La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 6 dicembre 2017

Proprietà o profitto?

di Pino Cosentino
Tutto il movimento intellettuale e sociale che nell'Ottocento europeo si sviluppa contestando il capitalismo e trovando una sua prima sistemazione nel Manifesto del Partito Comunista individua il nemico nella proprietà. E' rimasta proverbiale la frase d Proudhon “la proprietà è un furto” (“la propriété, c'est le vol”). Nel Manifesto Marx accoglie in pieno questa tesi. I proletari “non hanno da perdere che le loro catene”, ergo la proprietà è un solco profondo, che separa nettamente il campo della classe oppressa e sfruttata da quello degli oppressori. Da qui l'obiettivo strategico assegnato alla rivoluzione che libererà il proletariato, e con esso tutta l'umanità: l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Marx ed Engels hanno spesso usato l'espressione “espropriare gli espropriatori”. Infatti all'origine del capitalismo si colloca necessariamente l'esproprio di contadini e artigiani per costringerli al lavoro salariato e ridurli alla condizione di proletari. Nel Capitale Marx sottolinea l'importanza, per la nascita in Inghilterra del moderno capitalismo industriale, delle enclosures, ossia della recinzione di terre comuni dei villaggi ad opera dei signori, una specie di land grabbing protrattosi dal XV al XVIII secolo, quando ormai l'orgogliosa classe degli yeomen (piccoli proprietari terrieri) era scomparsa, insieme con l'agricoltura poderale di sussistenza. I signori convertivano le terre in pascoli per allevare pecore da lana (Tommaso Moro: “le pecore si mangiano gli uomini”), le famiglie contadine sbarcavano il lunario lavorando a domicilio per i fabbricanti-mercanti, che fornivano lana grezza da filare e tessere all'aspo e con telai di legno a pedale.
L'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbe quindi stata una “restituzione”, togliere ai capitalisti quello che avevano rubato.
La presa del potere con il colpo del 7 novembre 1917 da parte dei bolscevichi, un partito minoritario all'interno del grande movimento rivoluzionario che aveva rovesciato il plurisecolare regime degli zar qualche mese prima, avrebbe condotto l'immenso impero russo a costruire un sistema economico basato sulla proprietà statale o collettiva, e sulla pianificazione centralizzata al posto del mercato.
Il proletariato non riebbe quello che gli era stato tolto. La proprietà delle terre, delle fabbriche, e perfino delle abitazioni, passò allo Stato, o a collettivi controllati dall'unico potere esistente nella nuova Russia, che dal 1922 era diventata Unione Sovietica: il partito comunista, erede degli “espropriatori” capitalisti. L'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione fu per tutto il XX secolo il carattere distintivo dei comunisti rispetto a qualunque altro movimento politico.Ma i mezzi di produzione non erano tornati ai loro antichi proprietari. Una nuova classe se ne era impadronita: la nomenclatura sovietica, il partito comunista. L'economia di partito si è dimostrata meno efficiente di quella manageriale.
E ora? Non si sa. Un'afasia totale sui temi strategici ha colpito tutto il variegato e altrimenti loquacissimo campo degli oppositori del capitalismo. I quali si esercitano a compilare elenchi di punti programmatici, programmi elettorali, appunto, ma è impossibile strappar loro una parola sugli obiettivi strategici. “Sii tu il cambiamento che vorresti vedere nel mondo” (Gandhi). Ma quale cambiamento “vorresti vedere nel mondo”? Una somma di comportamenti individuali non fa una strategia. E neppure un elenco di punti programmatici, a meno che essi non siano inseriti in una gerarchia di obiettivi che conduca a un risultato strategico.
A mio avviso l'esperienza storica dimostra ampiamente che non è la proprietà privata il tratto distintivo del capitalismo, ma la trasformazione del denaro in capitale, ossia il meccanismo dell'accumulazione alimentato dai profitti. Il capitalismo si è liberato dal feticcio della proprietà con la società anonime (per azioni) da oltre un secolo, prendendone coscienza con l'opera di Berle e Means “The modern corporation and private property”, pubblicato nel 1932, non proprio ieri.
E' giunto il momento di riconoscere che il privato non è il nemico. Il nemico è il profitto.
Capitalisti e Stato sono due facce della stessa medaglia. Entrambi sono figli di un potere che si presenta sotto due vesti: il controllo della liquidità (di cui la proprietà è un caso particolare), il potere autoritativo dello Stato.
Bisogna che la finanza sia una funzione pubblica, togliere ai privati il permesso di prestare denaro. Il denaro è un mezzo di scambio e di conto, non può diventare capitale. L'interesse va semplicemente abolito. Il profitto inteso come ricompensa dell'imprenditore in un mercato concorrenziale tende a zero. Lo scopo delle unità produttive resta dunque quello di creare valori d'uso e di fornire un reddito a chi ci lavora. Ma la proprietà non deve essere dello Stato. Deve essere dei lavoratori, mentre il potere a monte sarà esercitato dall'intera popolazione del territorio di riferimento, tramite la democrazia partecipativa.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 31 di Novembre-Dicembre 2017: "Lavoro e non lavoro
Fonte: attac

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