La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 12 gennaio 2017

A Londra il ciclo-fattorino non è un imprenditore ma un lavoratore

di Arianna Tassinari e Vincenzo Maccarrone 
A tre mesi dalla sentenza sul caso degli autisti di Uber, dalla Gran Bretagna arriva un’altra buona notizia per i lavoratori della cosiddetta gig economy. Venerdì 6 gennaio il tribunale per l’impiego di Londra ha infatti deliberato a favore di Maggie Dewhurst, una ciclista della ditta di consegne CitySprint che aveva citato l’azienda in tribunale riguardo al proprio status contrattuale. Proprio come Uber e altre piattaforme di consegna come Deliveroo, CitySprint – che fattura 145 milioni di Sterline all’anno – classifica i suoi 3,500 corrieri-ciclisti come self-employed.
I fattorini vengono cioè considerati alla stregua di «imprenditori di sé stessi», che forniscono i propri servizi all’azienda committente. Ma come già nel caso della sentenza sugli autisti di Uber emessa ad ottobre, il tribunale per l’impiego londinese ha invece deliberato che Dewhurst non lavora per sé stessa, ma per CitySprint, e deve essere dunque classificata come worker.
Nel sistema inglese, quella di worker è una categoria contrattuale intermedia tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato, simile al nostro lavoro para-subordinato, e comporta il riconoscimento di alcuni diritti per i lavoratori, come le ferie e giorni di malattia pagati ed un compenso orario minimo. Dewhurst, delegata del sindacato di base IWGB, che anima molte delle lotte dei lavoratori della logistica a Londra, aveva aperto la vertenza per una disputa su due giorni di ferie non pagate. La sentenza ha però una portata ben più ampia. Come già nel verdetto su Uber, raccontato da Il Manifesto, il tribunale del lavoro ha smascherato il business model adottato dalle compagnie della logistica che operano nell’universo della gig economy, basato sulla fittizia classificazione dei propri lavoratori come autonomi così da privarli di alcuni diritti fondamentali come le ferie o la malattia. Nella sentenza di primo grado, il giudice ha riconosciuto che esiste una fondamentale disparità di potere contrattuale tra CitySprint e i suoi ciclo-fattorini.
È l’azienda, infatti, che ha il potere di regolare la quantità di lavoro disponibile per i corrieri e di definire modalità e tempistiche del loro lavoro. Il giudice scrive di «non avere dubbi sul fatto che il corriere lavori non per sé stessa, con CitySprint come cliente, ma per CitySprint». Diversi aspetti dell’organizzazione del lavoro dimostrano come i fattorini siano pienamente integrati nelle operazioni dell’azienda.
In primis, CitySprint pretende una certa costanza nei giorni di disponibilità al lavoro offerti dai fattorini. Mentre lavorano i corrieri sono diretti dal centro di controllo riguardo alle consegne da prendere in carico e non possono rifiutare i lavori a loro assegnati. Inoltre, ricevono istruzioni precise su come interagire con i clienti, devono indossare l’uniforme aziendale e vengono pagati secondo le modalità definite dall’azienda.
I corrieri hanno dunque «poca autonomia nel determinare il modo in cui svolgono i propri servizi, e nessuna possibilità di definirne i termini». Allo stesso tempo, privati di alcuna sicurezza di impiego, «si sentono di fatto obbligati a fare come gli viene detto, per essere sicuri di continuare a ricevere lavoro in futuro». Il giudice bolla quindi come pura operazione di facciata la terminologia utilizzata da CitySprint quando sostiene che i corrieri «rendono i propri servizi disponibili all’azienda». La sentenza non è vincolante per gli altri fattorini di CitySprint, ma rappresenta un altro precedente che potrebbe risultare determinante negli analoghi casi legali che il sindacato IWGB sta portando avanti contro altre tre ditte di consegne, con udienze previste tra febbraio e marzo, e spianare poi la strada ad ulteriori ricorsi dei lavoratori della gig economy.
Con una strategia che combina i ricorsi nei tribunali per l’impiego con la mobilitazione e l’agitazione sindacale, l’IWGB e gli altri sindacati di base attivi nel settore stanno mettendo in discussione in maniera fondamentale le pratiche d’impiego dominanti nella cosiddetta gig economy inglese. Per ora i tribunali hanno dato loro ragione, ma rimane da vedere se seguiranno ulteriori interventi di regolamentazione da parte del governo. La battaglia continua.

Fonte: Il manifesto 

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