La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 2 luglio 2016

Chi ha votato per la Brexit e cosa significa per il futuro

di Lorenzo Zamponi
Dopo la vittoria del Leave al referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, il dibattito politico, in Italia e altrove, si è concentrato sull’interpretazione da dare al voto: una coraggiosa rivolta proletaria contro l’austerità imposta da Bruxelles, o un tragico atto di nazionalismo reazionario da parte della parte più retrograda dell’elettorato britannico? In questo senso, ci vengono in aiuto i dati del sondaggio pubblicato venerdì da Lord Ashcroft (un ex dirigente del partito conservatore che da anni gestisce in proprio un’azienda di rilevazioni demoscopiche) ed effettuato nei giorni precedenti con la partecipazione di oltre 12 mila cittadini del Regno Unito. I dati sono disponibili gratuitamente qui in formato pdf. Per questioni di spazio, ci limiteremo ad illustrarne gli aspetti più rilevanti per rispondere a due domande: chi ha votato per la Brexit? E cosa significa tutto ciò per le strategie future della sinistra britannica e di quella europea?
La composizione sociale
Dal punto di vista sociale, mentre il genere non ha giocato sostanzialmente alcun ruolo nella scelta tra Leave e Remain (la distribuzione 52%-48% è identica tra donne e uomini), l’appartenenza di classe e il dato generazionale mostrano variazioni estremamente significative. Il Remain convince il 73% degli elettori tra i 18 e i 24 anni, cala fino ad arrivare ai 45 anni, e da lì in poi è il Leave a prevalere, fino ad arrivare al 60% pro-Leave tra gli over-65. Ma attenzione a sopravvalutare questo dato: la bassa affluenza registrata nell'elettorato giovanile rende gli under-35 poco rilevanti in entrambi i campi: costituiscono appena il 13% dell'elettorato Leave e il 24% di quello Remain. Quindi è vero che i giovani che hanno votato hanno votato prevalentemente Remain, ma in un contesto in cui in entrambi i campi le fasce di età più rappresentate sono quella 55-64 (il 24% del Leave e il 20% del Remain) e quella over-65 (il 28% del Leave e il 20% del Remain).


Altrettanto lineare è la progressione dal punto di vista dell’appartenenza di classe: il Remain prevale di misura tra gli esponenti delle classi medio-alte (AB: 57%-43%), pareggia sostanzialmente negli strati più bassi della classe media (C1: 49%-51%) mentre perde nettamente (36%-64%) tra working class (C2) e lavoratori di basso livello e disoccupati (DE). La proporzionalità diretta tra il livello di classe e il sostegno al Remain è evidente: più in alto si va, nella società inglese, più è probabile trovare sostenitori della permanenza all’interno dell’Unione Europea. Questo dato non può essere messo in discussione: gli strati più bassi della popolazione si sono orientati molto più per il Leave che per il Remain. 
Attenzione, però, a dare una lettura meccanicamente classista del dato elettorale. Se cambiamo punto di vista, infatti, e indaghiamo la composizione interna ai due fronti, scopriamo che più di un terzo del voto Leave arriva comunque dalle classi medio-alte, e che l’incidenza sui due fronti degli strati più bassi della classe media (C1) e della working class (C2) è quasi la stessa. A fare la differenza, più che la classe operaia in senso tradizionale, sono gli strati più bassi della popolazione. In particolare, se si guardano i dati sulla condizione occupazionale, si capisce che a essere determinante per la vittoria del Leave è stato il voto di tre categorie particolari: pensionati, disoccupati e casalinghe. Se infatti tra chi ha un lavoro il Remain ha vinto 52%-48%, il Leave ha prevalso sia tra i disoccupati (57%-43%), sia tra i pensionati (56%-44%), sia, ancora più massicciamente, tra le casalinghe (62-38%)


Insomma: l’analisi della composizione sociale dei due elettorati ci dice che ha poco senso parlare di un voto di classe in senso stretto, date le quote consistenti di elettori di classe medio-alta e di lavoratori su entrambi i fronti e la prevalenza del Remain tra gli occupati, ma che, comunque, piuttosto, emerge un netto orientamento verso il Leave in alcuni particolari strati sociali, quelli esclusi dal mercato del lavoro.
Il fattore nazionale
Con la Scozia, l’Irlanda del Nord e Londra che si schierano nettamente pro-Remain, sono soprattutto il Galles e l’Inghilterra all’esterno della capitale a fare la differenza per la vittoria del Leave. È particolarmente interessante, da questo punto di vista, il fatto che abbiano votato per il Leave sia le aree storicamente di destra sia quelle storicamente di sinistra, sia quelle più ricche sia quelle più povere. Il Leave ha vinto nel Nord-Ovest dove gli strati più ricchi della popolazione sono il 38% e quelli più poveri il 24% come nel Sud-Est dove i più ricchi sono il 45% e più poveri il 16%. Come abbiamo visto prima, il dato di classe esiste, ma si sovrappone e interagisce con altri fattori. Ad esempio, in Inghilterra, ha votato Leave il 79% di chi si sente “inglese ma non britannico” e il 66% di chi si sente “più inglese che britannico”, due quote che sommate fanno il 39% dell’intero elettorato Leave in Inghilterra. Sembra emergere, quindi, un nuovo nazionalismo inglese, rinfocolato dal recente dibattito sull’indipendenza scozzese, che intende far pagare a Tories e Labour un’eccessiva timidezza nel difendere l’orgoglio patrio, sia all’interno, con gli scozzesi, sia all’esterno, con l’Unione Europea. Non a caso il Remain vince in Scozia, con ogni probabilità proprio in polemica con il nazionalismo inglese di cui sopra.

Forse scontato, ma da segnalare, lo schieramento nettissimo per il Remain di chi si definisce etnicamente nero, asiatico, o comunque non bianco: in una campagna elettorale giocata in gran parte sull’immigrazione, pare quasi naturale che le seconde o terze generazioni non sostengano chi le prende di mira.
Che il tema principe della campagna elettorale, almeno dal punto di vista delle motivazioni espresse esplicitamente dagli elettori nel sondaggio, sia stata l’immigrazione pare fuori di dubbio. Alla domanda su quali aspetti, a loro parere, sarebbero stati migliorati o peggiorati dall’uscita dall’UE, gli unici tre temi che vedono prevalere nettamente il Leave sono i controlli alla frontiera, il sistema dell’immigrazione, e l’abilità di determinare le leggi nazionali, mentre sui temi economici l’orientamento dell’elettorato è molto meno univoco.

Del resto, il Regno Unito non ha mai fatto parte dell’Eurozona e ha sempre goduto di una sostanziale autonomia economica, a differenza di paesi come Italia, Grecia, Spagna o Portogallo, e l’immigrazione rappresenta uno dei pochi campi in cui effettivamente l’appartenenza all’Unione Europea ha avuto un impatto reale sulla società britannica. 
La superiorità del tema della sovranità nazionale e di quello dell’immigrazione su quelli economici come motivazione per il Leave è confermata dalle risposte alla domanda sulla principale ragione per votare Leave: i risultati vedono al primo posto “il principio che le decisioni sul Regno Unito devono essere preso nel Regno Unito”, seguito a stretto giro dal fatto che “uscire dall’UE offre la migliore chance per il Regno Unito di recuperare il controllo sull’immigrazione e sui propri confini”, mentre le considerazioni sui vantaggi economici sono relegate in fondo alla graduatoria. 
Dall’altra parte, l’economia sembra essere il primo pensiero degli elettori Remain, che mettono al primo posto “il rischio legato all’economia, ai posti di lavoro e ai prezzi”, al secondo la perdita della rendita di posizione data dall’appartenenza al mercato unico senza aderire a Schengen e all’Euro, e all’ultimo posto considerazioni legate all’attaccamento culturale e storico all’Europa.
Questi dati aiutano a problematizzare le osservazioni fatte sulla composizione sociale del Leave nella sezione precedente: quello che ha votato la Brexit è un elettorato interclassista, in cui una forte componente di operai non specializzati, pensionati, disoccupati e casalinghe è legata insieme a un pezzo della borghesia da un forte sentimento di rivalsa nazionale, dalla paura dell’immigrazione e da un (ben fondato) pessimismo di fondo: il 61% di loro pensa che per la maggior parte dei bambini che oggi vivono in Gran Bretagna la vita sarà peggiore di quella dei propri genitori, e il 71% di loro pensa che i cambiamenti in corso nell’economia e nella società porteranno più pericoli che opportunità al proprio standard di vita. Riconquista della sovranità nazionale, blocco dell’immigrazione e fortissima preoccupazione per il futuro caratterizzano compattamente tutti gli elettori Leave, a prescindere dall’appartenenza di classe e da quella geografica.
La composizione politica
Dal punto di vista politico, entrambi gli elettorati sono piuttosto compositi, anche se sicuramente il Leave è più pesantemente caratterizzato a destra. Tra chi ha votato Remain, il 39% alle elezioni dell’anno scorso ha votato Labour, il 31% Tory, il 12% Libdem, il 7% Verdi e il 6% SNP (i nazionalisti scozzesi), mentre, tra chi ha votato Leave, il 40% lo scorso anno ha votato Tory, il 25% UKIP, il 21% Labour, il 5% Libdem, il 3% SNP e il 2% Verdi.


Il partito più compatto è stato ovviamente l’UKIP, i cui elettori hanno votato per il 96% Leave e solo per il 4% Remain. Più plurali, anche se nettamente schierati in senso opposto, il Labour (63% Remain e 37% Leave), i Verdi (75% Remain e 25% Leave), i Libdem (70% Remain e 30% Leave) e l’SNP (64% Remain e 36% Leave), mentre il partito Conservatore è stato fondamentalmente spaccato, con il 58% dei suoi sostenitori schierato per il Leave e il 42% per il Remain.


Una lotta tra due destre, con, sul lato Leave, l’UKIP e i settori più radicali dei Tories lanciati all’assalto del troppo moderato Cameron, e, sul lato Remain, lo stesso Cameron a rappresentare la campagna. Una trappola mortale per il Labour di Corbyn, che è riuscito a mantenere sulla linea scelta del partito (il Remain) due terzi del suo elettorato, ma ha subito il netto dissenso dell’altro terzo.
La composizione politica dei due campi è confermata dalle risposte alla domanda sulla natura positiva o negativa di determinati fenomeni: anche in questo caso, gli aspetti economici sono quelli in cui la differenza tra i due campi è meno marcata: la percentuale di chi ha un’opinione positiva del capitalismo, ad esempio, è esattamente la stessa sia tra gli elettori Leave sia tra quelli Remain (57%), mentre i temi su cui si registra il maggiore dissenso sono, ancora una volta, l’immigrazione (considerata negativamente dall’82% degli elettori Leave e dal 23% di quelli Remain), il multiculturalismo, la globalizzazione e i diritti civili.

Considerazioni simili si possono trarre dal grafico sull’appropriazione dei temi da parte dei sostenitori dell’uno e dell’altro campo: a dividere fortemente sono l’immigrazione e la riconquista della sovranità nazionale da una parte e la priorità data alla competitività sui mercati internazionali dall’altra, mentre temi come la difesa del servizio sanitario nazionale (NHS), il costo della vita e le prospettive occupazionali sono fortemente contesi tra un campo e l’altro.


Polarizzare sul cleavage nazionale e dividere coloro che considerano prioritari i temi sociali e di classe: se il meccanismo in campo è stato questo, non stupisce che ad egemonizzare entrambi gli schieramenti sia stata, di fatto, la destra, e che il Labour di Corbyn sia in forte difficoltà dopo questo voto.
In sintesi
A votare la Brexit è stato un blocco sociale composito e interclassista, ma profondamente radicato nelle fasce sociali più svantaggiate, in particolare quelle escluse dal mercato del lavoro, frustrate nella propria identità nazionale, un tempo privilegiata, e spaventate dall’immigrazione. La saldatura di questo blocco rappresenta un grosso problema per la sinistra, inglese e non, ma non si tratta di un fenomeno recente. Se è vero che solo il 21% di questo blocco ha votato Labour lo scorso anno, significa che una parte consistente della working class inglese non ha voltato le spalle a Corbyn ora in nome dell’opposizione all’Unione Europea, bensì ha smesso da tempo di identificarsi in una sinistra che, del resto, negli anni del blairismo, ha messo in campo politiche di austerità, precarizzazione e privatizzazione ben più forti di quelle applicate nel resto d’Europa, e senza bisogno delle pressioni di Bruxelles e Francoforte. Ad aver votato Brexit è stata una parte significativa della borghesia nazionale insieme a una parte di ciò che era la working class inglese, così com’è uscita da quattro decenni di thatcherismo e blairismo: sconfitta, impoverita, fondatamente pessimista e comprensibilmente spaventata. Del resto, se denunciamo da anni che il cuore dell’ideologia neoliberista sta nella distruzione dei legami di solidarietà in nome della messa in competizione di tutti contro tutti, non possiamo stupirci se l’immigrazione e la sovranità nazionale soppiantano i diritti dei lavoratori o la difesa di un welfare che non c’è più tra le motivazioni che spingono al voto le classi popolari, e non possiamo scandalizzarci se chi è stato abbandonato dalle organizzazioni presuntamente di classe finisce per fondersi nelle urne con un blocco interclassista guidato dalla destra in nome della difesa dal nemico esterno.
Ciò non significa che dall’analisi del voto non si possano trarre lezioni utili per il futuro. Già il fatto che il 43% dei cittadini britannici, trasversalmente alla propria scelta di voto rispetto all’Unione Europea, abbia un’opinione negativa del capitalismo, non è per nulla una cattiva notizia, così come niente male è il fatto che ambientalismo e femminismo siano maggioritari in entrambi i campi, pur con visibili differenze. Ma soprattutto, fa ben sperare il fatto che i temi maggiormente contesi tra i due campi, quelli sui quali l’elettorato non è affatto sicuro se arriverà un miglioramento e un peggioramento in occasione dell’uscita dall’UE, siano allo stesso tempo quali considerati più rilevanti, e siano, guarda caso, quelli sociali ed economici: i diritti dei lavoratori, il costo della vita, la difesa del servizio sanitario nazionale. Esiste uno spazio egemonico per una sinistra che sappia ricostruire la propria credibilità e il proprio radicamento su questi temi, mettendo insieme intorno ad essi un blocco sociale tendenzialmente maggioritario nella società britannico e trasversale rispetto alle divisioni che il dibattito sulla Brexit ha creato.
Si tratta di indicazioni che vanno nella direzione che lo stesso Jeremy Corbyn, così come Bernie Sanders negli USA, ha indicato da tempo: la ricostruzione della sinistra a partire dalle condizioni materiali, dalla lotta alle disuguaglianze e dalla resistenza alla globalizzazione neoliberista. Un'operazione assolutamente necessaria se si vuole provare a fermare la tendenza verso lo slittamento a destra delle classi popolari, e se si intende ricostruire le condizioni necessarie perché anche i temi meno direttamente legati alle disuguaglianze socio-economiche, come i diritti civili, l'ambientalismo o il multiculturalismo, non vengano rinchiusi nel ghetto di una middle-class cosmopolita e illuminata che è sempre più piccola. Situare la sinistra prima di tutto su un lato della barricata delle disuaguaglianze sociali, e fare di quel cleavage la principale chiave di lettura della realtà contemporanea, non significa tornare al passato e dimenticarsi degli altri temi, bensì significa ricostruire le condizioni per cui quei temi possano essere fatti propri dalla stragrande maggioranza dei cittadini e non, invece, agitati contro di loro.
Comunque la si pensi sulla Brexit (e chi scrive ne è tutt'altro che entusiasta), il fatto che esista un voto Leave operaio, seppure orientato a destra, e anche un Leave di sinistra, seppure minoritario e inespresso, rappresentano un’opportunità di crescita per la sinistra britannica. Ora che l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è un fatto, e che di conseguenza le rivendicazioni sulla riconquista della sovranità nazionale e il controllo dei confini sono destinate a perdere di efficacia (per quanto dolorosamente sulla pelle di milioni di migranti italiani, spagnoli, greci e polacchi), è sulla questione delle disuguaglianze, del lavoro e del welfare che il Labour di Corbyn (se non soccomberà alla resa dei conti interna operata dal gruppo dirigente blairiano che di questa situazione è il primo responsabile) ha la possibilità di basare la propria sfida egemonica. Una battaglia collettiva di organizzazione e di emancipazione, per la ricostruzione di quei legami di solidarietà che il neoliberismo ha reciso. Una battaglia difficile ma assolutamente necessaria. Solo se la sinistra riuscirà a ritrovare la sua anima popolare e di massa potrà rompere la gabbia del falso bipolarismo tra tecnocrazia neoliberista e nazionalismo reazionario di cui parti sempre più ampie della politica europea sono prigioniere.
Un'ultima considerazione va fatta sul tema della sovranità, che tanta centralità ha acquisito nella scelta per il Leave, almeno secondo i dati a nostra disposizione: può non piacere che essa sia stata declinata in senso nazionale, in maniera ampiamente strumentale data l'indipendenza oggettiva di cui il Regno Unito ha goduto sul piano delle politiche sociali ed economiche, e che, di conseguenza, venga caricata di pulsioni razziste ed escludenti. Ma la rilevanza che gli elettori conferiscono a questo tema segnala che il livello di autonomia e di assenza di qualunque accountability che le élite nazionali e sovranazionali hanno raggiunto è diventato semplicemente intollerabile per una parte significativa della popolazione. E questo dovrebbe dire qualcosa sia a quelle élite sia ai loro oppositori.

Fonte: ilcorsaro.info

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