La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 15 aprile 2016

La grande divergenza europea

di Francesco Saraceno
L’ultimo rapporto annuale della BCE ci dice che va tutto bene: il quantitative easing sta funzionando (sarà per questo che il 10 marzo la BCE ha tirato fuori la bomba atomica), la fiducia sta tornando e la ripresa sta facendo il suo corso. In altre parole, l’ennesimo documento autocelebrativo dell’UE. Se non fosse per una frase inserita dal presidente della BCE Mario Draghi nella premessa, che giustamente ha attirato l’attenzione di diversi commentatori. Qui di seguito cito l’intero passaggio, con la parte importante in corsivo:
Il 2016 non sarà meno foriero di sfide per la BCE. Le prospettive per l’economia mondiale sono circondate da incertezza. Dobbiamo fronteggiare persistenti forze disinflazionistiche. Si pongono interrogativi riguardo alla direzione in cui andrà l’Europa e alla sua capacità di tenuta a fronte di nuovi shock. In questo, il nostro impegno a onorare il mandato conferitoci continuerà a rappresentare un’ancora di fiducia per i cittadini d’Europa.
Perché è così importante questa frase? Perché fino ad ora un osservatore estremamente ottimista (o ingenuo) avrebbe potuto pensare che, nonostante tutte le sofferenze ed i problemi che attanagliano il continente, l’Europa stia percorrendo la strada giusta. È vero, siamo ricaduti in recessione nel momento in cui il resto del mondo tornava a crescere. È vero, l’eurozona registra un livello di PIL a malapena superiore a quello pre-crisi, mentre molti Stati membri non arrivano neanche a quello. È vero, la crisi ha minato la fiducia tra paesi e tra governi, trasformando il termine “solidarietà” in una parola brutta e pericolosa. Ma il suddetto osservatore avrebbe anche potuto pensare che tutto questo faceva parte della dolorosa ma necessaria transizione verso un futuro glorioso fatto di economie fiorenti e prosperità condivisa. Come a dire, chi la dura la vince. Anche perché sono sette anni che il nostro ingenuo osservatore si sente dire che il dolore è quasi finito e che la ripresa è “dietro l’angolo”. Le riforme (seppure implementate troppo lentamente, ça va sans dire) avrebbero presto dato i loro frutti. Le autorità potranno anche aver sottostimato l’impatto recessivo delle misure di austerità, ma si trattava nondimeno di un aggiustamento temporaneo e necessario. Il risultato, avrebbe potuto pensare il nostro ingenuo osservatore, sarebbe stata un’eurozona più forte, più omogenea e più competitiva.
Tempo fa feci notare che in realtà al dolore stava seguendo – e sarebbe seguito – solo altro dolore, e che l’eurozona stava diventando più eterogenea propria nel campo che le riforme avrebbero dovuto migliorare, quello della competitività. Feci anche notare che il risultato sarebbe stato un’eurozona più debole, non più forte. Diversi studi recenti (si veda qui e qui) hanno mostrato che le attuali politiche stanno nuocendo al potenziale di lungo termine dell’economia europea.
Oggi la BCE riconosce che «si pongono interrogativi riguardo alla… capacità di tenuta [dell’Europa] a fronte di nuovi shock». Anche se le pagine successive del documento ripropongono le stesse ricette perseguite finora, quella semplice frase rappresenta un’ammissione implicita ma potente del fatto che quelle ricette ci stanno uccidendo. Sette anni di austerità ci hanno reso più deboli. Perché, sia chiaro, siamo meno omogenei oggi di quanto non lo fossimo nel 2007. Lo si può vedere chiaramente nel seguente grafico, in cui ho analizzato la differenza tra il PIL reale/potenziale della periferia (Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia) e quello del centro (Germania, Olanda, Austria, Finlandia) in tre periodi diversi: quello precedente all’introduzione della moneta unica, quello dell’euro in “tempi normali” e quello della crisi.


Concentriamoci sulla linea rossa (il PIL reale): fino al 2008 la periferia cresceva più rapidamente del centro dell’1%, un divario che si è fatto ancora più evidente con l’esplosione dei livelli di debito (privato e pubblico), dal 2000 in poi. Era un problema? No. La convergenza è un tratto caratteristico della crescita. Di solito (anche se le eccezioni sono la regola in economia) le economie più povere tendono a crescere più rapidamente perché presentano margini maggiori per aumentare la produttività. Per cui non vi è nulla di particolarmente anomalo nel fatto che la periferia crescesse più rapidamente del centro, soprattutto in una fase di integrazione commerciale e finanziaria. Certo, ora sappiamo tutti (e qualcuno lo sapeva anche al tempo) che la cosa era problematica perché si andavano determinando squilibri crescenti che avrebbero poi condotto alla crisi. Ma il punto da capire è che il problema erano gli squilibri, non i tassi di crescita. Infatti, se osserviamo la linea gialla (il PIL potenziale), notiamo che essa segue lo stesso trend della linea rossa (sì, so che il concetto di crescita potenziale è controverso, ma se esso viene utilizzato per calcolare le regole di bilancio allora lo posso usare anch’io, no?).
Durante la crisi la periferia ha sofferto più del centro, ed il suo output potenziale si è contratto in misura maggiore rispetto a quello del centro. Questo è amplificato dal fatto che la crescita potenziale “segue” l’andamento della crescita reale. Ma è innegabile che la capacità produttiva della periferia ha risentito della crisi più di quella del centro. Di conseguenza, non solo oggi siamo tutti collettivamente più fragili, ma il prossimo shock colpirà la periferia molto più duramente del centro, allargando ulteriormente il divario tra le due aree.
L’eurozona nella sua forma attuale non possiede i meccanismi necessari per neutralizzare le divergenze. Ai tempi del Trattato di Maastricht si credeva che sarebbero stati i mercati a garantire la convergenza. Invece abbiamo visto che i mercati non solo non hanno determinato la convergenza, ma hanno addirittura amplificato le divergenze, contribuendo prima a creare determinare pericolosi squilibri tra paesi della periferia e paesi del centro (tramite massicci afflussi di capitale verso la periferia) e poi ad amplificarli quando le cose si sono messe male (tramite deflussi di capitale altrettanto massici). I mercati, in altre parole, non assorbono gli shock. Li creano.

Pubblicato sul blog dell’autore in due puntate (qui e qui). 
Traduzione di Thomas Fazi
Fonte: Eunews Oneuro

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