La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 7 dicembre 2017

Popolo, politica, democrazia. Sul Cleofonte di Luciano Canfora

di Federico Diamanti
Gli interessi di Luciano Canfora nei confronti del teatro antico, e nella fattispecie della commedia attica (aristofanea in particolare, con notevoli sguardi nei confronti anche della tradizione frammentaria), si intersecano con gli itinerari di studio condotti dall’autore nel campo della storia antica. Tracciare un bilancio di mezzo secolo di studi sarebbe un’impresa ponderosa e, forse, non del tutto utile per questo lavoro. Cleofonte deve morire, volume di cui si propone qui una recensione, mette a sistema – con l’attenzione al dato storico e testuale a cui Canfora ci ha abituati – il mondo di Atene, la commedia antica e la controversa storia dell’ultima fase della Guerra del Peloponneso. Indagandone gli intrecci, alcuni personaggi chiave, la produzione letteraria (o teatrale) coeva: in sintesi, la temperie politica e culturale di Atene. E dimostrando, infine, quanto mondo della politica e mondo del teatro, politica estera e politica interna siano, in quella fase, inscindibilmente legati.
Non occorre consultare gli indices nominum al termine di ogni opera per accorgersi di un fatto non sottovalutabile: il nome di Aristofane, laddove si parli di V secolo ateniese, emerge e continua ad emergere con frequenza impressionante. Come fonte secondaria appena dopo gli storiografi, certamente, ma anche e soprattutto come attore politico di quel travagliato periodo[1]. Proprio da questo incontrovertibile dato prende avvio la riflessione di Luciano Canfora nella sua ultima opera: “Con tutte le cautele del caso, questo ci consente di affermare che in lui [Aristofane] vi fu molto più che un semplice artigiano del divertimento”[2]. Una volta presa coscienza della “potente attrazione” che la politica esercita sulla produzione comica (e, in generale, teatrale di V secolo[3]), occorre dunque individuare – di concerto con gli innumerevoli riferimenti al dibattito pubblico che si nascondono, con maggiore o minore difficoltà di individuazione, tra le pieghe dei versi comici e tragici – una linea di pensiero di fondo; se non una strategia politica, certamente una abitudine alla presa di posizione orientata di contingenza in contingenza da un orizzonte politico ben definito.
La prima delle sei parti in cui si divide il volume è dedicata ad un approfondimento sulla polarità esistente tra “popolo e demo” in seno al sistema politico ateniese del V secolo. La domanda di fondo è: quale “popolo” – se possiamo accettare questa traduzione linguistica e concettuale – rappresentava, perlopiù, Aristofane con la sua commedia? Tramite una attenta disamina di alcuni documenti coevi (nella fattispecie, al di là di Aristofane, passi di Tucidide, del pamphlet Sul sistema politico ateniese e riflessioni di matrice erodotea) e un altrettanto puntuale continuo riferimento a studiosi d’epoca moderna o contemporanea (Auguste Couat e il suo Aristophane et l’ancienne comédie attique, 1892, la dissertazione di Wattenbach sui “quattrocento” in Atene, del 1842, nonché gli studi su democrazia e lotta di classe di Arthur Rosenberg – dei primi del Novecento) la polarità viene definendosi nei suoi confini più chiari: la democrazia “classica” contiene, in sé, al di là della sua riconosciuta “rigorosa logica interna”[4], una profonda incongruenza. “’Demo’, infatti – che è parola polisemica –, non è soltanto la parte politicizzata dei non possidenti, base sociale del ‘potere democratico’ e dei suoi capi, non indica soltanto quegli assidui ‘scarsi cinquemila[5]’ frequentatori dell’assemblea […] è al tempo stesso l’intero corpo civico […]. Ed è l’indizio chiaro dell’equivoco nel sistema politico ‘assembleare’ il fatto che, nelle delibere (decreti), quegli ‘scarsi cinquemila’ figurano l’intera comunità”[6].
Soltanto grazie ad una comprensione precisa della polisemia della parola demo (parola che, comunque la si traduca, comporta insidie concettuali notevoli) si può comprendere la scelta politica aristofanea nello schierarsi (financo ridendone, p. 24) con quella massa “extra-politica e a-politica delle campagne” (diversa dunque dal demo cittadino, il blocco storico che subirà maggiormente la guerra del Peloponneso e le scorribande spartane in Attica) che non disprezza una forma di gestione del potere oligarchica (in questo senso la riflessione sui kalokagathoi, il vero pubblico aristofaneo, p. 25) e che è spinta a “parlare” dalle sue sempre più irreversibili difficoltà. Diverso da demo è dunque il popolo della campagna fuori dalle mura di Atene. Canfora si spinge oltre la riflessione sulla polisemia del termine demo. Dietro alle differenze economiche, sociali e politiche dei molteplici popoli di Atene si profila uno scontro a livello di classe dirigenti: a indirizzare la politica del demo (dunque, le decisioni assembleari) ritroviamo le élite urbane che monopolizzano la discussione assembleare e la prassi giudiziaria in Atene; contro demo si schiera un’aristocrazia intellettuale al cui servizio ritroviamo, tra gli altri, i più importanti autori della commedia ateniese. La riflessione sul popolo (o meglio, sui popoli) di Atene non è immune da riferimenti alle elaborazioni politiche moderne: interessante, a chiosa del capitolo, la “divagazione diacronica”[7] circa l’eterno problema del potere democratico fondato su una minoranza numerica. Da Aristofane all’Arbeiterklasse, la difficoltà del meccanismo di conquista della maggioranza da parte di una minoranza rimane viva, il problema di “che cosa sia il popolo” comporta tuttora un ampio margine di riflessione.

Aristofane: politica e politici a teatro

Lunga e propedeutica alla comprensione del prosieguo del libro, la seconda parte (Carriera di un commediografo) è dedicata ad una premessa di inquadramento (storico e politico, prevalentemente) del teatro di Aristofane. Diversi i punti trattati da Canfora: la vis polemica dell’archaia viene paragonata, con una calzante analogia, alla “stampa agitatoria”[8] d’età moderna. Alla lotta politica è inscindibilmente connessa l’origine sociale dei commediografi: in particolare di Aristofane, cleruco (o figlio di un cleruco) insediato ad Egina. Un’origine modesta – condivisa coi colleghi Eupoli e Platone comico – che rende dunque più chiara l’attenzione dei commediografi nei confronti del misthos, il pagamento accordato agli uomini di teatro, e, in generale, la loro posizione sociale. Vale a dire “’intellettuali’ al servizio dei ‘grandi’, impegnati ad influenzare, attraverso uno strumento di enorme risonanza e pervasività quale la commedia, strati molto più vasti di quelli politicizzati e schierati a sostegno dei capi popolari”[9].
Il focus del capitolo è però nella sua ultima sezione: gli anni di svolta dell’esordiente Aristofane portano i nomi di tre commedie: 426, Babilonesi; 425, Acarnesi; 424, Cavalieri. La prima commedia gli costa un’accusa davanti alla boulè da parte di Cleone, per aver colpito il nervo scoperto della democrazia ateniese (quello che Canfora definisce “la politica imperial-democratica”, p. 64) “davanti agli alleati”, evidentemente presenti tra il pubblico alle grandi Dionisie[10]. La grande autodifesa viene traslata in teatro e assunta dal personaggio di Diceopoli, protagonista degli Acarnesi, l’anno dopo. Ma il grande passo, che consacra Aristofane sulla scena teatrale e politica di Atene, avviene nel 424: proprio nell’anno del maggiore successo di Cleone, Aristofane – saldata una convergenza d’intenti coi “cavalieri”, la classe sociale che più di altre in Atene soffriva la struttura democratica, che finanziano la commedia – si presenta per la prima volta anche come didascalo[11] e sferra il più clamoroso degli attacchi a Cleone. Demosia, per dirla alla greca, ovvero: a spese del popolo, ma anche davanti al popolo.
Di qui, Canfora si dedica ad una particolareggiata analisi di tre commedie di Aristofane. Nell’ordine Lisistrata, Tesmoforianti e Rane. Non ci è possibile, per ragioni di spazio e impostazione, dar conto di tutti i temi trattati (con la consueta perizia documentaria e lo sguardo, sempre di lunghe vedute, al contesto politico di riferimento) dallo studioso. Ci soffermeremo dunque soltanto su alcuni nodi che l’autore ha deciso di trattare nel volume, riferiti a Lisistrata e Rane.

Il caso di Lisistrata

Per quanto concerne il capitolo dedicato a Lisistrata, un discreto numero di pagine (e di argomenti) viene dedicato alla puntuale spiegazione del contesto in cui la pièce fu prodotta e messa in scena. Particolare attenzione meritano, a detta di Canfora, i mesi appena precedenti alle Dionisie del 411 (le grandi feste “teatrali” ateniesi, che quell’anno, all’altezza di Gamelione – tra gennaio e febbraio – ospitarono la commedia aristofanea). Il fatto senza dubbio più importante di quel breve periodo, ancorché forse “meno visibile”, fu la doppia venuta di Pisandro in Atene da Samo (dicembre 412, aprile 411). Il prestigioso “capo democratico”[12] – in contatto con gruppi di ateniesi che a Samo alimentavano a distanza il colpo di stato – dovette sostanzialmente, in quei mesi, preparare l’opinione pubblica ateniese (con tutti i guai che un cimento del genere poteva comportare) al cambio di regime in Atene (si legga: colpo di stato).
Nel dedicarsi ad una precisissima ricostruzione del periodo, funzionale ad una necessaria comprensione non solo del contesto, ma anche del messaggio di Lisistrata, Canfora sfodera un elemento inconsueto, che dimostra l’attenzione linguistica sottesa ad ogni ricerca storica dell’autore. Sviscerando il passo tucidideo più importante per una ricostruzione di quei mesi (VIII, 61 e segg., tra cui 63 – 66), ci si sofferma su di un aspetto linguistico: è l’utilizzo infatti di un piuccheperfetto (per la gioia di ogni insegnante di greco al liceo!) che chiarisce l’intenzione sottesa all’assunto tucidideo. “Circa in quel tempo e anche prima il regime democratico in Atene era stato abbattuto (kateleluto)”[13]: l’uso di questi specifici modo e tempo verbali denota infatti l’intenzione tucididea – nei paragrafi che seguono – di chiarire “quanto era già accaduto [prima dell’arrivo di Lisandro], cioè dell’azione svolta in gennaio-marzo (dunque ancora nel XX anno [di guerra]), ad opera delle eterie”[14]. Dunque l’azione di Pisandro non fu, in sé, risolutiva (o particolarmente invasiva, perlomeno a livello istituzionale) – quanto piuttosto preparatoria nei confronti del cambio di regime. La maggior parte del lavoro era infatti stato portato avanti dalle eterie, ovvero gruppi politici (e armati) interni ad Atene.
Il fatto, che non era sfuggito ai maggiori commentatori di Tucidide, non è secondario: se tra una venuta (dicembre 412) e l’altra (aprile 411) Pisandro trova la democrazia ateniese già smantellata per mano di consorterie antidemocratiche e deve soltanto “formalizzare” il passaggio al regime dei Quattrocento, vorrà dire che Lisistrata nasce in un contesto di “pugnali, morti abbandonati per le strade come ammonimento, assalto a mano armata”[15] al fine di piegare il demo, la fazione di sempre finalmente soggiogata. Tutto, dunque, di Lisistrata sarà in una certa misura politico: dalla parabasi con polemica sul misthos alle varie gesta dell’eroina aristofanea.

Cleofonte e le Rane

Ma è proprio nel capitolo dedicato alle Rane che emerge il nome che dà il titolo al volume: Cleofonte. Il personaggio, capo della fazione democratica ateniese in auge nell’ultima fase della guerra del Peloponneso, si trovò in particolare contrasto con la fazione oligarchica (celebri gli scontri con Crizia, il probabile autore del pamphlet sulla forma di governo democratica di Atene tràdito assieme al corpus senofonteo) e impedì ogni trattativa di pace con Sparta. Canfora, prima di trattare i rapporti tra le Rane di Aristofane e la figura di Cleofonte[16], si dedica ad una approfondita analisi del cosiddetto “decreto di Demofante”. Da quel decreto (risalente al crollo dei Cinquemila, attorno al 410) occorre infatti partire per comprendere appieno la sua “ovvia conseguenza”, ovvero i processi a quegli strateghi (e capi politici) passibili di aver “attentato alla democrazia” essendo stati coinvolti nel governo oligarchico di pochi mesi prima. L’autore dedica poi ampio spazio alla ricostruzione del pesante clima politico che l’attuazione (anche retroattiva, secondo la testimonianza di Lisia) del decreto comportò: è in questo scenario che opera Cleofonte, leader democratico, contribuendo “validamente a rimuovere dalla scena politica ateniese sia Crizia sia, a quanto pare, Alcibiade”[17].
Ma la situazione politica ateniese è in piena evoluzione. La riflessione di Canfora si sposta dunque al nodo centrale del rapporto tra Cleofonte e Aristofane, ovvero la commedia Le rane, del 405. In seno ad essa ritroviamo, infatti, due passaggi fondamentali: la parabasi, fase d’intermezzo della commedia nella quale il coro si dedica a riflessioni di carattere politico dietro cui si cela l’autore stesso, autorizzato a “dare buoni consigli e insegnamenti alla città”[18], si schiera con sapienti scelte lessicali e tematiche (su tutte: la ripresa parodica del lessico democratico e la citazione di Frinico e dei suoi inganni per spostare l’attenzione su un protagonista del 411 oramai scomparso) a favore di una vera e propria “amnistia per chi si è compromesso col governo dei Quattrocento”[19]. In secondo luogo, nei versi appena precedenti la parabasi, l’attacco frontale nei riguardi di Cleofonte: coinvolto alla fine dello stesso anno (il 405) in un processo le cui discusse (e discutibili) dinamiche sono chiarite da Canfora nel paragrafo “Il complotto contro Cleofonte”, il leaderdemocratico viene brutalmente attaccato anche da Aristofane. Con la certezza, cantata da una “flebile nenia” di rondine[20], che il demagogo verrà condannato a morte anche in caso di parità dei voti. È proprio questa certezza che porta Canfora[21] a datare questi versi della commedia, che precedono la parabasi, alla fine del 405, quando le sorti del processo a Cleofonte dovevano essere oramai scontate, e dunque a considerare, sulla scorta di diversi altri studiosi, una vera e propria “riforma” delle Rane[22].
Le conclusioni di Canfora sono, come in ogni suo volume, forti di una riconsiderazione complessiva della tradizione degli studi sul tema. Particolarmente significativo, in Cleofonte deve morire, il vaglio costante delle fonti antiche e moderne: le testimonianze sui versi delle Rane (e, in generale, su buona parte dei passi citati nel corso del volume) sono scandagliate a partire da quelle degli eruditi bizantini (della tradizione scoliastica e dei commentari su Aristofane), criticate nei loro punti deboli e riprese nei loro aspetti più importanti. In aggiunta, con sforzo diacronico, vengono prese in considerazione dall’autore tutte le testimonianze e tutti i commenti “moderni”. Ne è un caso esemplare proprio l’attenzione dedicata al caso di studio della parabasi delle Rane: lo spazio compreso tra pagina 325 e pagina 340 è totalmente deputato ad un elenco, con annesse considerazioni, degli studi che ad essa sono stati dedicati tra Otto e Novecento.
Il coinvolgimento di Aristofane (giudiziario, artistico e politico) in determinati gruppi sociali di Atene; le armi retoriche con cui non solo egli creò di volta in volta attacchi (più o meno frontali, più o meno espliciti) contro i capi popolari che contribuivano alla divisione della città, ma al contempo una vera e propria “lingua” della critica democratica; il ruolo di Cleofonte nei processi che seguirono il 411; le persecuzioni giudiziarie fuori e dentro alla scena; il rifacimento delle Rane e i rapporti, indiscutibili e frequentissimi, tra letteratura, teatro e politica. Questi i temi affrontati, ancora una volta con piglio definitivo, da Luciano Canfora in Cleofonte deve morire. Questi e altri ancora i temi che, se vagliati con acume, precisione storica e rigore intellettuale possono interrogarci sui rapporti tra il mondo antico e il nostro presente, sulla funzione di censura e critica politica nella nostra vita pubblica e su alcuni significati, su alcune parole che oggi sembrano vacillare. Tre, su tutte: intellettuali, democrazia, popolo.

[1] Si vogliono in particolare segnalare qui, senza dover andare troppo indietro nel tempo, due recenti pubblicazioni canforiane che intrattengono un rapporto molto stretto con Aristofane e la commedia attica: La crisi dell’utopia (Laterza, 2014), dedicata nello specifico al rapporto tra Le donne all’assemblea e la Repubblica platonica e Il mondo di Atene (Laterza, 2011), dedicato più generalmente alla demolizione del “mito di Atene”, demolizione alla quale concorre, certamente, Aristofane col suo teatro.

[2] L. Canfora, Cleofonte deve morire, Roma – Bari, Laterza, 2017, pag. 4 (d’ora innanzi, tutte le citazioni – salvo segnalazioni in senso contrario – saranno tratte da qui).
[3] Sul tema, fa epoca la dissertazione di Meier: C. Meier, Die politische Kunst der griechischen Tragödie, München, 1988; trad. it. di Daniela Zuffellato, Torino, Einaudi, 2000.
[4] C. Bearzot, Manuale di storia greca, Bologna, Il Mulino, 2015³, p. 124
[5] Su trentacinquemila cittadini stimati: cfr. p. 15, “al di là delle opinabili ‘cifre tonde’”.
[6] P. 18
[7] P. 25
[8] P. 32. Idea già di Grote, Nietzsche, Couat.
[9] P. 45
[10] Pp. 60, 62, passim
[11] Sulla questione del rapporto tra didascalo e Canfora si sofferma in II, 2, con nutriti riferimenti alla tradizione erudita e studi specialistici sulla “messa in scena” delle commedie.
[12] Cf. p. 88 e Thuc. VIII, 53 – 54
[13] Thuc. VIII, 63, 3
[14] P. 95
[15] P. 101
[16] “[…] come sapientemente, e da esperto politico, sviluppò le sue argomentazioni e su quali forze retrosceniche [Aristofane] ritenne di poter contare”
[17] P. 250
[18] Rane, vv. 686-687
[19] P. 271
[20] Rane, vv. 679 e segg. trad. it. G. Paduano, ed. BUR (1996)
[21] P. 341
[22] Pp. 395-396

Fonte: pandorarivista.it

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