La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 5 agosto 2016

Finanza pubblica e derivati

di Andrea Baranes
Le perdite potrebbero ammontare a decine di miliardi di euro. Solo per l'amministrazione centrale, perché poi sono centinaia gli enti locali coinvolti. E' difficile fornire stime precise del potenziale impatto dei derivati sulla finanza pubblica. Di tanto in tanto la questione esce dall'ombra e approda sui media. Come nel 2012, quando il governo Monti dell'austerità e dei tagli pagò senza fiatare circa 2,5 miliardi di euro a Morgan Stanley per chiudere alcuni contratti. Sul quadro generale pesa una mancanza di trasparenza e di informazioni. E' stato il ministro Padoan ad ammettere l'anno scorso in Parlamento che “sui derivati di Stato è stato svelato tutto ciò che si poteva, dire di più metterebbe il Paese in una posizione di svantaggio e, quindi, in serie difficoltà”.
Ma cosa sono i derivati e per quale motivo, dai piccoli Comuni al governo centrale, in così tanti ci sono andati dietro? Il modo più semplice per capire di cosa si tratta è pensare a un'assicurazione: ho un automobile e pago una polizza a una compagnia per farsi carico del rischio di furto e incendio. In modo analogo, i derivati sono nati come strumenti di copertura di determinati rischi. Ad esempio ho un'impresa che esporta negli USA e il compratore mi salderà la fattura a 90 giorni pagandomi in dollari. Tra tre mesi, però, il cambio tra euro e dollaro potrebbe essere molto diverso da ora. Se mi va bene potrei anche guadagnarci ma se mi va male sono problemi. Stipulo allora un derivato con una controparte, di solito una banca, che in cambio di una commissione si fa carico dei rischi di oscillazione dei cambi.
Altro esempio è quello di uno scambio tra due flussi finanziari. Mettiamo il caso che ho un mutuo a tasso variabile per l'acquisto di casa ma ho paura che le oscillazioni dei tassi possano fare aumentare la mia rata. Con un derivato chiamato swap posso scambiare il mio tasso: mi accordo con una controparte che mi paga un tasso variabile, mentre io le giro in cambio un flusso a tasso fisso.
Perché un ente locale dovrebbe stipulare un derivato con una banca? L'uso legittimo – come nell'esempio precedente – dovrebbe essere quello di proteggersi contro incertezze e rischi: ho un debito a tasso variabile e lo voglio scambiare con uno a tasso fisso, in modo da garantirmi per il futuro contro eventi sfavorevoli.
C'è però anche un altra possibilità. Io sindaco di un piccolo Comune non ho un soldo in cassa, ma tra poco ci sono le elezioni e bisogna fare bella figura. Ecco che arriva una grande banca internazionale e mi propone un accordo, un contratto in base al quale la banca mi dà sull'unghia tutti i soldi che voglio. Però se entro cinque anni non avvengono una serie di cose praticamente impossibili e difficilissime da capire, io dovrò restituire alla stessa banca una somma dieci volte più grande. Ovvio che è un accordo folle per il Comune. Meno folle però per il sindaco, che magari nel frattempo si è fatto eleggere in Regione o in Parlamento. Meno folle, inoltre, se firmi un contratto che in apparenza sembra anche buono ma di cui non riesci minimamente a capire le condizioni.
Gli esempi riportati sono estremamente semplificati, ma in generale queste sono le domande che emergono adesso: in quanti casi gli enti locali hanno firmato dei contratti derivati che li hanno effettivamente protetti da un rischio; in quanti si sono invece fatti circuire dalle banche, firmando qualcosa senza capirne le possibili conseguenze; e in quanti, infine, sapevano che le condizioni erano assolutamente sfavorevoli? In altre parole, gli amministratori hanno agito bene e/o male ma per ingenuità o in malafede? E soprattutto, le banche che strutturano il prodotto, lo vendono all'ente locale guadagnandoci e sono poi una delle due controparti della “scommessa” avevano il diritto di agire in questo modo?
Sono alcune delle domande a cui si cerca di rispondere nei processi intentati da diverse amministrazioni contro le banche che hanno venduto tali strumenti negli anni scorsi. Tra le accuse, la presenza di costi nascosti e di condizioni che rendevano praticamente certa la perdita per il Comune di turno. Di fatto parliamo di strumenti incredibilmente complessi, dove chi vendeva il prodotto strutturava l'operazione in modo da essere praticamente certo di vincere, e comunque con condizioni per lo meno sfavorevoli già in partenza per l'acquirente. Rischi, mancanza di trasparenza e conflitti di interesse segnalati diverse volte anche dalla Corte dei Conti, che nelle sue relazioni ha ricordato sia le potenziali perdite sia gli abusi e la gigantesca asimmetria informativa tra chi vende il derivato e chi lo compra.
Negli ultimi anni, se non proibita, è stata enormemente ristretta la possibilità per gli enti locali di operare con i derivati. Al di là della proverbiale “stalla chiusa dopo che i buoi sono scappati” sarebbe importante comprendere quale sia la situazione esatta e aggiornata, i potenziali rischi e perdite future, la legittimità dei contratti sottoscritti e le eventuali vie di uscita. Questioni su cui ci si può fare un'idea, ma su cui mancano informazioni certe e dettagliate. Secondo il bollettino statistico di Banca d'Italia le sole perdite per l'amministrazione centrale – se si chiudessero oggi i contratti – supererebbero i 30 miliardi di euro. Anche il database di Eurostat indica una cifra simile per l'Italia, circa 30 miliardi di euro di margine negativo, posizionando l'Italia all'ultimo posto in Europa. Se altri Paesi, dalla Germania alla Grecia, stanno perdendo parecchi soldi con i derivati, e alcuni invece – come Olanda o Svezia – al momento sembrano in positivo, l'Italia è nettamente la peggiore in Europa.
Questo è forse legato alla mole del nostro debito pubblico? A operazioni più “spericolate” dei nostri funzionari al Tesoro? Alla sfortuna nell'avere sottoscritto derivati nel momento sbagliato? Anche a queste domande sarebbe interessante dare una risposta. Peccato che, per bocca del nostro ministro dell'Economia, “sui derivati è stato svelato tutto ciò che si poteva”. Motivi economici non consentono al Parlamento di avere maggiori informazioni. Ancora una volta le ragioni della finanza calpestano quelle della democrazia. L'ennesimo motivo per cui è urgente quanto necessario un audit sul debito che comprenda anche la partita in derivati, che chiarisca chi, come, quando e perché sono stati stipulati, e che permetta di valutare la legittimità di tali contratti.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 25 di Luglio-Settembre 2016 "Chi è in debito con chi?"
Fonte: Attac Italia 

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