La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 27 gennaio 2018

Die Linke e France Insoumise, il difficile dialogo sul tema dell'Europa









di Lorenzo Carchini
Recentemente a Berlino su invito della sinistra radicale tedesca, Jean-Luc Mélenchon ha parlato di Europa, ma il tentativo di riavvicinamento tra France Insoumise e Die Linke ha rivelato i profondi equivoci tra due movimenti politici che parlano lingue diverse, per diversi motivi.

Il leader del Fronte di Sinistra e di France Insoumise non ha mai nascosto la propria ostilità verso la Germania e la sua posizione dominante in Europa. La pubblicazione del suo opuscono “Le Hareng De Bismarck – Le poison allemand” nel 2016 lo aveva addirittura portato ad essere accusato di germanofobia. Con questi precedenti, l’incontro dello scorso 14 Gennaio è stata l’opportunità per riconnettersi con gli alleati di Die Linke, respingendo le critiche formulate dai media francesi, indicando nei suoi obiettivi i governi di Angela Merkel. Finita però questa parte cosa ci rimane dei rapporti tra sinistre radicali francese e tedesca?
Potrà sembrare aneddotico, ma il primo problema è stato
che Jean-Luc Mélenchon non parla tedesco. Lo ha ricordato anche prima di cominciare il suo discorso, non senza una nota di umorismo: “Che peccato non essere stato uno studente migliore a scuole ed aver imparato il tedesco”. Questo problema di linguaggio, però, testimonia anche un diverso percorso personale, come sappiamo più rivolto al mondo ispanico. Fu infatti la sinistra sudamericana degli anni 2000, oggi ormai giunta alla fine del suo ciclo, ad essere di forte ispirazione, rivitalizzando Mélenchon e compagni. Successivamente sarebbe stato Pablo Iglesias con Podemos in Spagna a spingerlo verso l’idea di France Insoumise. Con lui gli incontri sono stato diversi spesso esprimendosi in spagnolo. La lingua tedesca, così come il mondo germanico, non fanno invece parte della profonda identità di Mélenchon e della cultura politica che ha forgiato, lontana dal “vecchio continente” che percepisce come bloccato nella sua identificazione occidentale, vicina all’idea di Francia come “nazione mediterranea”, sul modello sudamericano e del Maghreb. Allo stesso modo, non ha mai nascosto l’influenza dello storico Jules Michelet sulla sua visione romantica della Rivoluzione francese, ricordando come le idee rivoluzionarie abbiano ispirato i movimenti indipendentisti latini guidati da figure come Simon Bolivar o Francisco Miranda. La scelta di tornare a questa filiazione più che alla Primavera dei Popoli, o all’esperienza comunarda o ancora alla rivoluzione Spartachista, è forse un esempio della difficoltà di Mélenchon nel comprendere l’identità stessa della sinistra radicale tedesca. Tuttavia non sono mancati i tentativi di avvicinamento, evidenziando il rapporto di amicizia con Oskar Lafontaine, uno degli uomini forti di Linke, definito un proprio modello politico, affermando senza mezzi termini: “Io sono uno dei risultati di Die Linke”. E’ vero, la rottura a sinistra operata da Mélenchon ha in parte seguito lo stesso percorso di Lafontaine, nativo socialista della Saar che lasciò la SPD nel 2004 per creare la WASG (Die Arbeti un Soziale Gerechtigkeit Wahlalternative). Fu la fusione tra questo partito ed gli ex comunisti della Germania dell’Est che nacque Die Linke. In realtà parliamo di due distinti oggetti politici. Certo, entrambi volevano rompere con la socialdemocrazia, combinando ex membri socialisti e comunisti. Tuttavia, il fondamento storico delle due parti differisce profondamente: Die Linke è figlio della storia spezzata della Germania. Non solo le sue affermazioni elettorali mostrano ancora una divisione Est-Ovest, ma anche l’immagine del partito ne è tutt’ora un riflesso. Ad est, ad esempio, è considerato un partito governativo, che si è dimostrato capace di allearsi con SPD ed i verdi, superando le fratture storiche. Così Linke è riuscita ad imporsi in Turingia o a Berlino, con una coalizione Rot-rot-grün (SPD, Linke, verdi). Al contrario, a Ovest il partito è ancora visto con scetticismo. Nella Saarland, alla ultime elezioni, avremmo potuto assistere ad un laboratorio per testare l’ingresso di Die Linke in un governo occidentale, ma la minaccia di una coalizione con la SPD ha permesso ai conservatori di far leva sulle vecchie paure dell’elettorato occidentale. Al di là di questo peso “storico”, la differenza fra Francia e Germania è oggi ancor più lampante, come dimostrano i rispettivi rapporti con PS e SPD. La strategia di Mélenchon è chiara: soppiantare i socialisti e lanciare una totale ricomposizione dello spettro politico. La differenza delle campagne presidenziali 2012 e 2017 mostra chiaramente il desiderio di cambiare l’immagine, cancellando i riferimenti al comunismo, liberandosi anche dell’etichetta “di sinistra”. Il discorso è paradossalmente più virulento in Francia contro il PS, che in Germania contro SPD, anche se lo spostamento di Schröder e la politica che ha condotto sono molto più vicine all’attuale progetto di Macron rispetto a quello di Hollande. Stranamente, in Germania il dialogo non è stato completamente interrotto.
Sebbene nessuno metta in discussione l’impraticabilità di una coalizione a livello nazionale, nessuna delle parti ha mai escluso il discorso a priori. Evitano accuratamente l’argomento, o chiedono sostanziali compromessi. Die Linke si pone come condizione per una vera politica di sinistra della SPD, mentre quest’ultima si propone come un’inversione di tendenza nelle scelte di politica estera di Linke. Di fronte a tali traiettorie e strategie divergenti, è quindi naturale che manchi una comprensione tra la sinistra tedesca radicale e il movimento francese. Non possiamo dire che i rapporti fra i due partiti siano stretti o numerosi. Mentre Mélenchon ha partecipato attivamente alla campagna per SYRIZA in Grecia e Podemos in Spagna, il sopporto per Die Linke non è mai stato così entusiasta. Al contrario, Linke è stato colto di sorpresa dal fenomeno ribelle in Francia, arrivando a vedere in Mélenchon il rischio di un “populista di sinistra antieuropeo”. L’operazione a Berlino di Mélenchon è il tentativo di una debole amicizia che cerca di evitare di aggiungere una divisione alla divisione? Certo, non si può negare la sincera amicizia fra i due uomini Mélenchon e Lafontaine, ma i francesi che hanno familiarità con il paesaggio politico tedesco, non vedono in Oskar l’alter ego di Jean-Luc. Il leader di France Insoumise è stato in grado di presentarsi come un leader carismatico e una figura centrale della sinistra. Priaccia o no, è seguito nelle sue posizioni da tanti attivitisti ed è riuscito a raggiungere il 20% nel primo turno delle presidenziali. Dall’altra parte del Reno, Lafontaine non gode né della stessa aura, né dello stesso successo. Nella Saar, è riuscito a far debuttare Die Linke al 21,3% nel 2009, ma il partito si è poi progressivamente eroso scendendo al 16,1% nel 2012 e al 12,8% nel 2017. La Fontaine rappresenta una corrente minoritaria all’interno del partito e sua moglie Sahra Wagenknecht hanno spesso avvicinato alla definitiva spaccatura. Recentemente, Oskar e consorte hanno lanciato l’idea di un nuovo partito di massa, sul modello del “Volkspartei” (di cui CDU/CSU e SPD sono gli archetipi), senza scaldare particolarmente il resto dei membri. Un’idea partorita propria ispirandosi al modello dei ribelli francesi, la cui affermazione elettorale aveva suscitato grande clamore e che non esclude che la visita di Mélenchon – ma questo è qualcosa al di sopra della sua testa – potesse giocare a favore del “clan” La Fontaine. Ciò che però interessa la sinistra radicale francese è il cosiddetto “dégagisme”, il “disimpiego” sull’esempio della rivoluzione tunisina. Termine lanciato proprio da Jean-Luc Mélenchon, è stato più volte ripreso dai media francesi per descrivere il grande pasticcio dell’attuale scena politica transalpina. Tra le primarie di destra con l’uscita di Nicolas Sarkozy e Alain Juppé, il fallimento di François Fillon, il crollo socialista e la vittoria di Macron, la Francia ha messo in moto un movimento di fuoriuscita dai partiti tradizionali. Tuttavia, in Germania il termine non trova equivalenti. Come può essere spiegato? Innanzitutto, possiamo notare come i recenti movimenti in Europa come SYRIZA o Podemos – dai quali France Insoumise ha attinto a piene mani – hanno portato un cambiamento radicale alla scena politica europea, emergendo non per caso da paesi duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, la Germania non si sente in crisi, sebbene la precarietà sia reale e colpisca un importante segmento della popolazione. Inoltre, la Germania è fondamentalmente un “paese di partiti”. La Francia impiegò molto tempo prima di capire il vero significato del termine “Volkspartei”. La SPD è il più antico partito socialdemocratico europeo. Fu creato dopo l’unificazione del paese nel 1875, è sopravvissuto al nazismo e alla riunificazione. Nonostante un cambiamento radicale della dottrina, con l’abbandono della retorica da lotta di classe in favore dell’economia di mercato, anche tentando la “terza via” con Schröder, il partito non ha mai cambiato nome e ha mantenuto una certa base popolare. E ancora, nonostante il peggior risultato dal dopoguerra, la sua fine appare lontana, visto che i tedeschi si sono sempre rassegnati alla scelta della stabilità – in questo caso con una nuova GroKo, grande coalizione, che consentirà alla Merkel di rimanere al potere. La Germania, quindi, non sembra essere un terreno fertile per il “dégagisme” e ancor meno per la sinistra radicale. Katja Kipping, di fronte alle proposte di un nuovo partito di massa di sinistra, ha risposto seccamente che questo esiste già, Die Linke e la possibilità di un crollo dei partiti tradizionali potrebbe favorire più l’estrema destra. In generale, France Insoumise e Die Linke appaiono come due movimenti irriducibili, e questo sembra essere l’unico vero punto di accorto tra le due formazioni. Tra i timidi applausi durante l’intervento, Mélenchon ha avuto diritto ad una standing ovation quando han discusso delle relazioni tra Europa, Russia e NATO. “La Russia non è il nemico, è un partner”; “ No alla guerra, no all’armamento, no alla NATO”; “Non vogliamo un’Europa della difesa”. Ecco i punti sui quali France Insoumise e Die Linke sembrano davvero d’accordo. Di fronte alla disintegrazione dell’Europa, sono stati enumerati altri aspetti per un “Piano B”: ridiscutere le politiche di austerità, conferenza sul debito, confini e rifiuto dell’Europa dettata da Parigi e da Berlino. I membri di Die Linke possono essere d’accordo su questi punti, che tuttavia non sono ancora al centro di un dibattito che troppo risente della mancanza di veri anelli di congiunzione che permetterebbero concretamente di stabilire dei rapporti saldi. Quello che è emerso, più che un insieme di inimicizie, è un’incapacità di parlarsi e di capirsi. Mentre la Francia vive il suo disordine politico nel “dégagisme” teorizzato da Mélenchon, in Germania la parola chiave resta stabilità. Gli schemi classici dei partiti e delle alleanze politiche sussistono persino nella sinistra radicale. In un tale contesto sorge la domanda: un progetto politico comune potrà far rivivere la sinistra europea prima delle elezioni del 2019?

Fonte: sinistraineuropa.it

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