La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 16 aprile 2016

Referendum di oggi: Sì, basta con Renzi, basta con il passato

di Andrea Fumagalli
Se si va a San Francisco e si passeggia sul Golden Gate Bridge, si può leggere una targa che ricorda non solo la data di inaugurazione (28 maggio 1937) ma anche il fatto che il finanziamento del ponte è stato possibile grazie all’intervento pubblico dello stato della California, della municipalità di San Francisco, della Federal Reserve e della Federal Reserve di San Francisco (XII distretto). La costruzione del ponte era cominciata nel gennaio 1933. Erano gli anni del New Deal di Roosevelt, l’inizio dell’attuazione delle politiche keynesiano di sostegno alla domanda aggregata per consentire all’economia americana di uscire dalla grande recessione iniziata nel 1929. Il ponte viene progettato con un’altezza di circa 67 metri per consentire l’ingresso nella baia (ora vietato) delle navi cisterna per l’approvvigionamento di petrolio, necessario per sostenere la crescita dell’industria manifatturiera di matrice taylorista.
Veniamo l’Italia di oggi: rispetto a San Francisco e al contesto che portò alla, allora innovativa (abbiamo detto: 1933-37), costruzione del ponte da cui siamo partiti, sembra che oltre 75 anni siano passati invano, che il tempo si sia fermato. A sentire l’attuale “moderno e rivoluzionario” (parole sue) presidente del consiglio, il risveglio dell’Italia starebbe nello sblocco delle tante opere pubbliche ancora da terminare. Tra queste, per analogia con il Golden Gate Bridge, vogliamo ricordare il progetto del Ponte sullo stretto di Messina (definito dal premier “strategico”). È solo l’esempio più clamoroso. Altro esempio, più volte citato dallo stesso premier, è lo sfruttamento del giacimento di Tempa Rossa in Basilicata, balzato agli onori della cronica per le note vicende lobbystiche che hanno inguaiato la ex-ministra Guidi. Tempa Rossa non è però un’opera pubblica ma a tutti gli effetti un’opera privata, gestita da privati con profitti privati, derivante, tuttavia, dallo sfruttamento di una risorsa comune.
Tutto ciò è reso possibile e ampiamente liberalizzato dalla legge Sblocca Italia, grazie alla riduzione dei vincoli di sostenibilità ambientale e amministrativa che, lungi dal favorire la realizzazione di opere pubbliche, finanzia invece opere private. La deserta autostrada Brebemi, tra Milano e Bergamo, ce lo conferma.
Renzi pretende di fare politica industriale e, dobbiamo riconoscerlo, in Italia di politica industriale se ne è sempre fatta poca. Ma l’idea di politica industriale di Renzi non ha nulla a che fare con la “vera” politica industriale, ovvero la scelta di una strategia pubblica che definisca il percorso di una ponderata specializzazione produttiva. Renzi confonde la politica industriale con la politica di incentivazione dell’iniziativa privata (e le sue lobby) a prescindere dalle finalità che si intende perseguire. Le grandi opere materiali diventano così il terreno privilegiato del divenire privato del capitale pubblico. Non è altro che la continuazione di una politica supina agli interessi industriali, di matrice ancora fordista, sulla stessa falsariga di quanto già attuato in materia di mercato del lavoro (Jobs Act). Se oggi si volesse fare politica industriale, essa dovrebbe essere finalizzata al potenziamento dell’economia della conoscenza: invece che sulle infrastrutture materiali si dovrebbe puntare alle infrastrutture immateriali, quelle che privilegiano lo sviluppo delle economie dinamiche, di apprendimento e di rete. Una politica industriale (dove l’attributo “industriale” significa “di settore” e non “manifatturiero”, dalla corretta traduzione del termine inglese “industry”, appunto “settore”) deve puntare allo sviluppo delle produzioni immateriali, quelle a più alto valore aggiunto oltre che alle politiche si sicurezza sociale (le vere politiche industriali di oggi). Quindi, investimenti in istruzione e in sanità e potenziamento delle reti di comunicazioni: autostrade informatiche piuttosto che pedemontane e ponti sullo stretto e Tav; politiche di riconversione nell’energia e nei trasporti a favore della sostenibilità ambientale e sociale. Esattamente l’opposto di quanto si vuole fare oggi. Altro che modernità.
Il referendum di oggi condensa tutto ciò. Il quesito referendario da un punto di vista reale incide poco. Non è un mistero. Se vince il “SI” viene abolita la norma che consente alle società petrolifere di fare attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio a meno di 12 miglia marine dalla costa fino all’esaurimento naturale del giacimento. Meglio di niente, sicuramente. Ma, delle 66 attuali concessioni italiane per le estrazioni in mare, solo 21 si trovano entro le 12 miglia. Le altre possono continuare indisturbate. Ma un risultato importante può essere comunque ottenuto: l’idea che la tutela ambientale è un investimento “sociale”. Come scrive Alex Gunzo:
“le attività estrattive di idrocarburi compromettono l’equilibrio marittimo e costiero della nostra penisola a causa delle tecniche distruttive utilizzate per la ricerca e le estrazioni, favorendo solamente gli interessi delle compagnie petrolifere che nel nostro paese approfittano di royalties molto basse (7-10% contro il 20-80% degli altri paesi) e di canoni di concessione irrisori (non più di 57 euro al chilometro quadrato). E questo nonostante sia noto che le materie prime presenti nei mari italiani siano di qualità e quantità piuttosto scarse (2% del fabbisogno nazionale di gas e lo 0,8% di petrolio, ndr.)”
I governi di Mario Monti e di Matteo Renzi hanno sempre concesso condizioni via via più agevolate e ampie alle società di estrazione di gas e petrolio, arrivando a permettere di perforare praticamente ovunque nel mare Adriatico e mar Ionio, nonostante i volumi estratti fossero poca cosa. Al punto che, nelle ultime settimane, alcune multinazionali del petrolio come Shell e Petroceltic hanno rinunciato ad alcune concessioni già ottenute, vista la scarsa redditività e gli elevati costi di un obbligato smantellamento, costi, che ora, lo Stato italiano rischia di doversi sobbarcare se le concessioni venissero prorogate ma non utilizzate. Il grande capitale abbandona e lascia i rifiuti a noi.
Il paventato costo in termini occupazionali è misera cosa rispetto a tutto ciò. Ed è triste verificare che alcuni sindacati (i comparti chimici di Cgil, Cisl e Uil) sono ancora del tutto subalterni al ricatto occupazionale e danno indicazioni per il “NO” (quando l’impegno per una riconversione della politica energetica verso le energie rinnovabile porterebbe a una crescita occupazionale di gran lunga maggiore).
Specificato tutto questo, ciò che è veramente importante in questo referendum è la sua portata simbolica e quindi politica. Di fatto, è un voto sulla politica energetica e sul governo che la sta gestendo. La vera domanda è infatti la seguente: “Volete, voi cittadini, continuare a perseguire una politica energetica fondata sui prodotti fossili (gas e petrolio) non rinnovabili oppure pretendere che cominci un processo di riconversione verso fonti energetiche rinnovabili e quindi non soggette a scarsità (sole, vento, mare)?”. In Europa, la Germania in poco più di 10 anni ha aumentato la quota di energie rinnovabili al 30%, la Spagna al 20%, affrancandosi sempre più dalla dipendenza estera. Vogliamo seguire questa rotta anche noi, oppure, per salvaguardare gli interessi dominanti di poche oligarchie nazionali (Eni in testa), in grado di dettare l’agenda economica del governo, pensiamo di essere ancora al 1937 quando il Golden State Bridge è stato costruito e per di più con la quasi certezza che queste opere del passato non verranno mai portate a termine nel futuro?

Post-scriptum
È noto che dopo il picco del pezzo del petrolio nell’estate 2014, la quotazione del greggio ha avuto una continua discesa sino ad arrivare a 30$ il barile a inizio 2016 per assestarsi in questi giorni ad una soglia superiore ai 40$ (con prospettive di aumento, in seguito all’accordo tra Russia e Arabia Saudita). La penuria di petrolio preannunciata dopo il 2010 che aveva innescato un processo speculativo sui futures del petrolio sino a far salire il prezzo a oltre 130$ non è arrivata. Il motivo è abbastanza semplice. Si è verificata un aumento dell’offerta, grazie alla produzione frenetica del petrolio di scisto e delle sabbie bituminose soprattutto negli Usa e in Canada a fronte invece di un calo della domanda, soprattutto nei paesi Brics e europei, in seguito alla situazione di rallentamento dell’economia globale. In tale contesto, i paesi OPEC si sono rifiutate di limitare la produzione per non favorire i paesi produttori non-OPEC (Usa e Russia in primo luogo). Si è innescato così un circolo vizioso: il calo del prezzo del greggio ha accelerato la crisi economica degli stessi paesi produttori con effetti negativi sulla stessa domanda di petrolio. Le conseguenze sono state pesanti per le compagnie petrolifere, portando a una forte riduzione degli investimenti (in Canada, ma anche in Angola e in Kazachistan). Secondo l’agenzia di consulenza nel settore, Douglas – Westwood, almeno 150 piattaforme nel Mare del Nord saranno smantellate nei prossimi dieci anni. Non solo quindi la produzione di petrolio è inquinante e dannosa per l’ambiente ma sta diventando sempre meno conveniente perché sempre più costosa.
Anche a fronte di questa situazione, vale la pena che l’Italia, tra i pochi paesi europei, insista ancora sugli idrocarburi come fonte principale di energia?
Teniamo presente queste considerazioni in questa giornata.

Fonte: Effimera

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.