La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 6 dicembre 2017

Nuove prospettive per il reddito di base tra intelligenza artificiale e robotica

di Luca Santini
Ovunque si volga lo sguardo si colgono i segni di un’epoca triste: la crisi economica globale che si protrae da oltre un decennio e che non accenna a placarsi, le politiche di austerity che contribuiscono all’aumento della disoccupazione, della povertà, del rischio di esclusione sociale, il dramma delle migrazioni e l’incapacità conclamata di governare il fenomeno, il peso del climate change che sta avvenendo proprio ora davanti ai nostri occhi. In questo scenario così fosco l’emergere a livello planetario del dibattito sulla robotica e sul reddito di base è un elemento di freschezza, di apertura al possibile.
Si fa largo infatti, nonostante tutto, la sensazione che il futuro si stia avvicinando. Siamo di fronte a una seconda rivoluzione industriale, in cui l’economia risulta trasformata dalle nuove tecnologie, dalla sharing economy e dall’avvento dell’automazione spinta e dell’intelligenza artificiale. Il XXI secolo sembra portarci nuovi scenari e nuove domande e il reddito di base incondizionato sembra emergere come una proposta sempre più convincente.
Nel nostro Paese ci si approccia purtroppo a questi temi con una certa inconsolabile cupezza. Gli effetti di disgregazione delle nuove tecnologie sui posti di lavoro e sulle garanzie acquisite sono sempre posti in primo piano. Sia prova di questo diffuso atteggiamento il fatto che laddove un autore anglosassone come Martin Ford intitola il suo ultimo fortunato bestseller Rise of the Robots, l’editore italiano (Il Saggiatore, 2017), evidentemente per solleticare l’inclinazione del pubblico nostrano, preferisce dare alle stampe il volume con il titolo La fine del lavoro (un titolo rispettoso, beninteso, del contenuto del libro e della tesi fondamentale sostenuta dall’autore, ma che nondimeno ribalta completamente il contenuto semantico originario). E ancora, sulla stampa si dà enorme risalto al tema, pur importante, della responsabilità a livello giuridico dei robot per eventuali danni causati a terze persone o ci si concentra sui dilemmi etici a cui è esposto il programmatore di una macchina completamente autonoma di fronte a eventi imprevedibili a fronte dei quali non è possibile evitare lesioni a degli esseri umani. Molto più di rado, invece, ci si interroga sulle possibilità di innovazione che la nuova situazione obiettivamente propone. 
Non sono, ovviamente, infondate le preoccupazioni che molti avanzano sul rischio di maggiori disuguaglianze sociali, soprattutto a fronte della possibile perdita di molti posti di lavoro indotta dall’introduzione repentina di fattori di automazione anche nell’ambito dei lavori impiegatizi.
Quali siano i riflessi sul lavoro di questo fascio di trasformazioni è, invero, un tema di riflessione molto aperto, in cui si confrontano le tesi di chi è convinto che i posti di lavoro saranno falcidiati in massa, mentre altri sono più cauti o fanno addirittura previsioni opposte. Sono sulla posizione della “distruzione e basta” di posti di lavoro (senza dunque che il tradizionale meccanismo correttivo capitalistico della “distruzione creatrice” riesca a controbilanciare a sufficienza la tendenza), tra gli altri, Bjornisson e McAfee, Riccardo Staglianò qui da noi, il già citato Martin Ford, il fondatore del World Economic Forum di Davos Klaus Schwab, il McKinsey Institute. Secondo queste letture sarebbero lavori in via di superamento non solo quelli manuali, quelli nel settore della logistica, quelli nei fast food, ma sempre più anche i lavori rivolti al pubblico (addetti al commercio, camerieri, servizi domestici) man mano che le capacità di percezione, di movimento flessibile e di interazione con gli umani da parte dei robot cresceranno. Dal punto di vista dei colletti bianchi le previsioni paiono essere molto fosche: i report di ricerca su dati complessi, la scrittura di articoli compilativi, la gestione di contenziosi legali semi-standardizzati come le procedure fallimentari sono tutti compiti intellettuali che potrebbero essere completamente automatizzati nel breve termine. Anche nel campo delle diagnosi mediche siamo già ad un punto, almeno in alcune esperienze pilota, in cui gli uomini imparano dalle macchine.
Si contrappone a questa visione la posizione dei continuisti, i quali smorzano l’enfasi sul contenuto innovativo delle nuove tecnologie e mettono l’accento sulla capacità del sistema di generare dei processi di “distruzione creatrice”; alcune mansioni saranno distrutte, ma altrettante saranno create ex novo. Altro aspetto del problema che viene spesso messo in evidenza è che l’aumento di produttività ingenerato dalle nuove tecnologie abbasserebbe i prezzi, dunque si assisterebbe a un aumento della domanda e, di conseguenza, si innalzerebbero anche le necessità produttive e, in ultima istanza, il numero di posti di lavoro. 
Ma nelle posizioni dei continuisti ci si basa soprattutto sull’esperienza fornita dal passato, si osserva quanto avvenne in occasione della prima rivoluzione industriale, in cui l’80% della popolazione venne rapidamente sottratta all’agricoltura e ciò nonostante quella enorme popolazione ha con il tempo trovato nuove occupazioni nell’industria e nel comparto dei servizi (il settore primario, nel suo complesso, impiega oggi appena il 3,5% della popolazione attiva sebbene la disponibilità di alimenti sia, nel frattempo, vertiginosamente aumentata). 
Ma la fiducia in ciò che è avvenuto nel passato, nel corso della prima rivoluzione industriale, non appare come un’assicurazione sufficientemente solida rispetto a quanto si prepara nell’immediato futuro. E ciò per tre ordini di considerazioni:
detto molto semplicemente, nulla impedisce di pensare che il passato possa non ripetersi: immaginando la creazione di un androide che sia un perfetto sostituto dell’uomo, in tutte le sue capacità formali e informali, non avremmo problemi a riconoscere la superfluità dell’impiego umano nel processo produttivo. Questo semplice esercizio mentale è sufficiente a dimostrare che la fiducia nella ripetizione del passato e nell’indispensabilità dell’uomo per la produzione non ha un fondamento assoluto;
la tendenza all’aumento della produttività del lavoro associata alla diminuzione degli impieghi disponibili è già in opera almeno dall’anno 1980; da quel momento, infatti, il livello delle retribuzioni è rimasto stagnante in tutto l’Occidente e la quota del Pil destinato al lavoro ha avuto una tendenza calante in tutto il mondo, e recentemente perfino in Cina secondo uno studio dello statunitense National Bureau of Economic Research; 
infine, appare davvero fuori luogo l’enfatizzazione in termini positivi del lungo e travagliato processo che ha portato allo sradicamento delle masse dal contesto agricolo per immetterle a forza in quello urbano e della nascente industria. L’epoca vittoriana non è stata certo un idillio per gli strati popolari, basta rileggersi l’Engels de La situazione della classe operaia in Inghilterra o il Dickens del David Copperfield per avere una fotografia abbastanza esaustiva della condizione di miseria in seno al popolo nel mondo “sviluppato” di metà Ottocento. Solo nel lungo periodo si è avuta una stabilizzazione sociale, al prezzo però di lotte, rivoluzioni, guerre mondiali e infine con l’intervento politico tramite la mediazione welfaristica.
È perciò evidente che oggi, così come in passato, non si può fare affidamento su una presunta capacità del capitalismo di automatico riallineamento dei fondamentali economici. Ora come in passato il capitalismo lasciato a se stesso, privo di una regolazione politica, è una forza prepotentemente distruttiva. La tendenza in atto senza correttivi politici è abbastanza chiara: declino delle relazioni sociali, regressione degli strati popolari, disoccupazione endemica e stabilizzazione della esclusione sociale estrema di vasti settori della popolazione, istituzione di gathered zones fisiche e sociali, avvento di disuguaglianze estreme.
In effetti, esiste una preoccupazione molto diffusa e trasversale per l’approssimarsi di simili scenari. E il rimedio che sempre più sembra imporsi come orizzonte ineludibile della trasformazione in corso sembra essere quello del reddito di base. 
Non è un caso se proprio oggi questa proposta sembra ricevere sempre più riscontri, anche con l’avvio di sperimentazioni e campagne come, ad esempio, quella in corso dal 2012 in alcuni villaggi rurali dell’India, promossa dall’UNICEF e dal SEWA (il sindacato delle donne indiane) che prevede di destinare a tutti i residenti una somma di denaro senza alcuna contropartita. Lo stesso avviene in Africa, in Namibia e in Kenya. Più vicino a noi non va dimenticato che in Spagna un forte movimento di opinione ha dato vita ad una campagna di raccolta firme (oltre 185mila) per una proposta di legge di iniziativa popolare per un reddito di base. Si dibatte di diritto al reddito in Scozia, si avviano progetti pilota in Olanda e in Francia, nella regione dell’Aquitania. Da non dimenticare il referendum svizzero, che ha avuto il merito storico di segnalare l’avvio di un dibattito che certamente proseguirà. E infine troviamo la situazione forse più avanzata in Finlandia, in cui la realizzazione di un reddito incondizionato è stata esplicitamente messa in agenda a seguito di una vasta e aperta consultazione della società civile e degli esperti sul tema.
lAla luce di queste importanti esperienze possiamo dirci certi che gli equilibri sociali del prossimo futuro dipenderanno, ora come sempre, dai rapporti di forza e dalla capacità di manovra politica che i corpi sociali sapranno esprimere.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 31 di Novembre-Dicembre 2017: "Lavoro e non lavoro

Fonte: attac 

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