La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 20 maggio 2016

Perdere la propria casa

di Giovanni Semi
Perdere la propria casa non equivale a una perdita qualsiasi. Quando si è costretti a lasciare il luogo dove magari si è nati, si è passata una parte importante della propria vita o si pensava di rimanere a lungo, non è il sorriso la smorfia prevalente. Generalmente, poi, eventi così distruttivi si sommano e accompagnano a fasi economiche più instabili, com'è il caso della situazione attuale in cui l'aumento di sfratti e pignoramenti nei paesi occidentali sta aumentando con l'aumentare delle difficoltà economiche generali. Piove sul bagnato, dunque, non fosse che la metafora non illustra correttamente che alcune persone possono disporre di un ombrello, altre no. La situazione è dunque strutturale e tutti i paesi più "avanzati" la stanno sperimentando e, in qualche caso, studiando.
Ad esempio una ricercapubblicata nella rivista scientifica americana American Journal of Public Health ha mostrato come tra il 2005 e il 2010 il numero dei suicidi legati a sfratti e pignoramenti sia raddoppiato con l'aumento repentino di queste "perdite di casa" (per capirsi, i soli pignoramenti negli Stati Uniti e nello stesso periodo sono cresciuti del 390%). E nel nostro paese?
Non abbiamo dati certi e precisi di natura epidemiologica, ma se il nesso tra crisi, perdita della casa e salute è molto probabile, sapere, come ci dice ilMinistero dell'Interno, che il numero di sfratti emessi in proporzione alle famiglie italiane continua a crescere di anno in anno (nel 2014 riguardava 1 famiglia ogni 334), che le richieste di sfratto sono aumentate del 31% tra 2010 e 2014 e che le esecuzioni, nello stesso periodo, sono cresciute del 20 % non fa ben sperare.
Quando guardiamo queste realtà e questi dati "dall'alto" dei numeri aggregati, siamo portati a riconoscere la loro problematicità ma ne restiamo comunque distanti. Facciamo fatica a vedere le persone dietro ai numeri, soprattutto in un paese con gravi carenze di alfabetizzazione scientifica e dove il dibattito pubblico, su questo come su altri temi decisivi, è spesso al di sotto di qualsiasi standard di decenza.
Per queste ragioni vi raccontiamo di un caso, che è singolo, particolare, ma non per questo meno generalizzabile, importante o tragico. Torino, la seconda provincia italiana per sfratti dopo Bari in rapporto al numero di famiglie, è ancora sotto la scure della crisi economica globale e di quella locale e alcuni quartieri la pagano in maniera più significativa. Per chi avesse del tempo a disposizione, consiglio di fare un giro a Borgo Dora, già parte del più noto Porta Palazzo, e di imboccare l'omonima via acciottolata. Quasi verso la fine, quando la via scende verso il fiume Dora e si apre nello slargo che ospita il Cortile del Maglio e poi l'ex Caserma Cavalli, dove opera un'organizzazione culturale importante come la Scuola Holden, c'è un ultimo caseggiato sulla sinistra. Al piano terra ospita una trattoria tradizionale e piuttosto nota in città, la Valenza, e appena sopra vede tre piani di abitazioni per circa quattordici appartamenti. Si tratta di uno stabile popolare, nel senso che è abitato da famiglie decorose e appartenenti a quel "popolo" di cui si parla sempre meno. Sono tutte di origine straniera, come non è strano per un quartiere che è sempre stato storicamente quello di primo arrivo per ogni nuovo torinese. Il fatto che non sia strano non deve però lasciar intendere che sia normale o, persino, giusto. Bisogna infatti capire come quelle famiglie, in grande maggioranza marocchine, siano arrivate lì.
Occorre dunque dedicarsi alla storia dello stabile e di quella realtà, come hanno fatto in maniera magistrale degli studenti e attivisti torinesi. L'intera vicenda è riassunta qui molto meglio di come potrei farlo io. Il punto è che questo palazzo ha una storia che possiamo ritrovare ovunque in Italia, a Genova come a Roma o Napoli, fatta di stabili fatiscenti, proprietari assenti o comunque noncuranti, condizioni sociali e abitative ingiuste che hanno selezionato abitanti poveri. Questi abitanti hanno spesso pagato cifre molto più alte di quanto avrebbero dovuto, visto il tipo di alloggio loro offerto e si sono comportati in maniera corretta per anni, pagando quando era il momento, compiendo riparazioni, etc. In quelle stanze sono nati e cresciuti bambini, invecchiate generazioni, vi è stata vita, nel senso più forte e quotidiano del termine.
Ora qualcosa sta cambiando. Un imprenditore ha acquistato l'intero stabile, sono partite le procedure di sfratto, sigillati alcuni appartamenti già vuoti. Il mercato vince, le famiglie perdono. Come una nave che va a picco, alcuni cercano di aiutare gli altri, molti pensano a strategie individuali per salvarsi, mentre l'armatore è ben contento che affondi in fretta, così da poterla poi ricostruire più bella e più nuova di prima. Nel quartiere regna un misto d'indifferenza, perché tanto "sono marocchini", di sconforto e di rabbia. Come andranno le cose è già scritto, il Comune non si è mosso prima e non lo farà certo ora: in fondo perché opporsi a un intervento di riqualificazione a opera di privati, che non implica oneri e rimette in circolazione alloggi rimessi a nuovo in un contesto dove ci sono già stati diversi interventi di valorizzazione? Per le famiglie, diranno alcuni. Per un ideale che non è poi tanto vago di giustizia sociale urbana, diranno altri.
Penso che ci sia una terza ragione da considerare: perché questi processi sono spesso epidemici. Come epidemica è una crisi strutturale, che spazza via lavori, redditi e biografie in una catena difficile da arrestare, altrettanto accade per il domino della gentrification. Cade una tessera e, a catena, cadono le altre. Arrivano altri imprenditori, altre opportunità da cogliere, e il quartiere viene riqualificato. Da chi, da cosa? Per chi, per cosa? Ciascuno risponda come crede a queste domande, ma abbia almeno l'onestà di porsele. Nel frattempo, consiglio a tutti di andare in via Borgo Dora 39 e parlare con gli inquilini. Molte delle certezze incrollabili che abbiamo su cosa è giusto e cosa non lo è potrebbero cambiare, ed è forse questo il senso più compiuto dell'esperienza urbana.

Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.