandi: più sicure che mai, ricche culturalmente, dense di innovazione politica, motori del nostro futuro economico. Sono sempre più luogo di aggregazione di immigrati e laureati che, grazie alla cooperazione e allo scambio, associano le competenze producendo innovazione, mentre l’entroterra trumpiano marcisce nell’astio e nella nostalgia.
Secondo Wilkinson, Trump ama denigrare le metropoli americane, dandone immagini da incubo, stile Il giustiziere della notte o Quel pomeriggio di un giorno da cani perché il nostro presidente sente il bisogno di “diffondere l’idea che la metropoli poliglotta sia un pericoloso fallimento”. In realtà invece le nostre città sono effettivamente già grandi: più sicure che mai, ricche culturalmente, dense di innovazione politica, motori del nostro futuro economico. Sono sempre più luogo di aggregazione di immigrati e laureati che, grazie alla cooperazione e allo scambio, associano le competenze producendo innovazione, mentre l’entroterra trumpiano marcisce nell’astio e nella nostalgia.
Mi permetto di dissentire. È vero che per molti dei loro abitanti, in particolare i giovani e i più abbienti, le nostre città progressiste sono luoghi piacevoli in cui lavorare e divertirsi. Ma pur essendo multiculturali sotto certi aspetti, per altri sono segregate, a partire dalle cosiddette whiteopias (utopie per bianchi), a maggioranza di popolazione bianca, come Portland, fino alle città balcanizzate, come la capitale o Chicago. Se sono dinamiche è pur vero che sono talmente ricche — e rigidamente vincolate sotto il profilo urbanistico — che la classe media non può permettersi di abitarvi e all’interno dei loro confini le nascite sono in calo.
La loro rapida crescita è spesso legata ai finanziamenti pubblici e alle tutele garantite secondo il principio del “troppo grande per fallire”; sono capitali di innovazione ma in una forma che genera meno posti di lavoro rispetto allo sviluppo tecnologico del passato. Se producono un certo fermento intellettuale è anche vero che sono il recinto della nostra intellighenzia progressista e in realtà hanno indebolito il liberalismo, concentrandone i voti.
Davvero l’apogeo di questi agglomerati meritocratici ha fatto più grande l’America? Secondo me no. Nell’era della città liberale — che coincide, si può dire, con la ripresa urbana degli anni Novanta — la crescita economica si è indebolita, l’inadeguatezza politica si è aggravata, e il progresso tecnologico al di fuori del settore online ha subito un rallentamento. Il liberalismo è diventato più tronfio e fuori dalla realtà; il conservatorismo più anti-intellettuale e buffone.
La genialità della coscienza collettiva prodotta dalla concentrazione delle intelligenze migliori ci ha dato fantastiche app e qualche programma televisivo di cui fare indigestione, ma gli anni 2000 e 2010 non sono esattamente paragonabili al rinascimento fiorentino.
Veniamo a una delle mie proposte inverosimili se non addirittura ridicole: dovremmo trattare le città progressiste come i progressisti trattano i grandi monopoli — non come fonte di crescita, ma alla stregua di concentrazioni di ricchezza e potere che cospirano contro il bene pubblico. E invece di tentare di renderle più egualitarie grazie a vincoli urbanistici meno rigidi e a un’edilizia più accessibile, dovremmo seguire l’esempio di Teddy Roosevelt e cercare di farle a pezzi. Partiamo con la cosa più semplice: prendiamo gli uffici del governo federale, oggi concentrati nel vampiresco agglomerato urbano della Greater Washington D.C., e dislochiamoli in stati più poveri e in città più piccole, che hanno bisogno di essere rivitalizzate.
Ma fare a pezzi Washington servirebbe a poco. Per questo andremo oltre, a partire dalle ricche università d’élite. Tasseremo pesantemente le loro donazioni offrendo invece esenzioni agli atenei che espandono il loro corpo studentesco con sedi satellite in aree dal reddito ben inferiore alla media. Il Mit a Flint suona bene. E lo stesso vale per Stanford-Buffalo, o Harvard sul Mississippi. Una tassazione analoga si applicherebbe alle grandi organizzazioni senza scopo di lucro: per ottenere l’esenzione fiscale totale bisogna dar prova di impiegare personale in stati e città a basso reddito. La Federal Trade Commission (Ftc) dovrebbe considerare la concentrazione geografica di un’impresa come indicatore di monopolio, approvando fusioni nell’ottica di disseminare l’occupazione.
Traduzione di Emilia Benghi
Fonte: La Repubblica, Robinson, 28 maggio 2017
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.