La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 5 agosto 2016

L'Età della paura liquida

di Marco Belpoliti
La paura è tornata. Sembrava domata, resa inoffensiva dalla nostra capacità tecnico-scientifica di dominare il mondo, di prevedere tutto, o quasi. E invece eccola di nuovo. Zygmunt Bauman ci aveva avvisati dieci anni fa in Paura liquida (Laterza): questo è il nome che ha oggi la nostra incertezza, la precarietà, la mancanza di futuro. Nessuno sembra indicare cosa fare. La leadership mondiale oscilla pericolosamente sull’orlo di un cratere. Il mondo è in subbuglio e viviamo in uno stato di paura. Meglio: di ansietà. L’ha ricordato anche Sergio Mattarella in un discorso, resuscitando la formula usata da un poeta W. H. Auden in una sua opera: L’età dell’ansia.
Egloga barocca scritta nel 1947 subito dopo le due bombe atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario. Nel 1966 i Rolling Stones in Mother’s Little Helper descrivono le casalinghe britanniche che ricorrono al Valium, un ansiolitico. Lo psicoanalista Henry P. Laughlin definisce l’ansia «tensione apprensiva, irrequietezza che nasce dal sentire un pericolo imminente ma vago di origine sconosciuta».
Come possiamo definire quello che proviamo quando entrando in stazione passiamo un checkpoint con militari in tuta mimetica, o quando ci sottoponiamo alle perquisizioni delle borse all’ingresso della mostra, o quando scorgiamo una borsa sospetta sul metrò? Cosa temiamo? Un attacco terroristico, un commando suicida? Tutto questo, ma anche altro. L’ansia non ha un contenuto definito. Se la paura si focalizza su una specifica minaccia esterna, un evento presente o imminente, come scrive il neuroscienziato Joseph LeDoux in Ansia (Raffaello Cortina), l’ansia implica una minaccia non definita, meno identificabile, «qualcosa di più interno», un’aspettativa mentale che potrebbe anche essere qualcosa di solo immaginato con scarse possibilità di verificarsi.
La parola “ansia” viene dal latino anxietas, che deriva dal greco angh, radice che veniva usata per significare “oppresso” o “turbato”, ovvero “angosciato”; il suo significato iniziale si riferisce a sensazioni fisiche come tensione, costrizione, disagio. La stessa parola “angina”, che riguarda malattie cardiache con dolori al petto, viene da angh (LeDoux). Le emozioni che proviamo sono un magma, ci ricorda lo psichiatra Eugenio Borgna in Le figure dell’ansia (Feltrinelli), perché si mescolano insieme cose diverse: stati d’animo, sentimenti, esperienze vissute. L’ansia, alla pari di altre emozioni, non è qualcosa di omogeneo o di distinto, ma di stratificato, che può essere intesa e sondata solo con molto cuore, scrive Borgna. Per quanto l’ansia sia un’emozione individuale, soggettiva, alla pari della paura si comunica.
Di sicuro l’11 settembre, evento cui ha assistito in diretta tutto il mondo davanti alla tv, ha creato un’onda di panico che con il passare dei giorni e dei mesi si è tramutata in ansia. Si tratta del disturbo da stress postraumatico tipico di chi ha sperimentato un’esperienza sconvolgente; in questo caso però non ha riguardato solo chi si trovava sotto le Twin Tower, ma anche chi, lontano da New York, ha vissuto l’accaduto come se si fosse stato davvero lì.
Oggi i social network e i telefoni cellulari moltiplicano questo effetto su scala planetaria. Gli storici hanno mostrato come nel passato la paura fosse prima di tutto un sentimento collettivo. Jean Delumeau nel suo studio sulla paura tra il XIV e il XVIII secolo ( La paura in Occidente, secoli XIV- XVIII) esamina il timore del buio, di Satana, delle streghe, della magia, delle eresie, della peste. Prima che la Riforma trasformasse il rapporto con la religione da fenomeno generale in evento vissuto individualmente, i comportamenti collettivi definivano l’atteggiamento verso la paura, lo normavano. Ora sta accadendo qualcosa di simile? L’ansia diventa un fenomeno comune e non più solo una singola esperienza emozionale?
Nel suo poema Auden sembra suggerire qualcosa del genere. Si viveva, alla fine degli anni Quaranta, sotto il timore della bomba atomica, nell’incubo dell’esplosione fine-del-mondo descritta poi da Stanley Kubrick nel suo Il dottor Stranamore.
L’ansia, come altre emozioni, è contagiosa. Viviamo tutti in un atteggiamento d’attesa, d’anticipazione. Mentre nella paura l’anticipazione riguarda, «se e come una minaccia attuale causerà danni», scrive Le-Doux; nell’ansia «l’anticipazione coinvolge l’incertezza sulle conseguenze di una minaccia che è presente e che può non verificarsi ». Questo è lo stato d’animo collettivo in cui ci troviamo oggi: ci preoccupiamo di minacce future che possono nuocerci come collettività e come singoli, ma non sappiamo bene quali, e se poi ci riguarderanno davvero. Riformulando un’espressione di Kierkegaard, Louis Menand ha affermato che «l’ansia è il cartellino del prezzo della libertà umana».

Fonte: La Repubblica

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