di Francesco Marchianò
La tendenza a falsificare la realtà è tipica del dibattito pubblico italiano. Persino quando si dispone di dati, nonostante ciò dovrebbe essere difficile se non impossibile. E invece non è così. Basta fare un esempio con le recenti cifre del Pil fornite dall'Istat, calcolato allo 0,6% e spacciate da tutti come una crescita miracolosa pur essendo irrisorie e comunque più basse della media europea. Ancora più sconcertanti sono gli articoli e i servizi di giornalisti compiacenti con il governo sul cosiddetto Jobs Act. Il filo conduttore della loro narrazione è che in Italia si siano creati nuovi posti di lavoro proprio grazie a questo provvedimento che avrebbe preso di petto la disoccupazione. Ma è davvero così?
Per rispondere in maniera esaustiva a questo interrogativo e capire quali sono state le dinamiche che la disoccupazione, la sua misurazione statistica e le azione politiche dei governi hanno seguito nella storia del nostro Paese, può essere utilissima la lettura di una recente volume edito da Laterza e scritto dallo storico Manfredi Alberti: Senza lavoro. La disoccupazione in Italia dall'Unità a oggi.
Si scopre subito, o meglio si ribadisce, per rispondere all'interrogativo dal quale si è partiti, che non c'è nessun nesso tra il Jobs Act e l'aumento dei posti di lavoro visto che in generale sia l'Ocse che la maggior parte degli studiosi concordano nel ritenere che le norme giuridiche sul lavoro hanno effetti insignificanti o nulli sulla disoccupazione. Molto più incisivi sono altri fattori come gli investimenti in tecnologia e formazione.
Il libro di Alberti è suddiviso in tre parti che corrispondono ai periodi principali della storia dell'Italia unita, ossia quello che dell'Italia liberale, quello del periodo fascista e quello della repubblica. Per ognuno di questi periodi, l'autore riporta le cifre della disoccupazione fornite dalle statistiche di allora, mettendo l'attenzione proprio sulle difficoltà di definire e misurare un fenomeno sfuggente e pure così importante nel nostro Paese, essendone uno dei mali più antichi. Alle cifre si affianca un'approfondita ricostruzione delle reazioni del mondo politico a questo problema, sia nella percezione che nella formulazione di risposte adeguate alla sua risoluzione. Nello stesso tempo, la disoccupazione viene analizzata tenendo in considerazione altri fenomeni sociali, primo fra tutte le migrazioni, sia interne che verso l'estero, sebbene, come spiega lo studioso, non vi sia un nesso diretto tra disoccupazione e tendenza a migrare. Non solo, la disoccupazione viene letta anche considerando il mutamento della forza lavoro con la riduzione del bracciantato, l'emergere della classe operaia e il suo tramonto. Altro elemento essenziale analizzato è la disoccupazione intellettuale, antico tarlo del sistema produttivo italiano da sempre incapace di valorizzare il lavoro altamente qualificato e specializzato.
Leggendo le pagine del volume, si ha l'impressione che la canonica scansione temporale seguita si possa affiancare a un'ulteriore, e per nulla confortante, distinzione epocale nella quale permane una linea continua interrotta solo dai primi trent'anni della storia repubblicana, quelli che oramai sono noti a livello generale come i trent'anni gloriosi. Fuori da questa parentesi storica, pur nella loro mutevolezza, permangono delle costanti come l'elevata disoccupazione, specialmente femminile (ridottasi solo, per ragioni intuitive, durante la Grande guerra) e diffusa nelle aree agricole e nel Sud. Nelle élite politiche e intellettuali, invece, la costante è rappresentata dal prevalere di una concezione economica classica nella quale c'è l'idea che la disoccupazione sia un fattore strutturale, impossibile da eliminare, e che lo Stato deve interferire il meno possibile nell'economia per cercare di risolvere questo problema.
Durante i primi trent'anni della storia repubblica il quadro muta. Le forze politiche danno vita a una costituzione incardinata sul lavoro e sul forte intervento del pubblico nel privato. A prevalere è un'idea keynesiana di economia che mira alla piena occupazione: un obiettivo comune sia alle forze di governo che di opposizione, sebbene per ragioni diverse. Al termine di questa fase storica, la disoccupazione si riduce come non mai nella nostra storia così come il divario tra Nord e Sud. Lo Stato interviene nell'economia, come, per esempio, con l'edilizia popolare e la nazionalizzazione dell'energia elettrica. In questi anni aumentano i salari, sia nominali che reali, cosa mai avvenuta in prima, quando la loro crescita era sempre inferiore alla crescita di produttività. I salari sono, inoltre, messi al riparo dall'inflazione, in base alle quale vengono adeguati per sostenere i consumi, anche se col tempo ciò innescherà un circolo vizioso che farà crescere sempre più l'inflazione. Inoltre, in questa fase, cresce la conflittualità del mondo del lavoro e con essa i diritti che culminano nello Statuto dei lavoratori e in quell'articolo 18 che ne era il perno. Prima si poteva essere licenziati solo perché in possesso della tessera del sindacato o del Partito comunista; adesso, senza un giustificato motivo, nessun operaio può essere licenziato.
Esaurita questa fase, esplode l'epoca del liberismo che, sorto sul finire degli anni Settanta, in Italia entra negli anni Ottanta e si afferma nel decennio successivo, sulla spinta dell'Europa e grazie, soprattutto, ai governi di centrosinistra, molto più liberisti, secondo Alberti, dei governi di centrodestra. I diritti del lavoro si riducono ed esplodono, con il pacchetto Treu, le forme di lavoro atipico. La flessibilità diventa la nuova parola d'ordine. I salari tornano a diminuire e l'articolo 18, colpito dalla riforma Fornero, viene affondato dalJobs Act voluto da Renzi, dalla Confindustria e dai tecnocrati di Bruxelles.
Durante i trent'anni gloriosi, ci fu un politico della Dc che più di tutti tentò di seguire le politiche keynesiane, non solo per convinzione, ma perché riteneva che se fosse diminuita la disoccupazione, con il miglioramento della condizione dei lavoratori, sarebbe diminuito il bacino di consenso del Pci. Si chiamava Amintore Fanfani. Curioso che un noto ministro del governo attuale, pur condividendo una cultura politico-economica liberista, abbia solennemente dichiarato di ispirarsi a lui.
Fonte: Huffington post - blog dell'Autore
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