La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 7 dicembre 2017

Dimenticare lo Stato-nazione

di Emanuele Riccomi
Dall’11 al 30 settembre, presso Cittadellarte-Fondazione Pistoletto di Biella, si è tenuto il modulo Trauma & Revival: Contemporary Encounters, curato da Aria Spinelli e promosso da UNIDEE (Università delle Idee). Evento inserito all’interno di Trauma & Revival. Cultural relations between Eastern and Western Europe, co-finanziato dal programma Creative Europe dell’Unione Europea. In occasione di questo modulo, l’istituzione piemontese ha ospitato dieci partecipanti internazionali fra artisti, curatori e ricercatori per una residenza di tre settimane alla fine delle quali, hanno presentato dei progetti di ricerca ispirati all’esperienza appena vissuta. I giovani selezionati sono stati invitati a riflettere sulle relazioni artistiche e culturali sviluppatesi tra l’Europa e la Russia dal 1945 al 1968, indagando le affinità e le divergenze fra i due contesti e, in particolare, a chiedersi se l’arte sia in grado o meno di innescare cambiamenti e conflitti sociali.
La chiave di lettura attraverso cui lavorare partiva dal concetto di performatività teorizzato da Judith Butler, applicando la teoria della Performative Assembly sviluppata in occasione del movimento di Occupy e secondo il quale la presenza del corpo nello spazio pubblico, è in grado di cambiare e spostare la politica dal livello micro a quello macro. Focalizzandosi sul ruolo performativo dell’arte, prima ancora che su quello politico e sociale, Aria Spinelli ha posto un quesito che ha accompagnato tutta la residenza: in che modo l’arte attiva dei processi al di là del ruolo che ricopre? Per ampliare lo spazio della riflessione, la curatrice ha invitato tre coppie di studiosi, artisti e curatori russi ed europei di generazioni diverse che hanno illustrato alcune esperienze particolarmente significative legate ai temi trattati.
Nella prima settimana sono intervenuti Alexei Penzin (filosofo e artista russo, membro del collettivo Chto Delat?) e la giornalista russa Anna Zafesova. Il primo ha parlato del Cosmismo russo e della controcultura sovietica, in particolare delle teorie del critico e filosofo Mikhail Lifshitz che mettevano in crisi l’apertura verso l’Occidente a partire dalla critica al concetto di avanguardia, ritenendolo un elemento che, basandosi su idee quali la figurazione come inganno, l’esaltazione dell’irrazionalità e della mitologia della modernità, aveva inconsapevolmente contribuito all’ascesa dei fascismi. Zafesova ha messo in relazione l’identità sovietica e quella statunitense, mostrando come il paese socialista fosse in realtà culturalmente aperto nei confronti dell’Occidente e ipotizzava la possibilità di uno scambio che non si è mai realizzato.
La seconda settimana ha visto invece gli interventi di due curatori, il russo Viktor Misiano e lo spagnolo Jesus Carrillo. Nonostante le differenze, entrambi hanno problematizzato il rapporto conflittuale che si instaura fra l’arte e il passato nei momenti successivi alle transizioni da un sistema governativo a un altro. Misiano, a partire dalla mostra Interpol da lui curata nel 1996, si è soffermato sulle diversità che caratterizzavano le pratiche artistiche russe da quelle europee, ponendo l’accento sulle reciproche incomprensibilità date dalle profonde differenze culturali da cui esse erano nate e con cui intendevano confrontarsi. Un altro aspetto importante emerso dal suo intervento è stato il sentimento di delusione che gli artisti russi hanno provato nel constatare che il sistema dell’arte occidentale non era così aperto e libero come avevano immaginato, riscontrando anche nelle democrazie occidentali, la presenza di gerarchie che condizionavano fortemente l’espressione artistica. Carrillo ha invece presentato Desacuerdos, un progetto di mostre, incontri e pubblicazioni a cui ha lavorato dal 2004 al 2015 e che verteva sugli intensi rapporti tra arte e attivismo nel periodo di passaggio dal franchismo alla democrazia in Spagna, focalizzandosi sull’influenza esercitata dalla memoria storica sulla politica presente.
Gli interventi che hanno animato l’ultima settimana hanno visto come protagonisti il curatore, ricercatore e professore polacco Kuba Szreder e la curatrice greca Iliana Fokianaki, entrambi più giovani degli ospiti che li hanno preceduti. I temi affrontati in questa occasione volevano indagare i processi in corso all’interno dell’UE a partire dall’analisi del sistema dell’arte. Szreder ha paragonato il sistema dell’arte mainstream con il sistema economico neoliberale, trovando il punto di contatto fra i due nella capacità di cancellare o assimilare qualunque possibile alternativa che venga proposta. Il curatore polacco ha individuato due casi studio con cui illustrare le sue considerazioni: il primo era legato all’arte concettuale statunitense che, nonostante avesse lavorato per smaterializzare l’opera, non era riuscita a sfuggire alla possibilità di essere commercializzata, rientrando dunque all’interno di un sistema di mercato. Il secondo era basato sul destino delle pratiche artistiche d’avanguardia sviluppatesi nei paesi del Patto di Varsavia. Non essendo inserite all’interno di un sistema capitalista, queste ricerche non prendevano in considerazione l’eventualità di creare opere che potessero essere vendute. Caduto il socialismo e abbracciata l’economia di mercato, questi lavori hanno immediatamente assunto un valore economico. Dato il crescente interesse che si sta sviluppando intorno all’arte dell’Europa orientale, il loro prezzo continua a crescere. Fokianaki ha invece affrontato il tema della cittadinanza e della precarietà a partire dalla condizione della Grecia e dal suo rapporto con l’Unione Europea, mostrando come la posizione geografica dei Paesi che ne fanno parte, influisca sulla loro rilevanza all’interno dell’organizzazione internazionale. La possibilità di far valere le proprie istanze a Bruxelles, tende a diminuire via via che ci si allontana dal centro, rendendo la precarietà e la perifericità due fenomeni collegati che si influenzano a vicenda. La curatrice ha evidenziato come il rapporto fra Grecia e UE sia ambiguo e conflittuale. Se da una parte, infatti, l’Unione considera se stessa uno sviluppo della democrazia ateniese, dall’altra sembra considerare il Paese mediterraneo un ostacolo alla realizzazione delle politiche economiche decise nel parlamento europeo.
L’ultimo giorno della residenza si è tenuto l’open studio in cui i residenti hanno presentato e raccontato i progetti di ricerca preparati nelle tre settimane precedenti. Si tratta di lavori piuttosto eterogenei chiaramente ispirati al tema della residenza e influenzati dai temi e dagli approcci illustrati dagli ospiti. In alcuni lavori è emersa la problematicità che la storia e la memoria, nel loro farsi e trasmettersi, assumono in relazione al presente. Olga Lukyanova (Russia, 1988), a partire dal concetto di trauma, ha realizzato un cubo di terra bagnata che è stato prima congelato e poi lasciato sciogliere al fine di osservare il suo sgretolamento. Ispirandosi alla scoperta di un cratere tornato alla luce a causa del surriscaldamento globale, l’artista russa ha creato un parallelo tra la superficie della crosta terrestre e la memoria collettiva, concentrandosi sui processi che, al venir meno delle dinamiche che li nascondevano, portano i traumi rimossi in superficie. Il riferimento è al trauma della Seconda Guerra Mondiale che il governo sovietico seppellì sotto la propaganda che glorificava i soldati caduti per la patria e per il socialismo e che ora, nonostante il forte nazionalismo russo, sta iniziando a riemergere. E proprio dal nazionalismo sono partiti Krzysztof Gutfranski (Polonia, 1982) e Vitalij Strigunkov (Lituania, 1990), realizzando un progetto teso a mettere in discussione l’idea di nazione. I due artisti si sono chiesti quali fossero i passaggi da fare per costruire uno Stato. L’analisi, così minuziosa, dettagliata e documentata metteva in questione il concetto stesso di nazione, portando lo spettatore a chiedersi se esso esista davvero o se non dovremmo invece approcciarlo al pari di una qualsiasi altra costruzione culturale ormai desueta.
Alcuni residenti hanno invece deciso mettere in relazione passato e presente a partire da episodi specifici apparentemente poco rilevanti che, analizzati in profondità, assumono un’importanza tutt’altro che marginale. Così, la fiera di apparecchiature radio statunitensi tenutasi a Mosca nel 1964, diventa, per Matt Rosen (Regno Unito, 1993), uno spunto per realizzare un documentario sul rapporto di reciproche influenze fra la politica e la cultura pop. Zeljka Blaksic (Croazia, 1982) progetta un’installazione in cui espone diversi numeri di Start (una rivista jugoslava d’avanguardia) per raccontare il cambiamento della percezione della donna nella società jugoslava, passando dalla celebrazione del suo contributo come combattente antifascista nella lotta partigiana a un corpo nudo, oggetto sessuale per lo sguardo del lettore. La ricercatrice Suzannah Henty (Australia, 1992) si concentra invece sul rapporto tra Israele e Palestina, in particolare sul processo di colonizzazione avviato dal giovane Stato verso i territori circostanti.
Altri artisti hanno elaborato i propri progetti a partire dalla proposta di una riflessione sul destino di quegli edifici che fungono da paradigma di un determinato periodo. Leonardo Mastromauro (Italia, 1988), ha mostrato due diversi modi di riconvertire le basi militare, proiettando sulla stessa parete un video ambientato in Puglia e uno in Lituania. Il primo mostra un’ex base statunitense trasformata in una sorta di capannone/rimessa di mezzi agricoli da parte dei contadini locali; il secondo è invece il video promozionale del museo sulla Guerra Fredda in cui è stata trasformata la base baltica. Eduardo Cassina (Spagna, 1986) ha presentato un progetto che prende spunto da una città industriale in Ucraina che ha visto chiudere quasi tutte le fabbriche su cui si basava la sua economia. Gli ultimi due progetti, affrontano il tema delle reciproche influenze tra Est e Ovest: Viktorija Eksta (Lettonia, 1987) ha proposto un intervento in cui, indossando abiti e assumendo atteggiamenti conformi allo stereotipo attraverso cui l’uomo europeo occidentale vede la donna europea orientale, invitava il pubblico a sfogliare tre album di fotografie che ritraevano uomini lituani, campagne lituane e autoritratti dell’artista. Il suo progetto voleva dunque indagare il tema dell’identità maschile e femminile nel periodo post-sovietico e la percezione che se ha nell’Europa occidentale. Kosmas Nikolau (Grecia, 1984) ha trattato il tema dello stile e della moda, soffermandosi sui suoi risvolti politici. A partire dall’American National Exhibition, una fiera sullo stile americano tenutasi a Mosca nel 1959, l’artista ricrea lo stand di una fiera immaginaria in cui espone abiti, mobili e oggetti di uso quotidiano per riflettere sul fatto che ciascuno di essi sia frutto di un particolare contesto politico e che ne veicoli il messaggio.
Ciascuno dei progetti presentati ha avuto il merito di non chiudere le questioni che si proponeva di affrontare ma di aprire un ulteriore spazio di riflessione al loro interno. Tutti i lavori sembrano concordare non solo sulla necessità di superare il sistema binario e conflittuale con cui siamo stati educati a intendere il rapporto Europa-Unione Sovietica prima e Europa-Russia poi, ma soprattutto ad abbandonare l’idea di Nazione per come è stata intesa fino ad oggi, specialmente perché sono venute meno le condizioni che ne motivavano l’esistenza. Infine, tutti gli ospiti vivono una condizione di precarietà che nasce in ambito lavorativo e si ripercuote in ogni aspetto dell’esistenza, la precarietà si manifesta dunque come un fenomeno transnazionale che il nazionalismo e la chiusura delle frontiere hanno dimostrato di non poter arginare.

Fonte: operaviva.info 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.