La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 22 aprile 2016

La battaglia contro l’Europa, ripensando a Keynes

di Sergio Ferrari
Non è facile rintracciare nella pur ampia pubblicistica relativa alle complesse vicende che si sono dipanate nel corso degli anni della crisi internazionale, tuttora in atto, una rilettura in forme chiare e insieme non cronachistiche di tutta quella storia.
Il tutto con una scelta che occorre subito evidenziare come un pregio rilevante: una esplicita scelta di campo. Non a caso il volume di Fazi e Iodice si intitola “La battaglia contro l’Europa”[1] ma con un sottotitolo che ne evita da subito la confusione con posizioni di stampo nazional-reazionario Recita infatti questo sottotitolo: “Come una èlite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo”.
Lo scenario è dunque quello della costruzione dell’Europa nel corso della quale “l’aumento cospicuo del deficit e del debito pubblico verificatori nei paesi dell’UE in seguito alla crisi, sia imputabile quasi per intero ai salvataggi bancari” e non all’aumento della spesa pubblica, come sostengono i fautori dell’austerità, dimenticando l’erosione delle entrate pubbliche dovute ad una debole crescita economica – accentuata nel caso del nostro paese – e alla controrivoluzione fiscale con politiche antiredistributive e, quindi, con evidente crescita delle diseguaglianze sociali. Ricostruire in quest’ottica le vicende politico-economiche di questi ultimi decenni non tanto dell’UE ma di tutti quei paesi – e, quindi, delle relative vicende – che in varia misura si proiettavano entro quella storia, rappresenta una sfida che, occorre riconoscere, questi autori hanno superato. La questione non è di poco conto anche perché, come accennato, “la lettura” della storia non avviene sul quel versante liberista che avrebbe trovato ampi precedenti e consensi, ma è stata verificata in contrasto con la vulgata corrente. E si è verificata anche – e questo è un aspetto centrale – con un metodo che potrebbe essere chiamato “scientifico” nel senso di ricorrere alla prova dei fatti e dei numeri mettendo così ancora più in difficoltà il racconto liberista, e offrendo nel contempo un campo di ampio respiro interpretativo.
La prima parte di questo volume tratta con molteplici riferimenti e richiami, dunque, gli anni decisivi di questa lunga crisi, utilizzando un linguaggio che ne agevola fortemente la lettura; un linguaggio che sarebbe erroneo definire come “accademico” ma che certamente non è “giornalistico”, inteso, in questa occasione, come superficiale e approssimato. Nella seconda parte del libro che s’intitola “Una via d’uscita dalla crisi”, le difficoltà sono ben maggiori perché le prove “scientifiche” non possono avere la stessa evidenza e gli interlocutori, anche escludendo i sostenitori delle soluzioni in atto, sono sparsi su un arco politico-culturale che – utilizzando dizioni di altri tempi – và dal riformista moderato, al riformatore che non dimentica di verificare le sua proposta con i valori generali che rappresenta, alle soluzioni di chi pensa di poter superare la differenza tra la qualità degli obiettivi e la qualità degli strumenti. Se si dovesse cercare di individuare con poche parole quale è la stella polare che sembra aver guidato gli autori si potrebbe tentare di indicare i valori dell’eguaglianza e della libertà. Ma una tale attribuzione rappresenterebbe un ritorno a valori apparentemente passati, almeno se si cerca di misurarli con quelli correnti nella normale pubblicistica, i cui valori non sembrano disporre né di un passato né di un futuro. Non è dunque un caso se emergono queste considerazioni dal momento che nella seconda parte dello scritto il richiamo di Fazi e Iodice a Keynes come ispiratore delle possibili soluzioni per uscire dalla attuale crisi, rappresenta un riferimento certamente centrale. Il richiamo è a quella esperienza che vide nel secondo dopoguerra un Commissione internazionale di esperti incaricati di trovare le riforme necessarie non solo per rimediare ai disastri prodotti dalla seconda guerra mondiale, ma anche per cercare evitarne di nuovi. In particolare la proposta di Keynes di adottare una moneta comune internazionale e dotata di regole di comportamento opportune, venne bocciata a favore del ruolo da attribuire al dollaro, e dovette attendere la prima occasione di debolezza di questa soluzione. Con la conclusione negativa agli inizi degli anni ’70 di questa esperienza, la proposta di Keynes venne ripresa in occasione della definizione del Progetto del’UE, con un cambiamento del tutto evidente poiché vennero cambiate le “regole del gioco”, introducendo una moneta unica e non più comune e mettendo in primo piano l’obiettivo del vincolo di bilancio pubblico al posto della crescita e della qualità dello sviluppo. Un obiettivo già dalle origini autorevolmente chiamato “stupido” ma che, ciononostante è tuttora quello con il quale tutti i diversi paesi del’UE debbono fare i conti, avendo perso nel frattempo la propria Banca Centrale. In questa parte essenziale vengono descritte ed esaminate le articolazioni possibili e i diversi contributi offerti dal dibattito tutt’ora in corso. Costante resta quel tentativo metodologico di un approccio “scientifico” pur se i dati della prova sul campo non sono sempre, come ovvio, disponibili.
Tuttavia a questo punto l’osservazione non dovrebbe riguardare il metodo –che andrebbe tenuto presente da tutti gli interlocutori – ma due ordini di questioni: la prima riguarda le connessioni logiche dei processi economico-sociali a fronte di mutamenti che non appaiono eliminabili ma come delle costanti ancora sconosciute nella loro valenza . Ci si riferisce a processi difficilmente reversibili come la domanda di giustizia sociale, di gestione e di anticipazione dei flussi migratori, la natura e l’entità delle trasformazioni tecnologiche e il grado di controllo e di programmazione di queste trasformazioni, ecc. La seconda questione che resta aperta riguarda l’ipotesi se la gravità della crisi e il suo ripresentarsi a scadenze troppo ravvicinate, non possa indicare una difficoltà di tenuta del sistema capitalistico, almeno nei termini con i quali siamo abituati a trattarlo.

Fonte: syloslabini.info

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