La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 1 luglio 2016

Dietro la soggettività dei giornalisti

di Alain Accardo
L’osservatore attento del sistema dei media dovrà in prima istanza ammettere che i giornalisti non sono, nella maggior parte dei casi, “machiavellicamente” determinati a manipolare l’opinione pubblica a beneficio degli azionisti delle grandi imprese editoriali. Se si comportano come “condizionatori” del pubblico al quale si rivolgono, non è tanto perché spinti dalla volontà esplicita di suggestionare qualcuno ma perché sono a loro volta condizionati e la maggior parte di loro neppure ne ha consapevolezza. Ciascuno agisce – oppure non agisce – come richiesto, in naturale armonia con gli altri. Per usare le parole del poeta Robert Desnos, si potrebbe dire che obbediscono alla logica del pellicano: “Il pellicano depone un uovo tutto bianco. Da dove esce, inevitabilmente/un altro che fa altrettanto”.
Le oligarchie economiche e finanziarie, che hanno fatto fuori la maggior parte dei mezzi di comunicazione, non hanno bisogno di dettare ai giornalisti ciò che devono dire o mostrare. Non hanno bisogno di violare la loro coscienza o di trasformarli in strumenti di propaganda. Il senso di dignità dei giornalisti non si piegherà mai di fronte a una imposizione diretta. Molto meglio lasciare che facciano il loro mestiere liberamente (tranne in circostanze e casi particolari), o più precisamente: si deve far loro sentire che il loro lavoro non ubbidisce ad altri requisiti e a restrizioni che non siano quelle dettate dalle regole specifiche della professione, condivise da tutti. Si deve contare sulla loro “professionalità”.
Perciò, nelle redazioni, è condizione necessaria e sufficiente affidare le redini del potere a persone qualificate come “grandi professionisti”. Ciò significa affidarsi a coloro che non si stancano di fornire prove di adesione a una visione il mondo in linea con quella dei loro datori di lavoro. Una volta che le posizioni dirigenziali sono occupate da professionisti ideologicamente affidabili, allora entra in gioco un meccanismo di cooptazione che assicura, come altrove, un reclutamento tale da evitare, nella maggior parte dei casi, l’entrata di volpi nel pollaio o di eretici alla messa. Tale meccanismo inizia già con le scuole di giornalismo e si riconferma costantemente nelle redazioni. Così il sistema dei media viene saldamente tenuto in mano da una rete nella quale è sufficiente lavorare “come si sente” per lavorare “come si deve”, vale a dire per difendere i principi e i valori del modello dominante, quegli stessi principi che hanno ottenuto il consenso di una destra in crisi di idee e una sinistra in crisi di ideali.
Ma l’efficacia di tale sistema si basa fondamentalmente sulla sincerità e sulla spontaneità di chi ci investe, anche se tale investimento comporta un certo livello di auto-inganno. Abbiamo il diritto di muovere molte critiche all’informazione giornalistica, e sono fondate, compresa quella di contribuire a imprigionare gli spiriti nelle gabbie del pensiero unico. Ma c’è una critica che non possiamo fare ai giornalisti, salvo casi particolari naturalmente: quella di non essere in buona fede nel proprio lavoro. Avendo ben interiorizzato la logica del sistema aderiscono con libertà a ciò che sono comandati a credere. La comunità d’ispirazione annulla la necessità di una cospirazione, di un disegno superiore.
Per comprendere bene la loro convinzione di fondo, si potrebbe dire che i giornalisti sinceramente credono nella funzione positiva di un capitalismo dal volto umano, e che tale convincimento non ha per loro alcunché di ideologico o di antiquato.
Certamente, come per tutti gli attori sociali, tale visione è caratterizzata da una combinazione in dosi variabili, a diversi livelli, di lucidità e di cecità, di elementi visibili e invisibili oppure di abbagli.
Ad esempio, i giornalisti sono consapevoli delle numerose manifestazioni di disumanità dell’ordine capitalistico; ma si rifiutano di vederne la strutturalità sistemica; piuttosto pensano si tratti di semplici incidenti. Essi parlano di “disfunzioni”, di “eccessi”, di “errori” o di “pecore nere”. Condannabili, certamente, ma senza mai che ciò comprometta la fiducia di fondo in quei principi economici del sistema che sono genuinamente portati a difendere.
Una forma di inganno
Allo stesso modo, i giornalisti disapprovano sinceramente gli “eccessi” che conducono verso l’informazione-merce, indotti dalla concorrenza, dall’obbligo di redditività delle testate, dalla dipendenza dagli indici di ascolto, insomma dalla logica del mercato. Ma questa stessa logica implica la crescita massiccia dell’impiego precario nelle redazioni, con un contingente in crescita, di anno in anno, di giovani giornalisti sottopagati, usa-e-getta, sfruttabili in modo abbastanza indegno dai loro datori di lavori – cosa in sé comprensibile – ma anche da numerosi superiori e colleghi – cosa meno comprensibile. Ecco un “disfunzionamento” che non ha provocato, per il momento, nessuna mobilitazione della professione paragonabile alla difesa del 30% delle detrazioni fiscali; ed è significativo come nel 1999, durante un grande sciopero dei canali del servizio pubblico, grandi utilizzatori di lavoro precario, la questione non sia mai stata menzionata pubblicamente.
L’ambito giornalistico, come molti altri, non può funzionare se non al prezzo di una forma oggettiva di inganno, nel senso che non si può fare ciò che si fa, vale a dire contribuire al mantenimento dell’ordine simbolico, operando come se non lo si facesse, come se non si avesse invece altra finalità del perseguimento dell’interesse pubblico e del bene comune, della verità e della giustizia. È ipocrisia o furbizia? Niente di tutto ciò. Nessun sistema, qualunque esso sia, può funzionare sulla base di un infingimento intenzionale perenne. È necessario che le persone credano in ciò che fanno e che aderiscano direttamente a un’ideologia che è socialmente approvata.
Ovviamente, tale ideologia non consiste nel gridare continuamente, cinicamente: “Viva il regno del re-denaro, abbasso l’umanesimo arcaico, arricchiamoci, e peggio per i poveri!”, ma piuttosto nel ritenere, anche solo implicitamente, che la felicità del genere umano abbia bisogno della chiesa neoliberale, all’esterno della quale non esiste salvezza.
Perché la logica economica diventi egemonica, essa deve essere inculcata nella testa e nel cuore delle persone come ideologia filosofica, etica, politica, legale, estetica, ecc., relativamente autonoma. Altrimenti, si percepirà troppo il peso dell’economia sul destino umano, come una specie di vincolo esterno insopportabile, privo di qualsiasi legittimità, un “materialismo” spaventoso.
Infatti, le caratteristiche del sistema non debbono rimanere estranee agli “agenti esterni” ma penetrare in loro per conquistarli dall’interno, sotto forma di un insieme strutturato di inclinazioni personali. La vitalità di tutto l’impianto si nutre più delle tendenze dei suoi membri in tema di conoscenza, di rapporto con il potere, il lavoro, il tempo, più sulle simpatie e antipatie in merito alle pratiche culturali, familiari, educative, sportive, che delle opzioni e opinioni politiche dei singoli. Spiriti “ben confezionati”, dunque, soprattutto interni allo “spirito del tempo”. E ci si vanta, con ciò, di andare ben oltre le divisioni politiche e le consultazioni elettorali.
In questo modo, ovviamente a vantaggio dei padroni, si influenzano i media, che sono letti o ascoltati da altrettante persone in gamba, intelligenti e sincere, ma a loro volta individualmente portate a trasformare le ferree leggi del capitalismo in condizioni accettabili e postulati indiscutibili di ciò che chiamano “modernità” o, se si preferisce, “democrazia del mercato”.
Le riflessioni che stiamo facendo possono essere applicate a interi settori della struttura produttiva attuale. Il microcosmo giornalistico è uno spazio privilegiato per l’osservazione “in vivo” di ciò che sta accadendo nel campo della produzione e della distribuzione di merci simboliche – la cui popolazione di professionisti fa parte, in larga maggioranza, della “classe media” (professioni intellettuali legate alla formazione e all’informazione, ai servizi, attività di consulenza e di gestione). È una nuova piccola borghesia che ha iniettato in questo sistema – investendoci a fondo – la propria umanità, intelligenza, immaginazione, tolleranza, insomma, quel supplemento di anima di cui aveva bisogno per andare oltre il barbaro sfruttamento del lavoro salariato che ancora prevaleva prima della seconda guerra mondiale, muovendo verso forme apparentemente più civilizzate e compatibili con l’aumento delle aspirazioni democratiche.
La modernizzazione del capitalismo ha consentito lo sviluppo di metodi di “gestione delle risorse umane” e di comunicazione che mirano a edulcorare il ruolo dell’estrazione di valore, coinvolgendo psicologicamente i salariati nel loro proprio sfruttamento. Ovviamente questa collaborazione comporta gratificazioni, materiali e morali, tra cui la prima è quella di assicurare il sostentamento degli interessati, e la seconda è quella di dar loro la sensazione di essere importanti e utili per i loro simili. Il che non è poco.
Capita, per​ò, che, a causa di uno di quegli scherzi di cui la storia è piena, il loro lavoro favorisca ancor di più tale “sistema feudale” e che​,​ pur credendo di servire dio, finiscano per servire invece, e soprattutto, il diavolo, cioè il culto del denaro e della ricchezza​. Ma lo fanno sub specie boni, in tutta coscienza, anche perché quasi tutto ciò che potrebbe generare qualche senso di colpa è automaticamente autocensurato o trasfigurato. Infatti, dentro di loro alberga, come avrebbe detto Pascal, “una volontà di credere che è più forte delle ragioni del dubbio”.
Probabilmente perché i giornalisti hanno una buona padronanza professionale delle tecnologie del saper-mostrare e del saper-informare , l’osservazione del loro ambiente permette di notare, meglio che per altre categorie della classe media, che l’obiettivo ultimo dell’impostura – che consiste nel non essere e nel non fare mai ciò che in realtà credono di essere e di fare -​ ​ si traduce in una messa in scena costante​,​ agita per sé stessi e destinata agli altri, ​una rappresentazione ininterrotta di sé, destinata a se stessi mentre si rivolge agli altri, una rappresentazione il più valorizzante ​possibile ​della propria importanza.
Se è generalmente vero che nessun​a ​recita sociale potrebbe svolgersi se​ ​gli attori non accettassero, più o meno, di “raccontarsi storie” e di renderle credibili a sé stessi e agli altri, bisogna ammettere anche che la classe media è abbastanza incline a “fare teatro” o a “far cinema”. Questa tendenza, piuttosto narcisista, alla “drammatizzazione” della propria esistenza è legata alla sua collocazione in uno spazio sociale intermedio, tra i due poli, dominante e dominato, del potere sociale.
I tratti caratteristici di questa piccola borghesia derivano fondamentalmente dalla sua posizione tra il troppo vuoto e il troppo pieno, tra l’essere e il non-essere, in un mondo in cui il valore socialmente riconosciuto è direttamente proporzionale al grado di accumulazione del capitale in generale e dell’economia in particolare. “I più svantaggiati”, come si dice con un eufemismo, hanno troppo poco per potersi preoccupare di valorizzare ciò che hanno e ciò che sono. I più privilegiati hanno troppo per aver bisogno di essere rassicurati, dovendo, a tal fine, preoccuparsi di dover dare spettacolo di sé.
Il risentimento e la sofferenza
Tuttavia, questa ricerca perpetua di riassicurazione è raramente soddisfacente. I piccoli borghesi, a causa della loro posizione intermedia, sono generalmente più sensibili a valutare il divario che li distanzia dalle posizioni superiori che i benefici intrinseci alla posizione occupata. Come ha notato Stendhal, “il grosso problema è quello di elevarsi a una classe superiore alla propria, mentre tutti gli sforzi di quest’ultima vanno nel senso di impedirvi di riuscirci”.
Vi è dunque una sorta di frustrazione e risentimento, una sorta di patologia delriconoscimento sociale, che è all’origine di innumerevoli casi di una sofferenza esistenziale che possiamo denominare come sindrome di Emma Bovary e di Julien Sorel. Sofferenza tanto più difficile a essere contenuta in quanto è strutturalmente programmata e quindi resistente a qualsiasi terapia. Un’inchiesta condotta sulla base del giornalismo fornisce un quadro eloquente di tale rapporto in tensione ambivalente con la propria posizione – certe volte felice, altre volte esasperata, certe volte soddisfatta, altre volte delusa, a volte adeguata, a volte dolorosa – di dominante-dominato all’interno dell’ordine sociale.
Si ha ragione di pensare che l’unico modo per rimediare alla situazione sarebbe rompere con la logica del sistema. Impresa difficile, dal momento che la rottura non può darsi se non mettendo in discussione tutto ciò che è stato personalmente interiorizzato in profondità, tutti quei legami stretti attraverso i quali gli individui “fanno corpo” con quello stesso sistema che li ha prodotti e indotti a fare ciò che ci si aspetta da loro: ad esempio a partecipare a una competizione spietata per ottenere miseri e magri risultati, dove il successo e il premio non provano nulla se non, appunto, che si è davvero condizionati.
Finora i membri della classe media – i quali sono bloccati da questa appartenenza anche per quanto riguarda le eventuali forme della socializzazione – nella maggior parte dei casi si sono attivati con perseveranza per coltivare il loro sogno di mobilità verso l’alto e il successo personale all’interno di un universo che pure in tanti denunciano come iniquo. Ma, poiché tali opinioni critiche rimangono oggi confinate nei soli registri della politica (più o meno politicista) e del voto a “sinistra” che possono essere loro associate, lungi dal mettere in pericolo la logica dominante, producono l’effetto di ottimizzare il funzionamento di un sistema che non solo è in grado di auto-riprodursi, ma può vantare di mantenere, proprio attraverso i mezzi di informazione, un dibattito pubblico formalmente aperto anche se mai in grado di toccare la sostanza. 

Alain Accardo è coautore del libro “Journalistes précaires, journalistes au quotidien, Le Mascaret, Bordeaux, 1995 et 2000, e autore di “De notre servitude involontaire : lettre à mes camarades de gauche”, Agone, Marseille, 2001.

Articolo tratto da Le Monde Diplomatique
Traduzione di Cristina Morini
Fonte: Effimera.org 

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