La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 29 dicembre 2016

Voucher. Le storie dei moderni schiavi

di Valerio Valentini 
La maggior parte ha superato i trent’anni, ha alle spalle già diverse esperienze lavorative e cerca un’occupazione nei settori più disparati: dalla grande distribuzione all’edilizia, dai fast food alla pubblica amministrazione. Sono stati chiamati “schiavi moderni”, “superprecari”, “lavoratori di serie Z”. Più semplicemente i voucheristi, “sono persone che soffrono sulla propria pelle tutte le storture legate agli eccessi della flessibilità e della svalutazione del lavoro“, come li definisce Federico Martelloni, professore di Diritto del lavoro all’Università di Bologna.
Ma soprattutto tutti ne parlano e quasi nessuno li conosce di persona, complice la reticenza che li caratterizza per la paura di subire delle ritorsioni. Allora Ilfattoquotidiano.it ha battuto la provincia di Milano per incontrarli e capire come si vive e lavora oggi nel capoluogo e in Lombardia con i voucher. Perché qui? Lo sintetizza molto bene Marco Beretta, segretario della Filcams-Cgil locale: “Milano è una provincia che dimostra chiaramente come le politiche occupazionali di questi ultimi anni, e in primo luogo il Jobs Act, abbiano aumentato la precarietà. Nel 2015 abbiamo registrato circa 180mila nuovi avviamenti a tempo indeterminato, a fronte di quasi 6 milioni di voucher”. Che vengono accettati con la consapevolezza di chi sa bene di faticare senza alcuna tutela, ma lo fa spinto dalla stringente necessità di incassare una retribuzione seppur minima. E si apre a una sola condizione: “Racconto la mia storia, ma eliminiamo qualsiasi dato che possa identificarmi. D’accordo?”. D’accordo.
Luca, lavoratore nell’ipermercato Carrefour: “Qui dentro è schiavismo puro, ma io ho una famiglia e un mutuo sulle spalle” – Luca (il nome è di fantasia, come tutti quelli che seguiranno) è nato e cresciuto a Milano. Ha 34 anni e un diploma in Ragioneria. “Ma soprattutto – aggiunge lui – ho una famiglia e un mutuo sulle spalle: e questo spiega perché non ho potuto rifiutare l’offerta di Carrefour”. Tutto è partito, sul finire della scorsa estate, con un annuncio avvistato su internet. “Avevo già esperienze nella grande distribuzione – dice – e quindi ho pensato di consegnare un mio curriculum in un punto vendita”. Pochi giorno dopo, il colloquio e l’offerta: il lavoro c’è, in uno degli ipermercati di Milano, ma solo coi voucher. “È stata l’unica soluzione che mi hanno proposto. Io lo so che non è un’opzione ideale: ma in quel momento ero disoccupato e non potevo permettermi di restare senza stipendio. E quindi ho accettato. Anche perché – prosegue Luca – subito mi hanno garantito che, se me lo fossi meritato, avrebbero segnalato il mio profilo ad una delle agenzie interinali delle quali Carrefour si serve: il che avrebbe potuto preludere ad un’assunzione più stabile”. A ripensare a quella promessa, finora rimasta tradita, Luca mostra più disincanto che amarezza: “Sono promesse che lasciano il tempo che trovano, si sa. Ma in quei momenti, servono comunque a convincerti ad accettare”. I turni non sono mai inferiori alle 4 ore: “Spesso, anzi, si va dalle 9:30 alle 18”. Il preavviso è minimo: a volte si viene allertati il giorno prima, e viene richiesta la disponibilità anche per eventuali turni notturni. All’inizio i voucheristi coprivano perlopiù il fine settimana: ma col tempo sono stati assorbiti anche nei turni dei giorni feriali. E il pagamento? “I soldi guadagnati vengono accreditati su una specie di carta prepagata che ci è stata rilasciata dopo la nostra registrazione all’Inps“. La ricarica avviene a fine mese, a seconda delle ore svolte.
“Dovrei dire che sono contento? Ovvio che no. Lì dentro siamo in una condizione di schiavismo puro”. Usa il plurale, Luca, ma se gli si chiede quanti siano i voucheristi che lavorano nel suo stesso ipermercato, risponde di non poterlo dire con certezza. “Saremo 10, forse 15”. Non si parlano, tra loro? Non si contano? “In generale, si evita di discutere di questi argomenti. C’è il timore costante che qualche lamentela venga poi riportata ai superiori, che potrebbero decidere di lasciarci a casa seduta stante, senza che noi possiamo protestare in alcun modo. Anche ora, mentre vi racconto la mi vicenda, la mia preoccupazione principale è che non emergano dati che mi rendano riconoscibile. Anzi, evitiamo di scendere ancora nei dettagli, vi prego”.
Roberto e Christian sono colleghi. Lavorano da anni fianco a fianco, carpentiere e manovale per una grossa impresa edile che gestisce vari cantieri nell’area nord di Milano. Roberto ha 55 anni, e da 4 non è più sposato. “Era un matrimonio che non funzionava. Meglio così. Coi miei figli è rimasto un buon rapporto; e anche con mia moglie, ci trattiamo meglio da quando non stiamo più insieme”. Figlio di immigrati calabresi fuggiti al Nord all’epoca del boom, Roberto non ha mai concluso le scuole superiori (“Non aver studiato è il mio più grande rimpianto”, ammette) e lavora nell’edilizia sin da adolescente: “Avrò cambiato una decina di datori: ma non sono mai stato due mesi di fila con le mani in mano”. Christian invece è originario di Oradea, nel nord-ovest della Romania. Vive in Italia da 9 anni: “Ho anche la residenza regolare: scrivetelo”. Il suo sogno è quello di mettere da parte una somma sufficiente a far venire a Milano anche sua moglie e sua figlia: “È per loro che lavoro. Anche se i risparmi non sono tanti: ma se mi avanza qualcosa a fine mese lo spedisco direttamente a casa mia in Romania”. Da quando è arrivato in Italia, Christian ha lavorato sempre e solo per l’azienda edile nella quale ancora oggi si trova: “Evidentemente sono soddisfatti di me”. Da qualche mese, però, le condizioni sono cambiate. Sia per Roberto sia per Christian, sia per un altro paio di loro colleghi, che preferiscono non parlare. “Senza alcun preavviso ci è stato comunicato che il nostro contratto, che era in scadenza, non sarebbe stato rinnovato. Dal giorno dopo – racconta Roberto – avremmo dovuto comunque presentarci al cantiere, come se nulla fosse, e cominciare a lavorare a voucher”. All’inizio c’è stata soprattutto sorpresa: “Io non sapevo nemmeno cos’erano, ‘sti voucher”, confessa Roberto. Lo sconforto è arrivato in un secondo momento: “A me va bene tutto – garantisce Christian – finché posso lavorare. Però ho scoperto che così se mi ammalo o mi faccio male, non mi viene dato nulla. E anzi rischio pure di non essere richiamato. E sul cantiere capita di ammalarsi, o di farsi male“.
Quando le si chiede di riassumere la sua breve esperienza al Burger King di Segrate, Marianna parte da lontano, raccontando delle sue aspirazioni di adolescente: “La mia passione sarebbe assistere gli anziani e i malati. Aiutare chi soffre mi fa sentire utile: ma non posso aspettare di trovare il lavoro che sogno, e quindi accetto ogni cosa“. Ha 34 anni, Marianna, e la scuola l’ha abbandonata in quarta superiore: per specializzarsi, poco dopo, come ausiliaria socioassistenziale. È nata e cresciuta a Milano, dove ora vive insieme a suo marito: “Condividiamo il tetto e il mutuo”. Entrambi hanno fatto richiesta di lavorare al Burger King l’estate scorsa, presentando i propri curricula. “Ci hanno presi subito. Le nostre mansioni? Pulire bagno, sala e cucina, e qualche volta lavare e preparare gli ingredienti per i panini”. L’entusiasmo per il nuovo lavoro era tanto, nonostante i ritmi serrati e stancanti: “Avevamo la responsabile del personale sempre col fiato sul collo. Continuava a dirci di fare tutto più in fretta”. Dopo un mesetto, però, le prime tensioni. “Tutto è nato dalla mia semplice richiesta di fare i turni pomeridiani. Per una questione di compatibilità con gli orari di mio marito, mi era impossibile staccare all’una o anche, a volte, alle tre di notte. ‘Nessun problema’, mi fu detto, e invece il problema c’era eccome”. Anziché essere anticipati, i turni di Marianna venivano semplicemente annullati. “In quei giorni c’è stato anche un incidente: mentre ero nella cucina, mi sono tagliata un dito con un coltello. All’Inail mi hanno consigliato di avanzare richiesta di risarcimento per l’infortunio, ma i responsabili del mio punto vendita hanno fatto di tutto per mandare all’aria la procedura, e ci sono riusciti”. Nemmeno una settimana dopo la richiesta di cambio dei turni, Marianna riceve una telefonata dall’azienda: “Mi hanno detto di non tornare al lavoro, il giorno dopo. Scaricata per telefono, senza diritto di dire una parola. A me in quel momento è caduto il mondo addosso”. Intanto anche suo marito aveva lasciato Burger King per trovare lavoro in un’azienda di trasporti: “Non un granché, ma almeno non ci stanno i voucher”. E Marianna? “Io ora lavoro in una ditta di pulizie. Ma non so se il mese prossimo mi rinnoveranno il contratto”.
In un altro Burger King, quello di Rezzato, nel bresciano, ha lavorato Giuseppe. Che ha 32 anni e vive con i suoi genitori. “Fortunatamente non ho ancora una famiglia mia”. Fortunatamente? “Be’ sì: altrimenti come la sosterrei economicamente?”. Dopo il diploma, Giuseppe ha cominciato subito a lavorare. “Sempre occupazioni poco stabili: ma almeno non sono mai rimasto a casa troppo a lungo”. E proprio per porre fine in fretta a uno di quei periodi di disoccupazione, nel giugno scorso decide di consegnare il suo curriculum a Burger King. “Mi hanno tenuto in prova per un mese. Poi, come unica prospettiva, quella del lavoro a voucher”. Anche nel suo caso, il miraggio lasciato intravedere era quello di una maggiore stabilità: “Mi avevano promesso un’assunzione definitiva. E chi lo ha mai visto, in 32 anni, un contratto a tempo indeterminato?”. Insomma accetta, ma come funzionino effettivamente i voucher lo scopre solo dopo i primi giorni. “Decisi di informarmi bene, perché da quello che avevo sentito si trattava di una forma di lavoro puramente occasionale. Ma ero rimasto indietro. E infatti a noi settimana per settimana venivano assegnati i turni. Dei turni veri e propri: come mi era capitato quando lavoravo a contratto”. Decide di andare avanti, in ogni caso. “Il lavoro è comunque oro: per cui mandi giù il boccone amaro. Quando ti servono i soldi, mandi giù tutto”.
Al termine del periodo di lavoro previsto con i voucher, della prospettiva di un’assunzione non è rimasta traccia. “E non solo. La cosa assurda fu che quando andai a controllare la quota che mi era stata accreditata, mi accorsi che il conteggio era sballato. Mancavano almeno 20 ore, che io avevo coperto ma che non mi erano state retribuite”. Un breve consulto coi suoi ex colleghi, e subito Giuseppe scopre di non essere l’unico ad aver ricevuto un simile trattamento. “La differenza fu che alcuni di noi cercarono di trattare direttamente con l’azienda, altri si rivolsero subito al sindacato. E guarda caso, questi ultimi furono improvvisamente assunti a tempo indeterminato, forse per convincerli a tacere ed evitare che le loro proteste facessero troppo rumore. Gli altri, invece, me compreso, non hanno ottenuto ancora nulla. Io aspetto ancora un mese, poi vado per vie legali“.
“Classe ’68: scrivete così, fa meno effetto rispetto a 48enne”. Davide vive con la sua famiglia a Trezzano Rosa, Comune di 5mila abitanti nella periferia nord-est di Milano: ha una moglie e una figlia che frequenta il liceo classico, e che dopo la maturità vorrebbe continuare gli studi. “Voglio permetterle di farlo”, precisa subito Davide, che fino a un paio d’anni fa lavorava nell’azienda del fratello: poi le cose non sono andate più bene (“Inutile entrare nei dettagli”) e si è ritrovato a chiedere aiuto al Comune. Sei mesi d’attesa, poi un periodo di collaborazione con una cooperativa del posto, poi altri 6 mesi di contributo di disoccupazione. “Alla fine, il Comune mi ha offerto un lavoro a voucher: si trattava di rinforzare le squadre che si occupavano della nettezza urbana e della cura del verde pubblico”. Periodi brevi, turnazioni costanti. “Di fatto, i cicli erano di 30 ore ciascuno: poi si ruotava. Un modo per interrompere l’inattività di chi non riusciva a trovare lavoro”. I voucher come ammortizzatore sociale, dunque? “Detta così sembrerebbe quasi una cosa positiva”. E invece? “E invece parliamoci chiaro: al Comune questo sistema conviene perché gli evita di dover assumere lavoratori in maniera più stabile. Ti prendo, ti faccio fare le tue 30 ore, e poi basta. E così si rende ancor più difficile la possibilità di trovare un contratto decente”. Ma non è solo per le mansioni più occasionali, che l’amministrazione di Trezzano Rosa si serve dei voucher. “Li utilizzano anche per pagare gli impiegati, quelli che svolgono un lavoro d’ufficio giornaliero e regolare”. Si potrebbe provare a parlare con qualcuno di loro? “Ho provato a domandare – dice Davide – Per ora preferiscono di no. Significherebbe esporsi e rischiare di essere lasciati a casa da un giorno all’altro. È gente che ha una famiglia a cui pensare. Però chissà, magari dopo questo vostro lavoro, a qualcuno potrebbe venire voglia di raccontare”.

Fonte: Il Fatto Quotidiano 

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