La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 5 novembre 2016

La legge contro il caporalato c'è, ma lo Stato deve vigilare affinché si rispetti

di Yvan Sagnet 
La nuova legge contro il caporalato ovvero contro l'intermediazione illecita di manodopera è sicuramente migliore rispetto alla precedente in quanto, modificando l'art. 603 bis del codice penale, estende la responsabilità penale anche al datore di lavoro che utilizza manodopera in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori. Inoltre, introduce una fattispecie-base di reato che prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori dei caporali (difficilmente dimostrabili dalla vittima) nonché la confisca dei beni di tutti i soggetti che concorrano al reato e l'arresto obbligatorio in flagranza.
Se è pur vero che il nuovo testo segna dei passi in avanti, non possiamo però affermare che sia questa la legge idonea per contrastare il caporalato e migliorare le condizioni di lavoro dei braccianti nelle nostre campagne. Ora, si poteva fare di meglio? Credo proprio di sì, anche perché mai come in questo momento storico vi è stata una così profonda sensibilità sul tema sia a livello sociale che politico. L'esito del voto al Parlamento ne è una conferma, dato che la nuova legge è stata approvata con il consenso di quasi tutte le forze politiche (con la sola astensione di Forza Italia e Lega).
Entrando nel merito della riforma, il mio scetticismo deriva dal fatto che il nuovo testo mantiene un impianto prevalentemente repressivo e pertanto le sue disposizioni potranno produrre gli effetti attesi se (e soltanto se) lo Stato attiverà meccanismi efficaci di controllo e se, allo stesso tempo, i lavoratori riusciranno a sviluppare una maggior consapevolezza, iniziando a denunciare i propri oppressori. Ciò dovrebbe avvenire all'interno di un sistema efficiente di tutela della vittima, ove instaurare un rapporto di interlocuzione diretto e permanente tra persone offese, forze dell'ordine e magistratura per evitare, come avviene tutt'ora, che le vittime, per lo più straniere, non sappiano a chi rivolgersi qualora decidano di denunciare.
Stando ai dati dell'ultimo rapporto Agromafie e Caporalato della Flai-Cgil su circa 430.000 lavoratori vittime di caporalato le denunce registrate dalle procure dal 2011, anno di introduzione del reato di intermediazione illecita del lavoro, a oggi sono state meno di 500, ossia lo 0,01% del totale. Cosa ci fa credere che con l'entrata in vigore della nuova legge quel numero possa aumentare? Pensiamo veramente che una legge, per quanto estenda la responsabilità a coloro che si trovano un gradino più in alto del caporale nella scala dello sfruttamento, possa consentire a un gruppo più ampio di braccianti di trovare il coraggio di denunciare i propri aguzzini?
Spesso in Italia non sono le leggi che mancano, ma la loro corretta e sistematica applicazione. Se, per esempio, le imprese si attenessero interamente a quanto indicato nei contratti collettivi nazionali di lavoro da loro stesse sottoscritti e se lo Stato vigilasse attentamente sul rispetto delle regole, oggi non avremmo bisogno di un'altra legge contro il caporalato.
Il caporalato è un aspetto importante, ma solo accessorio al sistema di sfruttamento che contraddistingue l'attuale configurazione del mercato del lavoro in agricoltura. In effetti oltre al caporalato, esiste il sottosalario (in agricoltura un bracciante guadagna mediamente 3euro/ora), il lavoro nero, il lavoro grigio, l'uso improprio dei voucher che sono altrettanto dannosi per i lavoratori.
A mio avviso la legge appena approvata avrebbe potuto essere più efficace se avesse cercato di affrontare le cause del problema e non solamente gli effetti. Per colpire il fenomeno alla radice occorrerebbe, da una parte, riformare i centri per l'impiego in modo da fare incontrare legalmente e efficacemente l'offerta e la domanda di lavoro, dall'altra, eliminare lo strapotere della grande distribuzione organizzata che detta legge e fa il prezzo dei prodotti agricoli, spesso riducendo sul lastrico i produttori. In questo senso lo strumento della Rete Del Lavoro Agricolo di Qualità previsto per la prevenzione del reato è un'arma spuntata e se consideriamo che su un potenziale di 300.000 aziende solo 300 vi hanno aderito, allora il fallimento è palese.
È evidente dunque che gli incentivi previsti dallo Stato non sono stati sufficienti a motivare le imprese.
In generale il mercato del lavoro si stabilizza e emerge dall'illegalità se gli imprenditori sono messi nelle condizioni di farlo da un mercato (quello vero, non quello del lavoro) fiorente e redditizio, in cui non vi sono intermediazioni parassitarie da parte di grandi gruppi finanziari internazionali che controllano il mercato delle sementi e la grande distribuzione, comprimendo il reddito dei produttori e dissanguando i consumatori.
Si sarebbe dovuto dare più potere allo strumento della Rete del lavoro agricolo di qualità legandolo al mercato con un metodo di certificazione obbligatoria che tenga conto non solo della qualità biologica dei prodotti immessi sul mercato, ma anche del loro valore sociale, etico ed energetico.

Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore 

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