La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 30 dicembre 2016

Etica, progresso, marxismo

di Giuseppe Cacciatore 
Si è sempre partiti da una sorta di equazione tra idea del progresso e teorie storicistiche. Perciò non sarebbe sbagliato sottolineare che la critica delle ideologie del progresso può anch’essa muovere da prospettive storicistiche. Questo presuppone però che si operi una distinzione nell’ambito della polisemanticità degli storicismi. Se, ad esempio, si pone in questione la prospettiva storicistica fondata non sul concetto di legge e di generalità, ma su quello di singolarità e individualità (anche nella sua declinazione etica), si modifica radicalmente l’equazione progresso/storia universale. È il caso, ad esempio, di quegli storicismi che hanno messo capo ad una filosofia speculativa della storia, o a una teoria evolutivo-ottimistica.
Tutto questo ha, naturalmente, non secondari riflessi sul modo stesso di pensare e di scrivere la storia del progresso (il progresso del capitalismo o il regresso delle crisi economiche? Il progresso della società mercantile o la decadenza dell’anarchia della produzione? Il progresso delle masse o quello indotto dalla tecnica? Il progresso delle ideologie liberali o quello delle ideologie socialiste?). Naturalmente, come tutti sanno, accanto alle varianti storicistiche che mettono capo alle filosofie progressive della storia, tanto di stampo idealistico quanto di stampo storico-materialistico, si collocano le posizioni di critica della storicità assoluta che non fuoriescono, tuttavia, da una prospettiva di storicismo prospettico che riconduce l’idea del progresso alla categoria problematica della possibilità e non più a quella della necessità, ad una storiografia delle differenze decostruibili più che di identità costruite. 
Questa premessa serve (o almeno a me serve) per proporre un dato che, agli occhi di molti raffinati politologi, potrebbe apparire banale e scontato, ma che, proprio per questo, molti hanno quasi un nascosto pudore di enunciare. La plausibilità dell’uso di un concetto di progresso ispirato alle premesse teoriche e pratiche del marxismo è praticabile soltanto se si resta radicati ad una versione debole della sua storicità determinata e si abbandona, dunque, il terreno della previsione filosofico-ideologica. Naturalmente, tutto ciò si tiene soltanto a patto che si sappiano cogliere gli interstizi che, nel corpo di un disegno di filosofia della storia (ora originariamente e consapevolmente costruito, ora stratificatosi nelle trascrizioni e nelle volgarizzazioni ideologiche successive), si aprono, da un lato, all’analisi storico-economica e, dall’altro, alla concretezza e permanenza dell’azione politica. Non solo, ma bisogna anche che si faccia strada il convincimento che la possibilità stessa della trasformazione delle condizioni date finirebbe coll’essere smentita se l’individuo fosse indotto a modificare se stesso solo a condizione che sia cambiata prima la serie delle condizioni sociali. «La storia invece – sostiene Gramsci – è una continua lotta di individui e di gruppi per cambiare ciò che esiste in ogni momento dato, ma perché la lotta sia efficiente questi individui e gruppi dovranno sentirsi superiori all’esistente». 
Un discorso su progresso e marxismo deve oggi fare i conti con tutto ciò che, a livello della teoria come al livello della prassi storica, ha contribuito a mettere in radicale discussione la plausibilità stessa del marxismo come analisi economica e politica in grado di misurarsi con il presente. È del tutto comprensibile, ad esempio, il fatto che nell’immaginario collettivo (mai peraltro del tutto originato spontaneamente e quasi sempre costruito nei laboratori dell’onnipervasiva rete della comunicazione mediatica) la “storia universale” del comunismo venga alla fine compressa nella sua catastrofica parabola finale ed identificata pressocché totalmente con i suoi errori e i suoi imperdonabili crimini. E, tuttavia, non sarebbe certo un’affermazione apologetica dire che, proprio sull’onda dell’ approccio analitico marxiano, si è imposto quel concetto di mondializzazione dell’economia che nessuno oggi osa mettere in discussione, sia quando se ne debbano segnalare le storture ed i negativi effetti sulle società e gli stati “deboli” del mondo, sia quando se ne debbano positivamente valutare, ma si tratta di casi ben rari, gli aspetti di gestione delle crisi internazionali e stabilizzazione e controllo dei mercati. 
Se Marx ed Engels seppero con straordinaria lucidità descrivere e prefigurare gli effetti della globalizzazione (l’urbanizzazione, lo sfruttamento del lavoro minorile e femminile, il disgregarsi della famiglia, la mondializzazione dei commerci e delle comunicazioni), ciò non era certo dovuto ad una profetica capacità di previsione. Si trattava, piuttosto, della tenace messa a frutto di un inedito ed efficace metodo di critica della politica e di analisi storica.


Fonte: materialismostorico.it

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