La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 13 gennaio 2017

Una storia economica delle migrazioni italiane

di Lorenzo Cattani 
Nei dibattiti accademici e politici viene spesso ricordato che, nel corso degli ultimi duecento anni, l’umanità è stata testimone di due ondate di globalizzazione, una è quella che stiamo vivendo ora, mentre la prima è quella che ha avuto luogo tra il 1870 e il 1914, verificatasi in concomitanza col ciclo egemonico del Regno Unito, comunemente definito Pax Britannica. Nel corso degli anni, capire se queste due globalizzazioni fossero uguali o meno è diventato un vero e proprio argomento di discussione, che tiene tuttora banco. Senza entrare nel dettaglio del dibattito, è sicuramente vero che queste due fasi storiche condividono diverse caratteristiche, fra cui la presenza di importanti flussi di migrazioni.
Francesca Fauri sceglie di studiare questo fenomeno, analizzando approfonditamente il caso italiano, che ha visto milioni di persone partire dall’Europa per cercare fortuna all’estero. È opinione di chi scrive che questo libro porti a galla elementi di riflessione che tuttora farebbe bene tenere a mente; in un passato non troppo lontano anche l’Europa è stata terra di emigrazione e, nonostante non si possa certo dire che i flussi di oggi siano uguali a quelli di allora, vi sono lezioni del passato che potrebbero fornire un utile punto di vista.
Il libro è stato suddiviso in quattro parti: nella prima viene analizzato il mercato internazionale del lavoro formatosi tra il 1851 e il 1914, nella seconda viene descritta l’organizzazione delle migrazioni nel periodo 1876-1914, nella terza vengono studiate le mete delle migrazioni e, infine, nella quarta si guarda a ciò che è successo ai flussi migratori italiani dal periodo fascista al secondo dopoguerra.
Un mercato internazionale del lavoro
Le migrazioni hanno sempre fatto parte della cultura italiana. Fauri ricorda infatti la presenza di flussi di migrazioni pre-unitari nell’Italia ottocentesca, con la fascia costiera da Piombino fino alla regione a sud di Roma che attirava ogni anno 100000 lavoratori agricoli per la mietitura del grano. A questo si aggiunge anche il forte dinamismo delle regioni montuose, da sempre terra di emigrazione, a dimostrazione del fatto che “sin dai tempi antichi la popolazione europea non è mai stata statica ma tendenzialmente molto più mobile di quanto si è sempre creduto”.
A partire dalla metà del XIX secolo si stava formando un mercato del lavoro globale. Per comprendere la portata di questo fenomeno basti pensare che nel giro di 63 anni dall’Europa partirono 40 milioni di persone in cerca di fortuna nel Nuovo Mondo. Di fronte ad un dato simile, l’autrice afferma che ciò che più sorprende non sta “nel fatto che tante persone fossero desiderose di emigrare, quanto nel fatto che fu permesso loro di farlo”. Il mercato internazionale del lavoro, che l’autrice ritiene essere probabilmente un caso unico nella storia, nasce per via di due “caratteristiche imprescindibili”: la prima, nonché la più importante, è la libera circolazione della manodopera mentre la seconda è il progresso tecnologico nei trasporti. Era quindi possibile ricercare una meta lavorativa migliore nello stesso tempo in cui il progresso tecnologico rendeva meno costosa la scelta di intraprendere viaggi che col tempo diventavano sempre più brevi. Per avere un’idea più precisa Fauri ricorda che nel 1867 l’Atlantico veniva attraversato in 44 giorni con il trasporto a vela, mentre nel 1890 lo stesso viaggio durava 7 giorni grazie alle navi a vapore. Molto spesso il lavoro veniva assicurato dalle “catene migratorie” formate da parenti e amici emigrati precedentemente, che richiamavano ed esortavano a partire, arrivando a scrivere nelle loro lettere “quanto più presto vieni, tanto più presto potremo accumulare denaro”. Elemento sorprendente di queste migrazioni era l’accettazione di lavori stagionali su scala di fatto continentale. Come ricorda Fauri “si lavorava il raccolto […] prima in un continente poi nell’altro nel corso dello stesso anno”, mentre in alcuni paesi come gli USA si sfruttavano i climi dei mesi più temperati per svolgere lavori all’aperto come l’edilizia o la costruzione di ferrovie. Molto spesso chi emigrava sceglieva di tornare a casa per poi emigrare nuovamente, elemento che Fauri ascrive a strategie familiari di lungo periodo. Detto ciò, quali erano le ragioni per cui gli individui sceglievano di emigrare? Su questo argomento l’autrice afferma che non sia possibile fornire una spiegazione univoca, ma che si debba fare ricorso a più variabili. Fauri ne riconosce quattro:

1 Il differenziale salariale fra paese di partenza e paese di destinazione. Si può infatti affermare che l’emigrazione dall’Europa al nuovo mondo abbia fortemente influenzato, per circa il 70%, la convergenza salariale fra le due regioni. Questo fece sì che si smise di emigrare solo per sfuggire alla fame, ma che si partisse guidati dall’aspirazione a migliorare le proprie condizioni economiche. A ciò bisogna aggiungere le prospettive offerte dal paese di arrivo. Ad esempio, gli USA offrivano una serie di servizi (scuole, assistenza sanitaria, ma anche istituzioni democratiche stabili ecc…) che rendevano il Nord America una meta molto ambita.
2 La spinta demografica. L’aumento del tasso di crescita della popolazione rese fondamentale l’emigrazione in quanto permise di “alleggerire la pressione demografica sul vecchio continente, spostando forze di lavoro giovani in settori e aree geografiche dove potevano essere impiegate in maniera più produttiva.”
3 La catena migratoria. In quella che può giustamente essere definita path depedence, le migrazioni passate hanno influenzato quelle future. Fauri ricorda infatti che più del reclutamento effettuato dalle agenzie sono state le lettere dei parenti e degli amici che hanno spinto molte persone a partire e che “regolavano la marea dell’emigrazione europea verso l’America”; è importante ricordare che la catena migratoria, grazie a cui fu messo in piedi un sistema di “mutuo aiuto”, ha determinato il 60% delle partenze dall’Italia negli USA ma non era una prerogativa unicamente italiana.
4 La politica migratoria. Naturalmente, la scelta della destinazione verso cui emigrare è stata fortemente influenzata dalle condizioni politiche dei paesi di destinazione. Nel periodo preso in considerazione da Fauri la politica più comune tendeva ad incentivare la partenza tramite diversi mezzi come “sussidi al costo del biglietto o agevolazioni ai coloni europei che si impegnavano in agricoltura”. Vi erano però altri paesi che optarono per politiche più restrittive, ad esempio il Commonwealth preferì gestire flussi di migrazioni prevalentemente formati da anglo-sassoni, chiudendosi all’emigrazione extra-britannica. Col tempo furono inseriti, anche nei paesi più aperti alla manodopera straniera, test di alfabetizzazione propedeutici per poter entrare e anche leggi sulle quote annuali da accettare. Tendenzialmente, l’era della “porta aperta” finì poco prima della Grande Guerra.

Analizzati le variabili che spingevano i lavoratori ad emigrare, Fauri si sposta sul tema dell’impatto economico di queste migrazioni. Su questo tema vi sono molti dati sugli Stati Uniti, primo paese che istituì commissioni per dedicarsi principalmente allo studio dell’immigrazione e ai suoi effetti. Le conclusioni raggiunte dalla Immigration Commission furono innanzitutto che il fenomeno andasse inquadrato in chiave economica e non razziale. Un primo risultato importante fu che la commissione smentì l’idea per cui l’immigrazione generasse competizione sleale tra gli immigrati e i lavoratori domestici. Le fluttuazioni salariali rinvenute in quegli anni erano invece da attribuire al progresso tecnologico che stava causando un processo di labor saving, per cui gli operai specializzati venivano sostituiti dagli strumenti meccanici mentre, allo stesso tempo, veniva favorita l’assunzione di operai non qualificati. In questo caso la domanda di lavoro a basso costo non qualificato fece fronte l’immigrazione. La commissione però non si fermò qui, arrivando a sostenere che fu l’immigrazione a catalizzare un (ormai inevitabile) progresso tecnologico e non il contrario. L’assunzione di lavoro non qualificato richiedeva un livello di maggior sofisticazione dal lato delle macchine. Fauri ricorda che gli industriali ammisero che senza i lavoratori immigrati “non avrebbero potuto tenere il passo con il progresso industriale”. Altro dato importante è quello per cui l’immigrazione ha fondamentalmente seguito le fluttuazioni del business, con i flussi in partenza dall’Europa che aumentavano durante momenti di espansione del ciclo di affari mentre, durante i momenti di depressione, tendevano a ridursi. Ciò è dimostrato dai dati sui salari, che sono calati nei momenti in cui il paese di destinazione non era in grado di assorbire tutto il flusso delle migrazioni.
La minore specializzazione degli immigrati italiani, spesso analfabeti provenienti dall’agricoltura, si traduceva naturalmente in un salario più basso, cosa che consoliderebbe l’idea per cui l’aumento dell’immigrazione causerebbe un abbassamento nei salari del paese di arrivo. Tuttavia, nel caso statunitense, Fauri cita gli studi di Williamson che mostra come dopo la guerra civile i salari reali sarebbero stati non molto più elevati, circa l’11% in più, senza l’immigrazione. Williamson afferma che sia “un piccolo prezzo da pagare” dato che nel corso di quarant’anni il progresso industriale stimolò un aumento dei salari del 170%.
Tuttavia, gli ultimi studi hanno dimostrato che l’immigrazione ebbe un effetto moderatamente positivo sui salari dei lavoratori autoctoni. I lavoratori domestici verrebbero colpiti negativamente dall’immigrazione qualora avessero competenze simili agli immigrati, ma ne beneficerebbero qualora avessero competenze diverse, poiché ciò renderebbe scarsi i servizi da loro offerti, aumentando quindi la remunerazione.
L’organizzazione delle migrazioni
Relativamente a questa parte, per non “appesantire” eccessivamente la recensione, ci si concentrerà soprattutto sul tema delle rimesse degli immigrati italiani e delle conseguenze per l’economia italiana che queste hanno avuto. Fauri spiega innanzitutto che è molto difficile fornire una stima corretta delle rimesse inviate dagli immigrati verso l’Italia, poiché non tutte le rimesse sono visibili. Un’importante quota “veniva affidata alla gestione di banchieri privati oppure consegnata ad amici e parenti […] o ancora portata a casa direttamente dall’emigrante”, questo fa sì che le stime ufficiali siano giocoforza al ribasso. Detto ciò, tra il 1901 e il 1914 arrivarono circa 15 miliardi di lire, che coprirono circa un quarto delle entrate nella bilancia dei pagamenti. Questo fenomeno fu fondamentale nel coprire una buona parte dell’eccedenza delle importazioni sulle esportazioni, tuttavia ebbe conseguenze anche in altri ambiti. Grazie alle rimesse, infatti, la Cassa Depositi e Prestiti si arricchì sensibilmente, “rendendo possibili prestiti agli enti locali d’ogni parte d’Italia per scopi di pubblica utilità”; inoltre, le famiglie iniziarono ad investire i risparmi in buoni del Tesoro. Come ricorda l’autrice, le rimesse ebbero un ruolo indiretto nella conversione del debito pubblico italiano e nell’apprezzamento della lira.
Particolarmente rilevante è il dato sul grado di ramificazione delle linee di credito che le rimesse hanno incentivato: dal 1890 al 1913 il numero dei correntisti aumento da 323 a 2108, una crescita del 533%. Tuttavia, le rimesse hanno generato anche conseguenze a livello microeconomico. Sono state tendenzialmente usate per saldare debiti, acquistare terreni o case, che Fauri giudica come “investimenti conservativi, che tendevano a difendere l’ordine esistente nella famiglia rurale e il suo ambiente culturale”. Questo stimolò una crescita della piccolissima proprietà contadina, senza però creare il tessuto di piccole aziende autosufficienti che veniva auspicato. Soprattutto al Meridione, questo fenomeno ha avuto un effetto dispersivo, tradottosi nell’acquisto di “case, terreni poco produttivi e costosi” o nel saldo dei debiti contratti in precedenza. Un’altra conseguenza positiva delle rimesse fu quella di migliorare il tenore di vita e la dieta della famiglie, stravolgendo “la tradizionale dieta vegetariana basata su pane e legumi”, introducendo anche carne e pesce.
Le rimesse hanno però avuto anche stimolato la nascita di una certa microimprenditorialità, per cui molti italiani aprivano piccole attività artigianali coi soldi risparmiati all’estero, e hanno avuto un impatto positivo anche sugli istituti di credito. Grazie alle rimesse, infatti, tali istituti, ispirati da un forte senso di responsabilità, hanno sfruttato il flusso derivante dalle rimesse per estendere la linea di credito o per finanziare progetti di investimento. Fauri cita il caso di Agnone, una città nel Molise, dove grazie alle rimesse aumentarono le azioni di sostegno a importanti iniziative, su tutte quella che avrebbe dotato la città di una moderna rete elettrica per l’illuminazione cittadina. Soprattutto in questo caso sono fortemente marcate le differenze con il Meridione, dove “le élite sociali ed economiche che controllavano le reti bancarie locali si disinteressarono degli investimenti produttivi in loco e privilegiarono largamente le piazze finanziarie sicure, quelle garantite dallo stato, drenando così i soldi degli emigranti verso altri circuiti, a beneficio degli interessi economici e finanziari extra regionali”. L’autrice arriva quindi alla conclusione che dove le banche hanno saputo comportarsi responsabilmente sono effettivamente riuscite a gettare le basi dello sviluppo economico locale.
Le mete delle migrazioni
In questa sezione Fauri prende in esame quattro mete delle migrazioni, USA, America Latina (concentrandosi su Argentina e Brasile), Europa e Africa mediterranea.I dati mostrano come, sul totale dell’emigrazione italiana di quegli anni, il 45% delle partenze si dirigesse in Europa, il 37% verso le Americhe e il 16% verso gli USA. L’Africa ha un ruolo minoritario, anche se è stata meta di emigrazione italiana, soprattutto per quanto riguarda la Tunisia. Riguardo l’Europa, Fauri afferma l’esistenza di una “continuità storica che ha origini pre-unitarie”, dove l’emigrazione faceva parte di strategie e pianificazioni familiare condivise. Le mete più ambite erano Francia, Svizzera e Germania, mentre la regione italiana con il maggior numero di partenze per l’Europa era il Veneto. Tuttavia, più che su questi dati, ci si concentrerà sulle condizioni dei migranti italiani nelle mete d’arrivo.
Negli Stati Uniti l’immigrato italiano non era ben voluto. Questo soprattutto per via del forte analfabetismo degli italiani e della loro scarsa volontà di integrarsi, dal momento che gli italiani tendenzialmente vivevano all’interno delle loro comunità, senza imparare la lingua e scegliendo di tornare in patria dopo un certo periodo. L’accoglienza americana non fu quindi amichevole, guidata dalla paura che questa nuova immigrazione potesse “inquinare” l’old stock di immigrati che avevano dato vita alla spina dorsale della comunità statunitense. Tuttavia, l’opposizione maggiore all’immigrazione italiana provenne dai lavoratori a bassa specializzazione, esposti più degli altri alla concorrenza esercitata dalla manodopera italiana a basso costo. Fauri, spiega infatti che più che la diffusione del “nativismo” americano, sono state le dinamiche del lavoro a far sì che il governo abbandonasse la politica della porta aperta (soprattutto tramite le pressioni dell’American Federation of Labor, dei sindacati e rappresentanti politici).
Gli italo-americani aprivano prevalentemente attività commerciali nel settore alimentare o della ristorazione, inizialmente per soddisfare le richieste della comunità italiana stessa, per poi espandersi anche all’esterno delle comunità italiane. Intorno a queste attività ne nacquero altre: oltre ai sopracitati ristoranti aprirono negozi di barbieri, sartorie, laboratori di scultura e anche imprese edilizie a confermare quella che Fauri definisce una “poliedrica presenza dell’imprenditoria italo-americana negli Stati Uniti”. Si può che dire che si fosse riprodotta all’estero la struttura imprenditoriale già esistente in Italia, formata da attività piccole a conduzione tendenzialmente familiare. Tuttavia, gli italiani hanno avuto ruolo importante anche nella grande imprenditoria statunitense. Nel 1904 infatti Amedeo Giannini fondò la Banca d’Italia che, dopo qualche anno fu rinominata Bank of America, ad oggi una delle più importanti banche commerciali statunitensi.
Diversa era invece la situazione in America Latina, dove vi era una forte necessità di manodopera al punto che Argentina e Brasile inviavano in Italia dei reclutatori con il preciso compito di convincere gli italiani a emigrare. Venivano spesso forniti incentivi per rendere il viaggio più conveniente e, nel caso del Brasile, che non poteva competere coi salari argentini, una serie di incentivi non monetari come il contratto di mezzadria, la concessione della casa e di un pezzo di terra su cui pascolare il bestiame. Il differenziale salariale e il prezzo scontato a cui si poteva comprare un terreno fecero dell’Argentina un importante meta dell’emigrazione italiana. In campo industriale è da segnare l’attività del Banco de Italia y Rio de la Plata, fondato nel 1872. Questo istituto si occupò di moltissime attività: compravendita di terreni agricoli, sostegno finanziario alle imprese pubbliche e private e la costruzione di diverse opere pubbliche come ospedali e scuole, ma anche ferrovie e opere di ingegneria idraulica. Nel 1884, col fine di intensificare gli scambi tra i due paesi, venne fondata la Camera di commercio, il cui compito non era solo quello di fare da intermediario fra produttori e acquirenti delle due nazioni, ma anche “provvedere alla liquidazione di merci avariate, fornire informazioni finanziarie e commerciali e comporre controversie” e tante altre cose. Altro dato importante è che il 35% dei proprietari di industrie in Argentina era di nazionalità italiana. In seguito molte aziende italiane aprirono filiali in Argentina (Cinzano, Martini e Pirelli sono fra i nomi più importanti). Infine, nel 1911 nacque la compagnia italo-argentina dell’elettricità, che col tempo divenne la compagnia elettrica più importante del paese.
A differenza dell’Argentina, quella in Brasile è stata un’emigrazione caratterizzata da molti chiaroscuri. Gli immigrati italiani si trovarono spesso a dover affrontare climi ostili, in zone scarsamente collegate ai mercati urbani. Per questo motivo, molti italiani abbandonarono il Brasile per emigrare altrove o tornare in patria. Come afferma Fauri, “fino a quando resse il boom del caffè le cose andarono bene per tutti” ma con la crisi iniziata nel 1897 la situazione peggiorò sensibilmente. In generale quindi “prima della crisi del caffè, molti emigranti vissero indubbi successi, in seguito per i nuovi arrivati gli spazi si restrinsero e con le difficoltà economiche del paese anche le opportunità di facili guadagni”.
Infine, anche l’Africa mediterranea fu meta di arrivo. Soprattutto per i sardi, che consideravano la meta africana una buona opportunità di arricchimento, e i siciliani, per cui come afferma Fauri, “la naturale vicinanza alle coste siciliane facilità enormemente il superamento della trappola di povertà: il costo esiguo del passaggio via mare permise anche ai più poveri di partire, i quali in molti casi scelsero l’Africa […] proprio per questa ragione”. Il caso tunisino in particolare ha presentato diversi casi di successo per gli italiani, i quali riuscivano ad ottenere un pezzo di terra diventando piccoli proprietari terrieri, dopo che in Sicilia le loro richieste di una più equa distribuzione erano state disattese. In questo modo “ciascuno poteva aspirare ad un posto onorevole attraverso il lavoro”.
Dallo stallo fascista alla ripresa dei flussi migratori nel secondo dopoguerra
Durante il ventennio l’emigrazione venne drasticamente ridotta, se si esclude la colonizzazione demografica, ovvero “il trasferimento di intere famiglie sia verso le varie zone di bonifica nella penisola sia verso l’Africa e in particolare la Libia”. Principale effetto di questa politica delle migrazioni fu un forte movimento interno, tendenzialmente da sud verso le zone industriali del nord Italia, anticipando quello che sarebbe successo durante il miracolo economico. Per quanto riguarda le colonie africane, lo sforzo fatto dal governo fu sostanzialmente vano, come sostiene Fauri infatti “del punto di vista economico e commerciale l’impero coloniale italiano fu poco redditizio e molto costoso […] lo sforzo organizzativo messo in campo dal fascismo per la colonizzazione di Etiopia, Eritrea e Somalia e Libia portò a magri risultati e anche i numeri confermano la poca attrattiva dei nuovi possedimenti africani”.
Dopo il secondo conflitto mondiale le migrazioni erano formate non solo da chi era partito per cercare lavoro all’estero ma anche da profughi e sfollati, dei quali si occupò l’Organizzazione internazionale per i rifugiati che, nel caso italiano, si occupò soprattutto degli esuli dall’Istria, Fiume e Dalmazia. Dal lato del lavoro furono invece l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) e l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE) ad occuparsi dei movimenti di manodopera. Ad esempio, l’OIL utilizzò dei fondi ottenuti dall’OECE per “insediare delle missioni nei paesi di immigrazione ed emigrazione al fine di consigliare i governi sui metodi più appropriati per scegliere e poi organizzare la sistemazione e il lavoro dei migranti in paesi che necessitavano di manodopera”. A partire dal 1952, ad occuparsi dei flussi di migranti “economici” pensò il Comitato Provvisorio Intergovernativo per il Movimento dei Migranti dall’Europa (CPIMME), in seguito diventato permanente (CIME). Questo ente si occupava di facilitare il viaggio della manodopera da paesi dove vi era un surplus di popolazione a paesi che invece necessitavano di manodopera. Il CIME fornì una serie di servizi per regolamentare i flussi oltre al semplice trasporto dei migranti; tra questi servizi è importante citare le attività per “preparare, ricevere e insediare i migranti, servizi che nessun’altra organizzazione internazionale era in grado di offrire” come afferma Fauri. Con il passare del tempo il ruolo del CIME nel fornire “emigrazione assistita” si andò assottigliando per via dell’enorme crescita economica che l’Europa sperimentò negli anni successivi al dopoguerra e che portò il continente a sfiorare il pieno impiego.
In quegli anni l’Italia incentivò fortemente l’emigrazione, con il chiaro intento di sfruttare i flussi per abbassare la disoccupazione. Tuttavia, le modalità di questa emigrazione non furono quelle ottocentesche, ma furono caratterizzate da un certo grado di assistenza e regolazione dei flussi. Come suggerisce Fauri “un’importante novità […] fu la possibilità offerta ai paesi riceventi di operare un’attenta selezione dei migranti in partenza. Non solo di ordine sanitario […] quanto e soprattutto a livello di competenze, potendo richiedere determinate qualifiche professionali destinate a colmare la penuria di manodopera, specializzata e non, in determinati settori agricoli, industriali e terziari dei paesi europei ed extra-europei”. Le mete principali di questa emigrazioni furono Svizzera, Francia e Belgio, con cui l’Italia siglò accordi bilaterali che, tra le altre cose, stabilirono la parità di trattamento fra i lavoratori italiani immigrati e la manodopera “domestica”. Le cose cambiarono con la libera circolazione dei lavoratori, uno degli obiettivi costitutivi della CEE, per cui paesi come Francia e Germania potevano “assumere lavoratori extracomunitari svincolati dalle norme di parità salariale e previdenziali che condizionavano i trattati firmati con l’Italia”. Tuttavia, ciò avvenne in un momento in cui l’emigrazione italiana era già entrata in una parabola discendente. Come sostiene Fauri “ il miracolo economico italiano e il grande processo delle migrazioni interne avevano contribuito notevolmente a risolvere il problema della disoccupazione”.
L’ultima parte del libro è infine dedicata agli sviluppi degli ultimi anni, con l’Europa che da regione di partenza è diventata regione di arrivo dei flussi delle migrazioni.
Come anticipato in precedenza, questo libro ha il pregio di gettare luce su un periodo storico che ha visto gli italiani emigrare verso l’estero e probabilmente vi sono lezioni del passato che potrebbero essere utili anche oggi. Degne di nota sono infatti le conclusioni a cui arrivò l’Immigration Commission statunitense quando visitò i paesi di partenza. Era infatti comune negli USA l’idea per cui l’immigrato medio rappresentasse l’espressione più bassa del suo ceto sociale e che, probabilmente, chi rimaneva in patria fosse “migliore” di chi partisse. La commissione, in viaggio per l’Europa, arrivò alla seguente conclusione “L’afflusso attuale non proviene affatto dagli strati economicamente più deboli della popolazione… né l’emigrante tipico o medio di oggi rappresenta il gradino più basso della classe sociale ed economica da cui proviene. L’emigrazione richiede ancora un elevato grado di coraggio e intraprendenza che gli smidollati di qualsiasi classe non possiedono. L’emigrante attuale rappresenta l’elemento migliore e più forte della sua categoria sociale”.

Fonte: Pandora 

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