La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 12 gennaio 2017

Le disuguaglianze tra Nord e Sud frutto dell'imperialismo. Intervista a Amartya Sen

Intervista a Amartya Sen 
Il Sud visto con gli occhi del premio Nobel Amartya Sen, che da sempre studia e combatte le diseguaglianze. La visione di Sen è scritta in una lunga intervista raccolta nel libro "Con il Sud, visioni e storie di un'Italia che può cambiare"(edito da Mondadori), curato dalla Fondazione con il Sud presieduta da Carlo Borgomeo. I diritti d’autore sulle vendite saranno interamente devoluti dalla Fondazione a Liberos, che ha dato vita in Sardegna a un progetto innovativo fondato sulla promozione della lettura come fonte di coesione sociale, portandola in centinaia di piccole comunità isolate.
Insieme al Nobel molti altre sono le interviste presenti nel libro. Edgar Morin, Raffaele Cantone, Franco Roberti, Rosy Bindi, Luigi CIotti, Mimmo Calopresti, Chiara Saraceno e molti altri. L'Espresso pubblica un estratto del dialogo con Amartya Sen.
Negli ultimi anni la pretesa di rappresentare il mondo come diviso in un Nord e un Sud – dove con Nord si intendeva in genere progresso socio-economico, con Sud l’arretratezza e la lotta al suo superamento – è apparsa via via inadeguata a rappresentare la complessità del presente. Come è cambiato questo paradigma? 
"Sarebbe un errore pensare che questa distinzione risalga a un passato remoto. A ben guardare la Storia, anzi, spesso è stato proprio il Sud ad avere forme di sviluppo superiori rispetto a quelle del Nord. Dopotutto la civiltà minoica proveniva dalla Grecia, dal Sud. La cultura greca ebbe importanti influenze sulla storia italiana e poi su quella europea, proprio attraverso il Sud. Al contrario, quelle rivolte così temute dai romani e che finirono per minarne l’impero, provenivano dal Nord. Dunque l’idea di un Sud arretrato da contrapporre a un Nord più avanzato è molto recente e, fino a un paio di secoli fa, non aveva alcun senso. Questo concetto è semmai un risultato dell’imperialismo, che si mosse dall’Europa al mondo intero.
Nel caso della Francia si diresse a sud, ma nel caso del Regno Unito, invece, fu rivolto a est. Proprio per questo motivo, nel contesto dell’impero britannico, la contrapposizione è tra Occidente evoluto e oriente antiquato, mentre in Francia le distinzioni tra progresso e arretratezza vengono più spesso applicate a una dicotomia Nord-Sud. In realtà delle concezioni così superficiali non potevano reggere a lungo, soprattutto di fronte ai fenomeni di sviluppo di cui sono protagoniste l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Insomma questo presunto grande gap, mi sembra ormai davvero un’idea difficile da sostenere. Eppure in Italia ancora oggi si discute – talvolta molto animatamente – di Nord e di Sud, con implicazioni che spaziano dai riflessi sull’attualità di grandi passaggi storici alle misure economiche da adottare fino a presunte distinzioni di carattere antropologico e culturale. Certo, nel corso della storia italiana c’è stata e c’è questa divisione tra Nord e Sud: ancora una volta non la definirei tradizionale, se pensiamo – solo per fare un esempio – alla storia intellettuale di Napoli. Si tratta di una divisione che persiste.
Era forte quando ero giovane, è forte oggi che sono anziano. Ho iniziato a interessarmi a questi argomenti verso la fine degli anni cinquanta, grazie al lavoro condotto con il mio primo studente di ricerca, che fu Luigi Spaventa. Dalla nostra collaborazione appresi una serie di questioni che continuano a essere attuali, sullo sviluppo del capitalismo in Italia e sull’industrializzazione del Paese. Penso che ci sia stato un tempo in cui il Nord poteva apparire più sviluppato, e mi rendo conto che si tratta di un problema ancora oggi aperto in Italia, ma in futuro le cose potrebbero cambiare. So che la vostra fondazione si chiama CON IL SUD, ma è possibile che tra un secolo tutto anche in Italia sarà molto diverso e magari la fondazione dovrà cambiare nome e diventare una fondazione CON IL NORD."
Interrogandoci sul futuro del Sud dell’Italia – la sua bellezza, i suoi problemi storicamente sedimentati – ci troviamo necessariamente a ridefinire il concetto di benessere e di qualità della vita. Vuole aiutarci a declinare questi termini in modo che tengano conto di questa complessità? 
"Se l’obiettivo che vogliamo porci è di vivere bene, allora bisogna rifarsi a quello che uno studioso “meridionale”, Aristotele, affermò nella sua Etica nicomachea: ciò che stiamo cercando, nella vita, non è la ricchezza materiale, o meglio la cerchiamo solamente come strumento per ottenere le cose davvero importanti, quelle che possano consentirci una buona qualità della nostra esistenza. Ecco, si tratta di un pensiero che proviene dal Sud, ma voglio sottolineare che ragionamenti di questo tipo si sono riproposti molte volte nella Storia. Nessuno tra gli antichi filosofi pensava che il senso della vita possa ridursi alla ricchezza, che si possa essere appagati senza essere felici, produttivi, creativi, culturalmente stimolati e messi in condizione di dedicarci ad attività che valutiamo come utili o importanti.
Quindi ritengo che questa idea per cui la ricchezza e il profitto sono la misura del successo nella vita sia profondamente sbagliata. Certo, come ci insegna Aristotele, la ricchezza è uno strumento per ottenere molte cose – non tutte, per la verità, ma molte cose. Per questo è molto importante che le persone abbiano la concreta possibilità di ottenere un reddito: questo significa opportunità occupazionali, significa salari adeguati, ma significa anche poter contare su un’assistenza sanitaria degna, su un valido sistema scolastico a cui magari possa provvedere lo Stato.
Di questo abbiamo bisogno. Così come ci serve la protezione dell’ambiente e non fiumi inquinati. Per vivere bene abbiamo bisogno anche di un contesto sociale in cui il crimine non sia dilagante e in cui le persone si possano sentire al sicuro, in cui possano fidarsi le une delle altre e comunicare tra di loro senza la paura che possa accadere qualcosa di terribile. Dunque abbiamo bisogno di molte cose nella vita, non di una cosa sola. Spesso la chiamiamo libertà, ma anche la libertà è un concetto che si articola in una vasta serie di aspetti diversi. Per raggiungere alcuni di questi, essere o non essere ricchi può fare la differenza, e per questo aumentare la ricchezza a Sud sarebbe molto importante. Ma non è l’unico parametro. Molto dipende anche da come è organizzata la società, da come lo Stato funziona e da come la stessa cultura può rendere la vita umana più soddisfacente."
Cosa ne pensa della proposta di abbassare i livelli salariali nelle cosiddette “aree depresse”, sul presupposto che il costo della vita è inferiore e con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di nuove imprese? 
"Ci sono alcuni casi in cui la richiesta di salari troppo alti può scoraggiare l’occupazione, ma questa conseguenza è spesso troppo enfatizzata. All’opposto, ad esempio, c’è anche il pericolo che, riducendo i salari, la produttività della manodopera si abbassi. Non è molto chiaro, poi, quanta diminuzione dei livelli occupazionali si determini a fronte di salari più alti.
Quindi non credo di poterfornire una regola generale su questo. In alcuni contesti può avere un qualche senso, certo, ma in quelle situazioni in cui gli operai sono sfruttati e non hanno il potere contrattuale su cui possono contare impiegati, industriali e capitalisti, bene, in questi casi si potrebbe invece provare a reintegrare i salari, allo scopo di incrementare il potere d’acquisto. Penso all’esperienza di Bangladesh, Vietnam, Cambogia o anche alla Cina. Fino a poco tempo fa questi Paesi sono riusciti a raggiungere alti livelli di produzione nel tessile e in altri settori, tenendo bassi i salari, ma – ad esempio in Cina – anche in ragione di questi successi hanno dovuto aumentarli e questo non ha certo determinato l’impossibilità dello sviluppo."

Fonte: L'Espresso 

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