La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 29 dicembre 2016

O Diyarbakir o morte! Breve viaggio in Kurdistan

di Enrico Strano
Chiunque sia entrato dalla porta di ingresso della capitale del Kurdistan turco, Diyarbakir, si sarà accorto di quanto sia diversa dalla Turchia di Istanbul, della torre di Galata, delle squadre di calcio, delle moschee e dei bazar. Il sud e l’est del paese contro l’ovest e il centro, in una lacerazione che spezza a metà la nazione. Mi potrete dire: ma è normale Enrico, è sempre così, c’è sempre un nord ricco e un sud povero (o viceversa). Senza dubbio, ma qui parliamo di due nazioni diverse, con il Kurdistan stato inesistente eppure tangibile nei suoi artefatti, nelle sue creazioni di culturali, nella lingua, nelle tradizioni.
Non tutti riescono a vantare una simile storia e un simile multiculturalismo: assiri (o siriaci o siri), zazani, curdi, yazidi (si, sono sempre kurdi, ma di diversa religione), turcomanni, arabi e tante altre etnie e religioni vivono in un contesto di integrazione dove il molteplice e la convivenza sono la chiave di un modello che è utopistico eppure quasi tangibile. Dall’altro lato c’è invece il nemico unico, monolitico, monoteistico, che propone un’unica identità, un unico modello, un unico orientamento politico e un’unica religione uguale per tutti: la Turchia.
Fuori dal dualismo e dalle estreme semplificazioni, cercando di cogliere le sfumature delle politiche messe in atto dalla Turchia nelle municipalità kurde, mi siedo ad un bar con un ragazzo turco. Siamo nell’Istiklal Caddesi, vicino al Liceo Galatasaray, il punto della Via di Gran Péra (il vecchio nome della via, all’epoca dei viaggi dell’Orient-Express) dove è più frequente assistere a manifestazioni, di destra quanto di sinistra. Chi è turco e vota HDP, il “Partito democratico dei popoli”, espressione socialdemocratica delle richieste curde e di tutte le altre minoranze in Turchia, è chiaramente una minoranza progressista che esiste e lotta nel paese. Una minoranza fatta di professionisti o di lavoratori che hanno a cuore i temi civili e sociali cui urge trovare una risposta.
“Chi è che vota per l’HDP?”
“Saranno anche i kurdi che cercano di fare i loro interessi, in un’ottica quasi feudale, arroccati nell’est. Governano le loro campagne e hanno una gran quantità di forza lavoro a basso costo. Quel che mi preoccupa di più è la deriva del paese verso uno stato religioso. L’HDP è sconnesso da questa base di elettorato che in ampie regioni del paese vuole l’islamizzazione della nazione, seguendo il modello AKP (il partito di Erdogan [N.d.R.]).” Impossibile non cogliere un riferimento a Fethullah Gülen.
Ciò che mi stupisce, ma poi non troppo, è la frase successiva: “noi facciamo la nostra vita. Andiamo a lavoro, torniamo a casa. Neanche sappiamo cosa succede dall’altro lato. E a nessuno viene in mente di andare a vedere.”
A questo rispondono i kurdi che ho conosciuto: “venite a vedere.”
Seduto più di millequattrocento chilometri ad Est, a Diyarbakir, in un altro bar, osservo assorto la capitale del Kurdistan turco, la nazione che non esiste.
Sfoglio un ebook con le scan di un libro del 1818, scritto da un prete cattolico missionario, “Storia della regione del Kurdistan e delle sue sette”: “Diarbeker o Diarbekir vuol dire città di Beker; […] il sito è amenissimo; […] Ha la fabbrica del rame [da qui il nome Diyarbakir, “città del rame” in turco, che in curdo invece si chiama “Amed” N. d. R.]; […] Ora non comanda più che circa cento villaggi; tra questi se ne trovano sei di cristiani, cioè; Ciarochi di caldei cattolici; Cottorbel ove sono siri eretici; Karabesc di siri eretici; Salib armeni eretici; Ajaik armeni eretici; e Kaabi-Koi di siri parte cattolici e parte eretici. […]” La multiculturalità è storicamente salva.
Apro un altro ebook, una vecchia copia di Limes. Leggo: “Se il Kurdistan fosse unito politicamente potrebbe essere lo stato più ricco del Medio-Oriente”. Uranio, cromo, rame, ferro, fosfati, argento, lignite, cromo. Risorse idriche. Petrolio. Tutto mi sembra più chiaro.
Il mio interlocutore, rovistando con lo zucchero la sua tazzina di té, mi interroga con lo sguardo. Poi esclama: “queste storie sono tutte stupidaggini! Dicono che i combattenti kurdi facciano traffico di droga e da ciò traggano una delle poche fonti di sostentamento economico, quando in realtà sono i primi a bloccare i trafficanti. Dicono che i guerriglieri favoriscano il feudalesimo quando invece combattono l’oscurantismo e il patriarcato nelle campagne. Cerchiamo di portare avanti battaglie di civiltà e ci chiamano “zoroastriani”, in un’accezione che ci descrive come barbari e ignoranti eretici. Dicono che vogliamo l’indipendenza, noi vogliamo invece il Confederalismo Democratico”.
Quando due campane danno due versioni così opposte di una stessa realtà, ho la tendenza ad allontanarmi e guardare tutto più lentamente. E da lontano.
“Ho uno zio insegnante ucciso nell’est” mi dicono a Gaziantep.
“Tutti abbiamo un parente ucciso o torturato o detenuto illegalmente” mi ribadiscono a Diyarbakir.
Intanto il cessate il fuoco è terminato e in alcune città qui vicino si susseguono le guerriglie e gli atti intimidatori. Ieri notte sono morte delle guerrigliere kurde, a meno di cento chilometri da qui, in risposta all’uccisione di due poliziotti avvenuta l’altro ieri. In occidente, neanche una notizia. In Turchia, neanche una notizia.
“Il PKK non è la soluzione, ma non è neanche la causa: è un effetto. Politiche nazionali diverse e il PKK non esisterebbe.” Mi avverte il mio interlocutore. E a questo credo.
Brecht scriveva, in “Vita di Galileo”, “sfortunato è quel paese che ha bisogno di eroi”.

Fonte: sinistraineuropa.it 

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