La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 12 marzo 2016

Roma tra politica e polizia

di Francesco Brancaccio
Roma è una città sull’orlo del fallimento. Come gli Stati, anche le città possono fallire. Non certo a causa di coloro che le abitano, e che le trasformano. Le cause vanno rinvenute altrove, in alto e non in basso: il malgoverno, la corruzione del sistema dei partiti, le compatibilità imposte dalle tecnocrazie di Bruxelles. I due elementi – la corruzione politica e le politiche di austerità – sono fortemente intrecciati, e ci dimostrano che il progetto neoliberale, specie nella variante sud-europea, scende tranquillamente a compromessi con il «capitale-mafia» – l’inchiesta di «mafia-capitale» ha toccato solo una parte di questo enorme agglomerato di interessi.
Il governo commissariale non rappresenta certo una via di uscita da questa situazione. E neanche una parentesi temporale, o l’eccezione che conferma la regola. Al contrario, riprendendo il filosofo Jacques Rancière, il governo commissariale segna il passaggio dalla politique alla police.
La figura della polizia va intesa nel senso più ampio del termine, come il segno di una radicale mutazione. La police ci presenta la politica, e l’amministrazione, come istanze immediatamente esecutive. Questa mutazione l’abbiamo vista agire prima a livello dei governi nazionali, e ora prova ad imporsi sulle città.
Ci viene detto che non c’è più spazio, e non c’è più tempo, per la decisione dei molti e per le tradizionali forme della partecipazione politica. L’amministrazione diventa il luogo dell’emanazione ed esecuzione di atti, provvedimenti e decisioni sottratte alla sfera democratica. Non stiamo perciò vivendo una fase eccezionale, che si chiuderà con il ripristino dello status quo. Quella odierna, è una sperimentazione che guarda al futuro, e che fornisce precise istruzioni a chi verrà dopo le elezioni. Il presunto volto anonimo dell’amministrazione esprime un preciso paradigma di gestione della città. Fuor di metafora, si sta facendo tesoro del collasso dei servizi essenziali e della corruzione insita a ogni livello delle funzioni amministrative. Tutto deve essere messo a profitto, e privatizzato. I servizi, come il patrimonio pubblico.
Per queste ragioni, la battaglia che da mesi vede coinvolti gli spazi sociali, i comitati di quartiere, le associazioni, i lavoratori dei servizi e dell’accoglienza, gli occupanti di casa, le mamme che lottano contro la privatizzazione degli asili nido, è una battaglia sul presente e sul futuro della città. Il corteo del 19 marzo “Roma Non Si Vende”, non è solo un’occasione per esibire quello straordinario tessuto mutualistico e solidale che caratterizza la città di Roma. È un’occasione per avviare un processo di cambiamento radicale, e per scrivere dal basso una Carta di Roma Comune.
Ci viene detto che il pubblico è l’opposto del privato. Mentre il privato delimita, in negativo, lo spazio del “mio” e del “tuo”, il pubblico sarebbe “di tutti”, perché “di nessuno”. In realtà, come si è visto in questi anni, il pubblico è sempre più l’altra faccia del privato. Si introducono forme di corruzione e di saccheggio del pubblico, per preparare il terreno della sua privatizzazione. La Carta di Roma Comune, come si sta discutendo all’interno della Rete per il Diritto alla Città, vuole perciò andare oltre la coppia pubblico-privato. La Carta vuole tutelare ciò che a Roma è comune, e che non può che essere comune.
Cosa esprimono gli spazi sociali, con la loro presenza nei quartieri e con le loro pratiche? Un modo differente di concepire l’uso di un bene. Nel caso dei beni comuni, non importa se la proprietà di un bene sia pubblica o privata. Importa l’uso che di quel bene si fa. Per questo ci piace parlare di uso comune di ciò che è comune. E ciò che è comune, è di tutti e di ciascuno. Sono state proprio le pratiche di occupazione ad aver introdotto questo tertium datur. Si occupa uno spazio per sottrarlo alla speculazione, all’abbandono o per invertire il segno della cosiddetta “valorizzazione urbana”. Ci si appropria di uno spazio per renderlo inappropriabile.
Solo partendo dalla centralità che la tematica del comune riveste nelle trasformazioni che investono la città contemporanea, si può capire perché le richieste dell’amministrazione capitolina – sottoporre gli spazi a bando pubblico o riacquisirli per valorizzarli economicamente – siano del tutto improprie. L’uso comune di un bene o di un servizio si sottrae alla sua misurabilità in termini esclusivamente monetari. L’uso comune di un bene è sottoposto sempre al processo di autogoverno e di autogestione del bene stesso. Solo chi partecipa, chi prende parte, in forme molteplici, alle attività di uno spazio, può rivendicare un controllo su quel bene.
È una sorta di rivoluzione copernicana nel modo di concepire il rapporto tra il dentro e il fuori, tra l'amministrazione e la società che si (auto)organizza. L'amministrazione deve limitarsi a riconoscere il valore sociale di queste esperienze, senza imporre norme dall'alto. Deve riconoscerne l'autonomia - autonomia significa, etimologicamente, «darsi le regole da sé».
Queste esperienze non sono illegali, e neanche legali. Sono legittime. La legalità senza la legittimità, è vuoto e astratto formalismo. La legittimità modifica la legalità, la spinge in avanti, la adatta alle trasformazioni della società. Per questo chi difende gli spazi sociali non difende solo la propria esistenza, ma nel farlo afferma un’altra idea di città. Da un lato, l'amministrazione viene concepita come pura emanazione del potere statale, e come mera esecuzione di atti e procedure decise a livello europeo e transnazionale. Dall'altro, l'amministrazione viene concepita come strumento di garanzia, come vettore per sperimentare modelli innovativi di autogoverno.
Da qui partiremo, consapevoli di non essere soli in questo percorso. In altre città esperienze di autogoverno si stanno imponendo. Per fare due esempi, nel Mediterraneo, Barcellona e Napoli hanno scelto la strada della sperimentazione di democrazia radicale e del rifiuto dei vincoli imposti dalle politiche di austerità. Esperienze parziali, che però ci consegnano dei precedenti virtuosi. Anche a Roma stiamo ponendo le basi per un’esperienza di autogoverno, irriducibile al quadro della politica esistente e radicalmente alternativa alla police. Un’esperienza che sia in grado di reinventare lo spazio urbano e di durare nel tempo. Il 19 marzo è una tappa importante di questo cammino.

Fonte: comune-info.net 

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