La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 27 dicembre 2016

Lo spirito e/è il corpo. Leonard Cohen in memoriam

di Stefano Marino
“Osserva, il corpo comprende e afferma il significato, lo scopo principale, include e afferma l’anima; / Chiunque tu sia, quanto è superbo e divino il tuo corpo, o ciascuna sua parte! […] Io sono il poeta del Corpo, io sono il poeta dell’Anima […] Canto il vero canto dell’anima”, che coincide pienamente, senza residuo o scarto alcuno, con il canto del corpo. “Ché se il corpo non è l’anima, che cosa dunque è l’anima? […] Se qualche cosa è sacra, il corpo umano è sacro”. Così scrive Walt Whitman in Foglie d’erba, in versi che – aggiungiamo in maniera polemica e insieme ironica – forse andrebbero fatti leggere e imparare a memoria a qualsiasi filosofo della mente o scienziato cognitivo che ancora oggi si attardi a sostenere posizioni improntate a qualche forma di dualismo…
E, ancora, in altri versi tratti da parti diverse della medesima grande opera, scrive Whitman: “Canta l’impulso del muscolo e la fusione / Canta il canto della compagna di letto (Oh, l’irresistibile anelito! Oh, per ciascuno e per tutti, l’attrazione del corpo complementare!) […] / Dalla notte un istante emergendo e poi scomparendo, / Celebro te, atto divino, e voi figli, che venite approntati, / E voi, lombi possenti. […] Il sesso tutto comprende, i corpi, le anime, / Significati, prove, purezze, delicatezze, risultati, promulgazioni, / Canti, comandi, salute, orgoglio, il mistero materno, il latte del seme, / […] Tutto questo si trova nel sesso come parte di esso, giustificazione di esso”.
Rileggendo Walt Whitman qualche sera fa mentre, contemporaneamente, riascoltavo alcuni brani di Leonard Cohen, ispirato a compiere tale riascolto dall’evento della recente scomparsa del grande cantautore di Montreal, a un tratto ho operato spontaneamente un accostamento fra i due autori. O, più precisamente, fra i due poeti, essendo stato Cohen, oltre a colui che nel campo della musica rock “ha influenzato i colleghi più di ogni altro songwriter al mondo, con l’eccezione di Dylan”, anche un romanziere e un poeta, se non principalmente quest’ultima cosa: “Poeta anche quando canta, recita, scrive, parla, prega. Perché se la poesia è musica della parola, Leonard Cohen è un poeta a tutto tondo, non solo quando si esprime in versi” (Cotto 1993: 19-20). Come dicevo, ho operato spontaneamente un tale accostamento Whitman/Cohen a partire dalla rilettura delle succitate parti di Foglie d’erba sul corpo e/è l’anima, il sesso e/è il Senso perché, com’è stato scritto immediatamente a ridosso della morte di Cohen, “i due poli entro i quali si dipana la sua complessa produzione poetica, letteraria e musicale [sono] la sensualità e la mistica”: “da un lato, dunque, le donne, l’amore carnale”, e “dall’altro lato Dio”, in un modo così particolare, però, da rendere “impossibile operare distinzioni”, in una sorta di “interscambio [che] è continuo” (De Cataldo 2016: 61). Un interscambio continuo, quindi, che, come indicato nel titolo di questo articolo, spinge a immaginare di poter sostituire la congiunzione con la voce verbale, la “e” con la “è”: il corpo e/è lo spirito, la sessualità e/è la mistica, o anche, facendo riferimento al titolo di un disco di Cohen (Songs of Love and Hate del 1971), l’amore e/è l’odio. Del resto, come vero e proprio elemento essenziale della poetica di Cohen in quanto tale è stato indicato il “superamento di dualismi che hanno sempre come soggetto dominante l’amore”: una poetica in cui “il personale diventa universale” e in cui “il sesso […] è una prova molto prossima all’illuminazione”, “uno dei tanti Hallelujah possibili” (Caselli 2014: 8).
Senza voler arrischiare qui un’interpretazione complessiva dell’opera di Cohen e senza nemmeno volermi spacciare, da semplice ascoltatore appassionato quale sono, per un “Leonardcohenologo” professionista (come vi sono, del resto, i “Bobdylanologi”, i “Frankzappologi”, i “Jimihendrixologi” e via dicendo), ciò che vorrei provare a fare è esaminare questa caratteristica della poetica coheniana, procedendo con un approccio per così dire “micrologico” (riprendendo il concetto in maniera molto libera e, per così dire, poco filologica da Walter Benjamin). Ovvero, focalizzandomi solo su pochi fenomeni particolari, nella convinzione però che essi si possano rivelare capaci di far luce sul contesto e il senso generale. Nella fattispecie specifica, i fenomeni particolari saranno tre brani, solo tre brani, selezionati fra le moltissime composizioni straordinarie di Cohen. I tre brani in questione sono: Chelsea Hotel #2, dall’album New Skin for the Old Ceremony (1974); Paper-Thin Hotel, dall’album Death of a Ladies’ Man (1977); e, infine, Hallelujah, dall’album Various Positions (1984). Il motivo per cui la scelta è caduta proprio su questi tre brani è a sua volta triplice: 1) sono, a mio avviso, fra i brani più belli mai composti da Cohen; 2) sono, soprattutto, fra i suoi brani più rappresentativi della concezione generale che, nel titolo di questo articolo, ho scelto di racchiudere nella formula “lo spirito e/è il corpo”; 3) sono fra i più riusciti nelle reinterpretazioni eccezionali che ne hanno proposto, a loro volta, tre artisti molto più giovani di Cohen, grosso modo coetanei fra loro, appartenenti al gruppo dei musicisti pop-rock più influenti delle ultime generazioni: Rufus Wainwright, Greg Dulli e Jeff Buckley. Tre versioni, queste ultime, che mi hanno accompagnato, emozionato, sostenuto nel corso degli anni e in particolare, per varie ragioni, durante il 2016. Fatte queste premesse metodologiche, procedo con l’analisi: come si dice ai concerti rock, “here we go!”.
Volendo sintetizzare in una sola espressione l’universo poetico-musicale (giacché di questo si tratta: un intero universo contenuto in poco più di tre minuti) di Chelsea Hotel #2 si potrebbe forse dire: “Un pompino, la comunicazione autentica fra le persone e l’autoredenzione dall’oppressione”. “I remember you well in the Chelsea Hotel / […] Giving me head on the unmade bed” è infatti il celebre e piuttosto esplicito incipit della canzone. Ovvero: “Ti ricordo bene nel Chelsea Hotel / […] Me lo succhiavi sul letto disfatto”. Ciò non deve scioccamente scandalizzare né tantomeno stupire, dato che Cohen “era un adoratore delle donne” e, “a differenza di altri cantautori, era molto diretto nel descrivere questa sua adorazione per il genere femminile” (Abley 2016: 90). Molto, molto diretto Cohen, come si può vedere in Chelsea Hotel #2 da quel “giving head” iniziale che fa subito venire in mente il personaggio di Candy, impegnato nella medesima pratica, in Walk on the Wild Side del ben più trasgressivo (o, almeno, comunemente considerato tale) ma, a suo modo, non meno poetico Lou Reed (1993: 67). Molto, molto diretto Cohen, come testimoniato in modo persino brutale, per esempio, dalla poesia I Have Taken You: “Ti ho presa / Ti ho scopata […] / Nulla era negato / Tutto era generosità e fame vera” (Cohen 2012: 79). “I have taken you / I have fucked you” è l’incipit della poesia che, immaginandola idealmente accompagnata da pochi, leggeri accordi di chitarra acustica e la voce profonda e rassicurante di Cohen, suscita un effetto a dir poco straniante, dato che a versi del genere si potrebbe essere più facilmente tentati di associare, quanto a sottofondo musicale, una furia sonora alla Nine Inch Nails (il pensiero, ovviamente, corre subito al celebre ritornello di Closer: “I want to fuck you like an animal / I want to feel you from the inside”).
Ad ogni modo, tornando a Chelsea Hotel #2, nel libretto che accompagnava il disco New Skin for the Old Ceremony (1974) Cohen spiegò che la canzone riguardava una cantante americana morta diverso tempo prima. In seguito, durante un concerto, svelò che la cantante in questione era Janis Joplin, incontrata al Chelsea Hotel mentre in realtà cercava Kris Kristofferson e convinta da Cohen, in assenza di Kristofferson (“Dicesti di preferire uomini belli / Ma che per me avresti fatto un’eccezione”!), a seguirlo in camera per un flirt occasionale. Il brano prende le mosse, pertanto, da un incontro sessuale descritto in termini che ne fanno supporre una certa rapidità, estemporaneità e anche superficialità. A tal proposito, si veda il celebre verso conclusivo del ritornello: “Sei andata via, mai una volta ti ho sentito dire / ‘Ho bisogno di te, non ho bisogno di te’, / E tutte quelle stupidaggini”. Tutto si limita a quello, a un rapporto orale fine a se stesso, non previsto, con un partner diverso da quello originariamente desiderato, senza che ciò generi legami o sentimenti più profondi. E si veda anche l’altrettanto celebre verso finale, in cui Cohen non esita a manifestare distacco e persino un certo cinismo nei confronti della partner sessuale appena rievocata (e, come sappiamo, scomparsa, deceduta, andata via per sempre): “Non voglio insinuare che fossi innamorato di te, / Non posso star sulle tracce di ogni pettirosso che cade. / Ti ricordo bene nel Chelsea Hotel, / E questo è tutto, non ti penso nemmeno molto spesso”.
Eppure la canzone trascende immediatamente questo piano, che ho definito con i concetti di rapidità ed estemporaneità, per elevarsi su un’altra dimensione, che potremmo definire comunicativa e persino spirituale. In altre parole, una dimensione ben diversa dalla prima, solo fisica e superficiale; una dimensione che si muove su un livello, questo sì, molto profondo, cioè riguardante le profondità più nascoste dello “spirito” di ciascun individuo, le difficoltà e gli ostacoli che ciascuno incontra nel proprio esser-così e non altrimenti. In Chelsea Hotel #2 tutto questo trova magnificamente espressione nella confessione del fatto di essere “oppressi dalle figure della bellezza”, di stazionare in una condizione difficile ed esistenzialmente faticosa; il tutto, peraltro, espresso in modo forte, diretto, quasi violento, con un gesto irrefrenabile: “stringendo i pugni (clenching your fist)”, pronti a sbatterli contro qualcosa o qualcuno per la rabbia. Una dimensione spirituale e comunicativa che, però, non si manifesta affatto in disgiunzione con quella esplicitamente carnale della prima strofa, bensì in piena e indisgiungibile unione con essa. Dunque, una sorta di trascendenza nell’immanenza, una profondità nella superficie, un manifestarsi della persona nella sua più piena e dolorosa verità (nel suo “spirito”) che però nella poetica di Cohen scaturisce, e non può che scaturire, dal contatto fisico e corporeo, finanche da quello (apparentemente) più futile. Del resto, “chi si riempie la bocca con la profondità non diviene per ciò profondo”, scriveva provocatoriamente Adorno in Dialettica negativa (1966), l’anno prima dell’esordio discografico di Cohen con Songs of Leonard Cohen. E allora, così come, seguendo No Surrender di Springsteen, si può talvolta trarre maggiore insegnamento da una canzone di 3 minuti davvero appassionante che da anni di studio privi di passione, allo stesso modo verrebbe da chiosare la frase di Adorno dicendo che può esserci maggiore profondità esistenziale in una canzone che prende le mosse da una fellatio sul letto disfatto di una camera d’albergo con un partner occasionale che in alcuni sistemi di metafisica fondati su soggetti astratti, quasi irreali, nel cui corpo non scorre il sangue (riprendendo una celebre osservazione di Wilhelm Dilthey).
Da ciò, infine, in Chelsea Hotel #2 scaturisce un ultimo elemento: il potere liberatorio, emancipatorio, di autentica redenzione (e, anzi, autoredenzione) che solo la musica possiede. Dopo l’ammissione del senso di oppressione causato dal rapporto con i canoni estetici ufficiali imposti dalla società, ecco lo sfogo immediato e così “umano, troppo umano”, della partner di Cohen (che, in quel caso, sappiamo essere Janis Joplin): “Non importa, / Siamo brutti ma abbiamo la musica”. In questo contesto, dunque, la musica come strumento di consolidamento di sé a fronte delle asperità della vita, strumento di comunicazione autentica con chi condivide le proprie difficoltà ma anche i propri doni e talenti, strumento di resistenza al peso dell’oggettività sociale che schiaccia il soggetto, strumento di autoelevazione e persino di salvezza. Quanto alla versione di Chelsea Hotel #2 che, nel film-documentario su Cohen I’m Your Man del 2005 e nella relativa colonna sonora uscita l’anno seguente, ne fornisce Rufus Wainwright(il quale, fra l’altro, ha vissuto per sei mesi al Chelsea Hotel nel 2000 per scrivere le canzoni del suo secondo album e nel 2011 ha concepito una bambina in “parenting partnership” con la figlia dello stesso Cohen, Lorca), credo si possa concordare sul pathos che trasuda dalla sua interpretazione, con un tono dimesso nella prima strofa, un graduale crescendo emozionale che segue il progressivo aprirsi del brano e un vertice su quel “Well, nevermind / We are ugly, but we have the music” che davvero non lascia indifferente l’ascoltatore. Spesso tendente, purtroppo, a perdere la misura col suo “Baroque Pop” e a cadere nel kitsch, qui Wainwright si dimostra invece un interprete attento, molto intenso ma al contempo sobrio e misurato, capace di mettere da parte la propria vena istrionica per porsi completamente al servizio della composizione, per asservirsi alla sua legalità interna.
Volendo condensare invece in una sola espressione l’universo poetico-musicale del secondo brano, Paper-Thin Hotel, parlerei di “Gemito nella penetrazione, emancipazione dalla gretta autoconservazione ed elevazione dello spirito”. La scena è la stessa del brano precedente, una camera d’albergo, anzi due in questo caso. Qui, infatti, il protagonista, l’io narrante, non è impegnato attivamente in un rapporto sessuale ma, origliando di nascosto, spia piuttosto i due amanti che fanno sesso nella stanza accanto. A ciò corrisponde un’altra differenza decisiva: la superficialità del sesso rapido e fine a se stesso di Chelsea Hotel #2 lascia qui il posto a un pieno, profondo e doloroso (come sempre avviene quando a essere in gioco è il più essenziale e insieme contraddittorio dei sentimenti…) rapporto d’amore. Un sentimento d’amore che il protagonista avverte dentro di sé per una donna che, in quel momento, è impegnata però in un rapporto sessuale con un altro uomo, come confermano i decisivi versi iniziali del brano: “I muri di questo hotel sono sottili come carta / Ieri notte ti ho sentita fare l’amore con lui / La lotta bocca a bocca, membra a membra / Il gemito dell’unione quando lui è entrato dentro”.
Impressionante, davvero impressionante, nella scelta delle parole di Cohen per descrivere l’evento più semplice e naturale ed insieme più misterioso e inafferrabile del mondo, è a mio avviso l’uso dei due termini “struggle” e “grunt”. Ciò che il protagonista ode e/o immagina, separato com’è da una parete “sottile come carta” dai due amanti nella stanza accanto, è infatti la lotta, ma se si vuole anche lo sforzo, la sfida, la battaglia (“the struggle”), fra una bocca e un’altra bocca, fra le membra e gli organi di una persona e quelli di un’altra. Una lotta (difficile immaginare una metafora più calzante: parola ideale nel suo corposissimo essere aderente al reale) a cui fa seguito un gemito, anzi meglio un grugnito (“the grunt”) che, con l’atto della penetrazione (“he came in”), pone il definitivo sigillo alla conseguita unità, alla fusione di due corpi in uno (“unity”). Sempre per citare Adorno, “immergersi nell’eterogeneo”, “amalgamarsi con esso” sarebbe l’ideale o persino l’utopia della conoscenza. Verrebbe da dire che ciò che è forse precluso alla filosofia, e permane solo come suo telos inconseguibile ma comunque necessario, lo realizza in maniera immediata l’eros (non a caso l’espressione usata da Adorno è “sich anschmiegen”, una metafora erotica, la “umarmende Anschmiegung” essendo l’amalgamarsi reciproco, la fusione abbracciante, cioè in concreto l’amplesso: perfetto esempio di una congiunzione che non annulla la singolarità delle parti che si uniscono ma anzi le accresce, a differenza delle sintesi operate dai concetti).
E, come già in Chelsea Hotel #2, anche in Paper-Thin Hotel tutto ciò – descritto in maniera mirabile per cogliere in modo fedele il contatto superficiale (intendendo qui il termine nel senso della pelle, della superficie epidermica, sopra e dentro quella dell’altro) fra i corpi – dischiude un intero mondo di possibilità relative alle profondità dello spirito o, per usare i termini di Cohen, dell’animo (“my soul”). Come lì, anche qui la canzone ci presenta infatti una scena di apertura, catarsi, sollevamento, dispiegamento di sé. Lo struggimento per il mancato possesso della persona desiderata, che in quel preciso istante viene invece amata fisicamente da un altro uomo, non produce affatto gelosia (“I was not seized by jealousy at all”) e invece dà luogo – in una maniera paradossale che, però, non stupisce affatto chiunque conosca anche solo un po’ l’intrinseca paradossalità dell’amore in sé – al riconoscimento di trovarsi in balia di qualcosa che sfugge al dominio del Sé sulle proprie emozioni. Ovvero, in balia di qualcosa che mette in scacco la soggettività scioccamente convinta di bastare a sé e che, proprio per questo, induce un senso di accettazione che, però, è al contempo una liberazione. “Un pesante fardello si sollevò dalla mia anima / Ho sentito che l’amore era fuori dal mio controllo”: come nel caso della catarsi aristotelica da terrore e compassione (cfr. Poetica, 6, 1449 b 24-28), che in certe interpretazioni fisiologico-patologiche veniva intesa come espulsione dall’organismo di eccitazioni nocive che lo turbavano (cfr. Gentili 1996), allo stesso modo qui il “pesante fardello”, l’elemento disturbante che causava sofferenza, viene finalmente espulso, con conseguente riconquista di equilibrio e stabilità personali.
Perciò, al posto di una prevedibile disperazione subentra invece un’imprevedibile apertura gioiosa: “Ho ascoltato i vostri baci alla porta / Non avevo mai sentito il mondo così chiaro prima / […] Mi sentivo così bene che non provavo nulla”. Lungi dal restare incatenati al vincolo della gretta autoconservazione, all’incubo del mero desiderio di possesso dell’altro per soddisfare la propria brama (che si tratti di mero desiderio o profondo sentimento d’amore non fa granché differenza…), nel rispondere alla sfida posta anche stavolta da un evento fisico, descritto in modo esplicito e senza inutili infingimenti, ci si scopre capaci di autoelevazione o, volendo recuperare un famoso concetto dello Zarathustra di Nietzsche, di autosuperamento. Un’autoelevazione ben sintetizzata dall’efficace uso, nell’ultima strofa della canzone, di termini che convenzionalmente stanno a indicare ciò che sta più in alto, il livello a cui si giunge dopo una lunga e faticosa pratica di ascesi (qui descritta però come immediata e, soprattutto, per niente disincarnata e ultraterrena ma, viceversa, inseparabile dalla carne che si esprime con ammirevole foga nell’atto sessuale). I termini in questione sono “angel” e “heaven”. L’angelo, dunque, con l’uso di una simbologia religiosa che però non viene affatto disgiunta da Cohen da quella erotica che è all’opera anche in questo brano: la donna amata/odiata (in quanto fonte di gioia e dolore insieme, come sempre nell’amore) è infatti “la Donna Nuda nel Mio Cuore / l’Angelo dalle Gambe Aperte” (senza che ciò implichi secondo me una degradazione della figura femminile, come invece sostiene Caselli 2014: 159). E, quanto al riferimento al paradiso, ci viene parimenti ricordato che “Puoi andare in paradiso solo dopo essere stato all’inferno” (quello della gelosia, qui), riaffermando così la succitata connessione essenziale degli opposti quale cifra unitaria della poetica coheniana.
Come scrive Massimo Cotto (1993: 24), troviamo in Cohen “sesso e religione, […] desiderio e rinuncia, […] ricerca della saggezza non evitando ma attraversando la passione”, anche negli aspetti più oscuri e desolanti di quest’ultima. Nessuno, aggiungerei, poteva essere maggiormente all’altezza di Greg Dulli per reinterpretare questo brano e, infatti, la sua versione dà semplicemente i brividi. Greg Dulli, che con Black Love (1996), il capolavoro dei suoi Afghan Whigs, ha incarnato e incarna ancora agli occhi di chi si è formato in quegli anni il cantore dell’amore tragico e doloroso, tanto dolce quanto amaro, anzi dolcissimo e amarissimo insieme. Greg Dulli, che definisce Paper-Thin Hotel “la sua canzone preferita di Leonard Cohen” (perché le parole del brano “chiariscono e al tempo stesso legittimano l’amore”), che descrive la propria poetica come focalizzata su “sesso e mestizia” e che, nel magnifico brano My Curse dal disco Gentlemen (1993), scrive: “Temptation comes not from hell but from above”, aggiungendo con un indefinibile misto di forza e insieme disperazione: “Slave I only use as a word / To describe the special way I feel for you”. Un’affinità elettiva, quella fra Cohen e Dulli, sigillata dal riferimento comune alla dicotomia “vincente/perdente” o, appunto, “padrone/schiavo”, in cui spesso “la bellezza è contenuta proprio nell’essere perdenti” e in cui, nella coppia, “non esiste alla fine differenza fra schiavo e padrone [e] i ruoli si invertono continuamente” (Cotto 1993: 21-23).
Ed eccoci ad Hallelujah, infine. Uno dei brani più celebri di Cohen, anche se a conferirgli tale celebrità sono state soprattutto le reinterpretazioni offerte da altri artisti: reinterpretazioni talmente numerose e variegate da spaziare con nonchalance dall’orrido e terribilmente kitsch (Ivana Spagna, Justin Timberlake, Bon Jovi, la vincitrice del talent show britannico The X Factor, persino Cristina D’Avena in una compilation natalizia…) al bello o comunque accettabile (John Cale, Bono, Damien Rice, ancora Rufus Wainwright), fino ad arrivare al sublime e incommensurabile (Jeff Buckley). Uno dei brani di Cohen maggiormente associabili alla religiosità, Hallelujah, una delle sue “tante canzoni-preghiera” (Palma 2016: 8), e ciò fin dal titolo e dalla ripetizione incalzante del termine nel ritornello. E però, contemporaneamente, uno dei brani maggiormente associabili anche al sesso, uno dei brani in cui emerge nella maniera più chiara l’idea di fondo di Cohen (1993: 17) secondo cui “non esiste assolutamente conflitto […] fra sesso e religione, che sono, anzi, la medesima cosa. L’esperienza estatica che deriva dal sesso è la stessa che si sprigiona dalla religione”.
Per comprendere appieno questo aspetto, che possiamo considerare come uno sviluppo ulteriore del tema generale che ci ha guidati fin qui (da “il corpo e/è lo spirito” fino a “l’estasi corporea, sessuale, e/è l’estasi spirituale, finanche mistica”), bisogna tener conto della genesi travagliata del brano e delle varie versioni esistenti del testo. Cohen, infatti, ha ammesso di avere impiegato oltre due anni per venire a capo della stesura del brano e di avere composto circa 80 strofe, delle quali solo 4 sono state selezionate per la versione incisa nel disco Various Positions (1984). Quando John Cale, l’ex-membro dei Velvet Underground, decise nel 1990 di incidere una cover del brano, Cohen gli fornì una quindicina di pagine contenenti diverse strofe tra cui poter scegliere. Nel 1988 lo stesso Cohen ne registrò una versione diversa dal vivo, poi pubblicata nel disco Live Cohen (1994). E, sempre nel 1994, Jeff Buckley immortalò nel suo unico disco, Grace, quella che indubbiamente rimane e rimarrà sempre la più bella versione di questo brano, utilizzando le prime due strofe della versione originale di dieci anni prima seguite però da altre tre strofe più recenti. La differenza, come si può facilmente vedere, è notevole. Le prime due strofe, infatti, sono intrise di religiosità biblica, con riferimenti espliciti o impliciti a Davide e Betsabea, a Sansone e Dalila, e ovviamente al Signore in onore del quale intonare l’Alleluia; ma le strofe successive, nella seconda versione, lasciano emergere in modo chiaro la tematica corporea e carnale, ovvero la sessualità in onore della quale va parimenti intonato un Alleluia.
È in particolare la quarta strofa (inclusa anche nella versione di Buckley) a rendere manifesto il fatto che, nella poetica di Cohen, “il sesso […] produce uno slancio esistenziale che si avvicina a quello soprannaturale e apre a una comprensione del divino altrimenti impensabile. L’orgasmo, il punto più alto dell’amore fisico, è un momento magico che ci mette in connessione con l’universo, che ci regala un fuggevole assaggio di ciò che significa stare vicini a Dio” (Caselli 2014: 221). Si legge e si ascolta infatti in Hallelujah: “C’era un tempo in cui mi facevi sapere / Cosa succede davvero laggiù / Ma ora non me lo fai mai vedere, vero? / Ricordo quando mi muovevo in te / E la sacra colomba si muoveva anch’essa / E ogni nostro singolo respiro era Alleluia”. La connotazione erotica che assume qui l’estasi mistica è evidente, al punto che i responsabili della traduzione disponibile sul principale sito web italiano dedicato al cantautore canadese (LeonardCohen.it) spiegano che, nel caso del verso “Well, there was a time when you let me know / What’s really going on below / But now you never show that to me, do ya?”, si sarebbe tentati di “tradurre direttamente ‘non me LA fai più vedere’”: “qui Cohen gioca (molto) sporco” e “il senso, nemmeno troppo celato […], è ‘una volta mi facevi sapere quando avevi bassi istinti, mentre ora non me la fai vedere nemmeno di lontano’”. E, parimenti, anche le immagini successive possiedono un fortissimo connotato erotico, dal riferimento all’atto della penetrazione (“I moved in you”) a quello all’ansimare degli amanti che, al culmine del godimento, si trasforma in un Alleluia.
Ancora una volta, nessuno lo ha colto meglio di Jeff Buckley, il quale pare abbia dichiarato in un’intervista che, a un ascolto attento, Hallelujah si rivela essere “una canzone che parla di sesso, di amore, della vita sulla terra”, e dunque non “un omaggio a una persona adorata, a un idolo o a Dio” ma, in modo molto più terreno, “l’alleluia dell’orgasmo”, “un’ode alla vita e all’amore”. E, soprattutto, nessuno lo ha catturato meglio di Buckley per ciò che egli è riuscito a trarre dal brano in assoluta solitudine, accompagnato solo dalla fida Fender Telecaster, senza bisogno d’altro, sia nella registrazione in studio che nelle performance sul palco, con la sua voce unica, inarrivabile, trasudante sensualità e/è misticismo. In ultima analisi, l’unica voce, quella di Buckley, capace di rendere appieno la compresenza di affermazione e negazione, élan vital e annichilimento, amore e odio, che a mio giudizio costituisce il senso della canzone e che, parimenti, costituisce l’essenza di un fenomeno da cui, in certi momenti della vita, forse sarebbe bello poter prescindere ma da cui (purtroppo o per fortuna, è difficile dirlo) non ci si riesce a sottrarre. Ovvero l’amore che, come insegna Cohen, “non è una specie di marcia trionfale, / No, è una fredda e molto disperata Alleluia”, tale per cui tutto ciò che si può imparare da esso è, come in una lotta, anzi meglio come in un duello, “in che modo sparare a chi è stato più lesto di te (how to shoot somebody who outdrew ya)”.

Fonte: Scenari Mimesis 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.