La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 6 febbraio 2018

Il lavoro senza libertà nell’industria tessile dell’India







di Chiara Spadaro 
Le condizioni delle donne migranti impiegate nella filiera di Bangalore sono da “schiavitù moderna”. È quanto emerge da un nuovo report curato tra gli altri dalla campagna internazionale “Abiti puliti”. Tra le fabbriche osservate anche quelle che riforniscono grandi marchi internazionali

Vivono in condizioni di “schiavitù moderna” le donne migranti impiegate nell’industria tessile di Bangalore, in India. È quanto emerge dal nuovo report “Labour Without Liberty. Female Migrant Workers in Bangalore’s Garment Industry” (“Lavoro senza libertà. Le lavoratrici migranti nell’industria dell’abbigliamento di Bangalore”), curato dall’organizzazione per i diritti umani India Committee of the Netherlands (http://www.indianet.nl/english.html), che ha sede a Utrecht, la Clean Clothes Campaign (https://cleanclothes.org/) e il sindacato femminile di Bangalore Garment Labour Union (http://glu.org.in/). Il rapporto prende in analisi la critica condizione delle donne migranti occupate nelle fabbriche tessili indiane che riforniscono grandi marchi internazionali, come Benetton, l’olandese C&A, la statunitense GAP, la svedese H&M, Levi Strauss, l’inglese Marks & Spencer e PVH (che detiene i marchi Calvin Klein e Tommy Hilfiger). Il mercato tessile indiano è una delle industrie più antiche del Paese: con un valore di 120 miliardi di dollari, è il secondo settore -dopo quello agricolo- che dà lavoro nel Paese, impiegando 45 milioni di persone e contribuendo al 4% del Pil. In questo contesto, Bangalore, nel sud dell’India, è il più grande polo nazionale di produzione di abbigliamento: 500mila lavoratori sono impiegati nelle fabbriche tessili di questa città; l’80% sono donne. Qui si produce il 20% dell’abbigliamento “made in India” e l’8% delle esportazioni tessili. Secondo i sindacati, ci sono tra le 15mila e le 70mila donne migranti del nord dell’India che lavorano nell’industria dell’abbigliamento di Bangalore. Ci arrivano dopo essere state addestrate nei centri di sviluppo delle abilità promossi dal primo ministro Narendra Modi, per creare opportunità di lavoro e stimolare la crescita economica. In particolare, la ricerca è stata condotta su tre fabbriche che danno lavoro a 4mila persone, dove le donne sono reclutate con false promesse sui salari e i benefit; la loro libertà di movimento è severamente limitata e vivono in condizioni precarie. Nell’industria tessile di Bangalore, secondo il rapporto, si violano “cinque degli undici indicatori dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) sul lavoro forzato”: si abusa della vulnerabilità, si ingannano le lavoratrici con false promesse, è ristretta la libertà di movimento, sono fatte intimidazioni e minacce e le condizioni di lavoro e di vita sono precarie. “Un terzo delle donne guadagna meno del salario minimo legale e fa straordinari senza ricevere il risarcimento previsto dalla legge. Molestie e intimidazioni da parte di supervisori e manager sono comuni” e più della metà delle donne ha subìto violenze, sia fisiche che psichiche. Le lavoratrici migranti non hanno altra scelta che alloggiare in un ostello, poiché non possono permettersi di affittare un appartamento, ma in questi dormitori con una cucina e due bagni in comune, “le condizioni di vita sono pessime e ci sono gravi restrizioni sulla libera circolazione” al di fuori. “La limitazione nei movimenti non solo isola le lavoratrici, ma è un indicatore del lavoro forzato”: i datori di lavoro, infatti, dettano le regole restrittive della vita in ostello come strumento per controllare le lavoratrici. Le multinazionali coinvolte nella ricerca hanno dei codici di condotta che proibiscono il lavoro forzato e minorile, ma in molti casi non hanno ancora messo in pratica impegni concreti in questo senso. Di fronte a questo nuovo rapporto le reazioni dei marchi sono state diverse: “Abercrombie&Fitch non ha risposto; Benetton, Columbia, H&M e M&S hanno dato risposte brevi; Decathlon, Gap, Levi’s e PVH hanno risposto in modo dettagliato”. La maggioranza di questi grandi marchi partecipa, formalmente, a iniziative collettive per migliorare le condizioni di lavoro (per esempio l’Ethical Trading Initiative, https://www.ethicaltrade.org/), ma ancora “mancano le azioni e spesso non è chiaro quali attività si stiano intraprendendo per affrontare la situazione dei lavoratori migranti”.

Fonte:altreconomia.it

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