La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 18 marzo 2016

Provocazioni dalla Germania: la repubblica 'nera' e il fallimento della sinistra

di Fernando D'Aniello
La repubblica nera e il fallimento della sinistra tedesca: così s’intitola il libro di Albrecht von Lucke*, redattore della rivista mensile Blätter für deutsche und internationale Politik, punto di riferimento del mondo progressista tedesco. Le due tesi principali dell’autore sono sintetizzate sin dal titolo. La prima, la Germania è una repubblica “nera”, dal colore dell’Union, l’alleanza conservatrice tra la CDU e la bavarese CSU, che da ormai undici anni, tramite diverse coalizioni (con la SPD o con i liberali della FDP), sostiene al Bundestag il governo di Angela Merkel. E il colore, a giudizio di von Lucke, non sembra destinato a mutare: possibilità per un cambio di governo sono, al momento, praticamente nulle e, per quanto possa cambiare l’alleato di minoranza della coalizione, sembra ormai certo che la guida, anche dopo elezioni del 2017, andrà all’Union (e, con tutta probabilità, ad un nuovo cancellierato di Angela Merkel). 
Le possibilità di uno scenario simile a quello del settembre 1969, quando Willy Brandt si considerò vincitore perché la sua SPD aveva ottenuto più voti dei due partiti conservatori (ma non della loro somma) avanzando la proposta ai liberali della FDP di formare una nuova coalizione a guida socialdemocratica, sono assai remote (anche perché dalle elezioni federali del 2013 la FDP non siede più alBundestag e non c’è alcuna certezza che vi tornerà tra un anno). 
Per non parlare di un’alleanza di forze progressiste, sul modello di quanto sperimentato, ad esempio, in Turingia: un governo sostenuto da SPD, Grünen e Linke è, ad oggi, un’opzione al più sussurrata da singoli esponenti dei tre partiti – ad esempio quelli raccolti nell’Institut solidarische Moderne – ma priva, a un anno e mezzo dalle elezioni, di una autentica consistenza. La sconfitta alle prossime elezioni è data tanto per certa che qualcuno, nella SPD, si è spinto addirittura a suggerire di non presentare un candidato alla Cancelleria. La Grande coalizione sarebbe, dunque, uno sbocco obbligato: anche in ragione della crescita del partitoAlternativ für Deutschland (Alternativa per la Germania, AfD, dapprima “semplicemente” antieuro e oggi sempre più vicino a posizioni simili a quelle del FN francese) al momento considerato inadatto a governare anche dai Conservatori. La sua crescita, magari anche a danno dei Liberali, rende, però, ancora più ineluttabile una riedizione dell’accordo Union-SPD: tuttavia, argomenta von Lucke, l’assenza di alternative è una situazione pericolosa per la democrazia, fondata proprio sul confronto tra diverse ipotesi di governo. 
E proprio da questa inconsistenza progettuale che von Lucke sviluppa la sua seconda tesi, quella del “fallimento”, das Versagen, della sinistra tedesca, della SPD quanto della Linke. E il fallimento è innanzitutto quello della leadership, degli uomini che più di ogni altro hanno incarnato entrambi i partiti negli ultimi anni : da un lato Gerhard Schröder, a capo di un governo “rosso-verde” (1998-2005), autore, in particolare, di rilevanti riforme del sistema di previdenza sociale, dall’altro Oskar 
Lafontaine, Presidente della SPD, Ministro nel Governo Schröder (per pochi mesi, che gli valsero comunque la copertina del britannico Sun come “uomo più pericoloso d’Europa”) e, infine, tra i fondatori della Linke, il nuovo partito, nato nel 2005 dall’unione della vecchia PDS dell’Est con la WASG (Alternativa elettorale per il lavoro e la giustizia sociale), un cartello elettorale dell’Ovest che raccoglieva gli scontenti delle politiche di Schröder. 
In effetti, la storia dei due e del rapporto con i loro partiti è pressoché simile. Schröder è un uomo della generazione degli anni sessanta che, nel 1998, scalza il vecchio Helmut Kohl dalla Cancelleria, accusato di non riuscire a superare lo stallo per le riforme – Reformstau – di cui il paese aveva 
bisogno (tanto che l’Economist citava la Germania come il vero paese malato d’Europa). Sono gli anni in cui forze progressiste sono al governo in molti paesi (Clinton negli Stati Uniti, Blair in Inghilterra, Chirac è costretto a coabitare con il socialista Jospen in Francia, l’Ulivo in Italia,…). 
Schröder, insieme al suo Ministro degli Esteri, il verde Joschka Fischer, rompe innanzitutto il tabù della guerra, con le operazioni militari in Kosovo: la Germania dimentica la tesi della potenza civile, ostile alla guerra e occupata prevalentemente sul fronte diplomatico, e si riscopre impegnata in conflitti bellici. Fischer ne farà addirittura un cardine della sua politica, riprendendo l’”episodio” fondatore della Repubblica federale e trasformandolo in elemento costituente della politica estera tedesca: Mai più Auschwitz è il motto con il quale Fischer giustifica l’intervento militare e la necessità di fermare il genocidio nei Balcani. 
Con le dimissioni di Lafontaine da Ministro dell’Economia (marzo 1999), Schröder ha campo libero e sigla un patto con Tony Blair, ispirato alla necessità di riforme e interventi nel mercato del lavoro: è la vittoria nel partito dei cosiddetti “modernisti”. Ci vorrà però tempo, le riforme arriveranno solo con la seconda legislatura di Schröder: gli interventi, riuniti complessivamente nella Agenda 2010 finalizzata alla riforma della soziale Marktwirtschaft, daranno alla luce uno degli istituti più odiati dai tedeschi, il sussidio di disoccupazione II, meglio noto come Hartz IV (Peter Hartz è il nome del presidente della Commissione che si occupò di stendere le proposte di riforma). La SPD, nonostante le critiche dei sindacati e una consistente emorragia di iscritti, si piega alle volontà del Cancelliere: “Non faccio politica contro l’economia” (p. 37), così sintetizza von Lucke la critica di Schröder a Lafontaine. 
L’idea è quella di “sostenere ed esigere” (fördern und fordern), cioè di immaginare una serie di aiuti da parte dello Stato in cambio di precisi impegni assunti da chi riceve gli interventi, ma in realtà l’istituto rivelerà enormi crepe (tanto che sarà sanzionato, diversi anni anni dopo, dal Tribunale costituzionale federale), determinando un ulteriore spinta al ribasso dei salari tedeschi ma soprattutto tradendo uno dei capisaldi della Repubblica federale e della (vecchia) economia sociale di mercato, l’idea cioè di tener presente quanto un individuo abbia realizzato nel corso della sua vita e le ragioni per cui si è venuto a trovare in una situazione di difficoltà. Cosa che l’Hartz IV non realizza perché, nei fatti, impone ai beneficiari degli interventi, anche tramite un sistema di sanzioni, di accettare qualsiasi attività sia proposta dagli Uffici per il lavoro: si afferma il principio dell’Armut trotz Arbeit, dei woorking poors, della povertà nonostante il lavoro (p. 48), aumentando così la diseguaglianza e la paura dei cittadini. 
Questa impostazione non sarebbe, però, esclusivamente materia per gli storici ma essa risulterebbe ancora dominante nel partito, nonostante alcuni crescenti malumori, rappresentati, ad esempio, dalla contrarietà espressa dalla giovanile del partito, nel dicembre 2013, all’accordo di programma della Grande coalizione nel corso del referendum tra gli iscritti al partito voluto (vinto tuttavia dal segretario Sigmar Gabriel, oggi Vicecancelliere), o dalle numerosi voci critiche nel mondo sindacale per interventi chiari contro il lavoro precario e per l’aumento dei salari. Von Lucke riporta, ad esempio, l’assoluta indisponibilità manifestata dai vertici della SPD a modifiche rilevanti al Trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico (TTIP), come pure a interventi finalizzati a una tassazione dei patrimoni (pp. 89-90). L’intera strategia dominante nella dirigenza della socialdemocrazia tedesca consisterebbe nel confermare l’ipotesi di Grande coalizione con l’Union, magari cambiandone il timoniere, dalla Merkel a un socialdemocratico: del resto lo stesso Willy Brandt dovette faticare non poco a vincere le resistenze della dirigenza del partito, nel corso del già citato episodio del 1969, per una sostituzione della Grande coalizione con l’alleanza semplice tra SPD e liberali, quasi che una sorta di “inerzia” della politica continui a impedire alla SPD di individuare ipotesi alternative a quelle più moderate (spesso, però, del tutto incapaci di produrre vere e incisive riforme: in fondo Brandt con una maggioranza risicata varò riforme per modernizzare e democratizzare la Repubblica federale – mehr Demokratie wagen – e avviò la Ostpolitik). 
L’altro protagonista del racconto di von Lucke è Oskar Lafontaine, che è stato certamente tra i protagonisti della nascita della Linke, sebbene proprio questa opzione, anche alla luce della concorrenza a sinistra con la SPD che il nuovo partito ha determinato, venga, seppur molto brevemente, contestata da von Lucke. C’era spazio per un partito a sinistra della SPD? Non era forse più interessante provare a costruire un’alternativa più efficace ai modernisti di Schröder? 
Ovviamente si tratta di domande quasi scolastiche, ma che introducono un’altra questione, ovvero il fatto che, da risorsa, il fondatore si sia trasformato in un peso. Perché, nei confronti del suo vecchio partito, c’era (e, va detto, c’è) in Lafontaine tutto l’astio dell’ex (e, anche questo va detto, l’astio è assolutamente ricambiato dalla dirigenza socialdemocratica): il nemico è e resta la SPD e qualsiasi ipotesi di accordo è da evitare a tutti i costi. Questa strategia, seppur limitatamente vincente in termini elettorali (nel 2009 la SPD, ancora governata da una dirigenza “ispirata” da Schröder e impegnata al governo nella grande coalizione con l’Union, ottenne il suo peggior risultato di sempre, la Linke sfiorò addirittura il 12%), si rivela, però, priva di un obiettivo di fondo. Il quadro politico tedesco è, infatti, molto rigido e le uniche novità vengono al momento, come già ricordato, da destra, ragion per cui l’ostilità radicale di Lafontaine ad un accordo con la SPD – sia essa espressa apertamente, sia attraverso scelte programmatiche del tutto incompatibili con un governo a guida socialdemocratica – non avrebbe altro effetto che quello rendere ancor più inevitabile il governo della Grande coalizione. 
Non solo: Lafontaine contribuirebbe anche ad aggravare la crisi dell’idea stessa di sinistra, tradendo la lezione del suo maestro, proprio l’ex Cancelliere e borgomastro di Berlino Willy Brandt. Gli attacchi radicali alla NATO, la lettura a senso unico dell’Europa (recenti pronunciamenti vanno anche nella direzione di un’uscita dall’Euro), il tendere verso una sorta di “populismo di sinistra”, teoricamente debole e privo di sbocchi pratici reali, non farebbero altro che rafforzare la personalità di Lafontaine, anche ora, apparentemente ritirato dalla scena nazionale, ma indebolirebbero il partito, lasciandolo senza ipotesi progettuali concrete, privo di una lettura efficace della crisi europea e di quella tedesca e molto diviso al suo interno (quasi sempre sull’orlo della scissione). 
Date queste premesse, la soluzione migliore a giudizio di von Lucke per le prossime elezioni potrebbe essere quella di una coalizione “nero-verde” e, cioè, un’alleanza di governo tra l’Union e i Grünen, i Verdi, che potrebbe da un lato qualificare in senso ecologista il governo conservatore, dall’altro impedirebbe una nuova Grande coalizione (che non a torto von Lucke considera come “devastante” per la democrazia tedesca) e renderebbe possibile la nascita di una forte opposizione congiunta di SPD e Linke, che, finalmente, dovrebbero iniziare a cooperare anche sul piano federale (pp. 107-108). 
Le riflessioni di von Lucke sono condivisibili sotto più aspetti: SPD e Linke dovrebbero andare oltre le loro dirigenze storiche, definire una progettualità comune come pure stabilire priorità comuni e non competere una a discapito dell’altra. Merita di essere approfondita e ulteriormente sviluppata l’intuizione della rilevanza del dato biografico comune (Schröder è del ’44, Lafontaine del ‘43) nel processo di progressivo allontanamento dai partiti di provenienza. Schröder ha visto, sin dall’inizio del suo mandato, nel partito un limite alla sua azione di governo, non lo ha mai nascosto e ha tentato sempre di imporre le sue scelte (arrivando a una forma estremamente odiosa di “privatizzazione delle funzioni pubbliche”, come quando ha accettato, a fine mandato, un ricco incarico in una società energetica russa). 
Lafontaine non si è rivelato da meno, evitando una sua partecipazione agli organismi collettivi del partito e, tuttavia, essendo presentissimo nel dibattito pubblico con le sue proposte “a titolo personale” sull’euro o sulla gestione della crisi migratoria (proposte che, essendo radicalmente diverse da quelle ufficiali della Linke, hanno imbarazzato non poco la dirigenza e creato confusione tra gli iscritti). Quasi che gli uomini di quella generazione non abbiano mai imparato a fare i conti con la propria “piccolezza” come singoli e la necessità di un’elaborazione faticosamente collettiva dei propri convincimenti. 
E, tuttavia, leggendo il libro di von Lucke si ha l’impressione che all’analisi critica non corrisponda una proposta altrettanto soddisfacente. Certo le critiche a SPD e Linke appaiono condivisibili, come pure quella ai suoi dirigenti che ancora ripetono gli errori di Schröder da un lato (ad esempio l’ultimo candidato Cancelliere Peer Steinbrück o l’attuale Vicecancelliere Sigmar Gabriel) e di Lafontaine dall’altro (Sarah Wagenknecht, di recente eletta Presidente del Gruppo parlamentare al Bundestag, ruolo condiviso insieme al più “moderato” Dietmar Bartsch). Come pure accettabili appaiono alcune priorità individuate: la necessità, ad esempio, di un’iniziativa per l’aumento dei salari, seppur non convince del tutto la tesi che i salari tedeschi siano talmente bassi da determinare un pericoloso abbassamento della competitività degli altri paesi (p. 121) ma soprattutto perché, anche grazie all’introduzione nel 2015 del salario minimo, sono timidamente cresciuti (in base ai dati del Statistisches Bundesamt e della Hans Böckler Stiftung). 
Anche la lettura delle cosiddette politiche di austerità appare ancora insufficiente a definire un’ipotesi alternativa continentale, per quanto ragionevoli suonino le critiche alla Linke di una critica tout court al progetto europeo (per non parlare delle recenti proposte di Lafontaine sull’ipotesi di un ritorno alle valute nazionali in un sistema tipo il vecchio SME). Addirittura, si tradisce una certa dose di ingenuità quando von Lucke (p. 130) prova ad argomentare una possibile strada oltre l’austerità: 
«… anche i ricchi cittadini degli Stati in crisi, ad esempio la Grecia ma anche l’Italia e la Spagna, devono essere impiegati maggiormente per il salvataggio dell’Euro, in nome della responsabilità per il proprio paese e quali vincitori dei tempi delle “vacche grasse”». 
Il problema è, come insegna ad esempio il recente caso italiano del Governo Renzi, che la lotta all’austerità può rivelarsi compatibile non solo con l’opposizione a ogni ipotesi di tassa sui patrimoni (sul modello di quella che von Lucke vorrebbe incrementare in Germania) ma anche soltanto di riforme vere e radicali del sistema creditizio, imprenditoriale e sindacale. Perché, se è vero che politiche espansive possono giovare al sistema, è altrettanto vero che l’equazione si tiene solo a partire dalla qualificazione della spesa stessa. E appare proprio l’analisi dell’austerità – concetto che negli ultimi anni sembra aver sostituito la ben più pregnante critica al Washington Consensus – a determinare l’apparente ostilità all’Europa dei movimenti politici più radicali del continente e lo loro palese incapacità a definire strategie nazionali di trasformazione radicale dei rispettivi paesi, finendo così per offrire una ciambella di salvataggio proprio a quelle classi dirigenti che li hanno devastati. 
Anche l’uso del concetto di Occidente (Westen) – che von Lucke riprende interamente da Heinrich August Winkler che a questo concetto ha dedicato la sua intera attività di storico (tra cui una poderosa Storia dell’Occidente) – sembra tradire un certo ottimismo, quando invece esso si rivela incapace di prospettare una strada nuova e convincente. Corrette e attuali sono le critiche alla Linke e, in particolare, alla corrente di Lafontaine sulla parzialità dei giudizi relativi all’ONU (come nel caso, risalente a inizio 2013, della discussione nel gruppo parlamentare del sostegno, da manifestarsi tramite una astensione, alla missione ONU in Siria a cui avrebbe preso parte una fregata tedesca: ipotesi sostenuta da Gysi e avversata da Wagenknecht, che alla fine la spuntò) o alla Nato (l’ipotesi di una uscita immediata dalla Nato rende, evidentemente, impossibile qualsiasi accordo con la SPD). 
E, tuttavia, se l’ONU è in una posizione di oggettiva difficoltà non è certo a causa degli atteggiamenti equivoci della Linke: la complessità di un mondo sempre più multipolare e la crescente aggressività di numerosi attori, come pur i numerosi elementi di frizione tra le due sponde dell’Atlantico – sulla politica economica, sulla gestione dei rapporti con la Russia, sulla crisi dei rifugiati – mettono in serio dubbio il valore” universale” dell’idea di Westen (p. 153) e la sua compatibilità con la costruzione di uno spazio geopolitico e ideale europeo. 
Qui il richiamo a Willy Brandt, a cui pure von Lucke si rifà costantemente fino a dedicargli un intero capitolo, andrebbe fatto fino in fondo: allo statista socialdemocratico non difettava certamente un profondo senso ideale e morale – che lo portava, ad esempio, a considerare intollerabile la divisione tedesca, e ad entusiasmarsi, leggendo chiaramente quanto avveniva ad est e a ovest, per la caduta (in realtà l’abbattimento) del Muro, nel 1989 – ma era anche in grado di coniugarlo in un preciso progetto politico e strategico di lungo respiro. E sono queste le coordinate con cui una sinistra europea dovrebbe muoversi sia nella definizione di un progetto politico europeo – che per forza di cose potrà nascere solo da un consesso intergovernativo – e nell’individuazione di quelle priorità e degli interventi finalizzati a dargli senso e spessore. Il rischio, anche nel libro di von Lucke, è che l’Europa (così come la solidarietà o la responsabilità) siano concetti privi di una loro profondità teorica e diventino solo parole incapaci di rispondere alle legittime preoccupazioni degli europei di fronte alle crisi che stanno attraversando. Contribuendo così ad alimentare quella spirale mortale di rabbia verso le istituzioni europee e di ostilità verso ogni ipotesi di autentica solidarietà sociale, alimentando così il bacino elettorale dei partiti apertamente xenofobi e razzisti. 
Perché a ben guardare, la crisi non è solo una crisi riconducibile agli errori commessi o alle anomalie delle biografie. Von Lucke stesso nella sua sintesi finale per la definizione di nuove priorità per una sinistra che potremmo definire senza aggettivi non va oltre alcune enunciazioni di principio: serve più Europa (certo, ma quale e come?), più solidarietà sociale (ma come la si realizza?), più lotta alla disuguaglianza e più giustizia sociale (ma la si può avere senza mettere in discussione nulla del sistema economico?). Sia chiaro: la ragionevolezza di alcune proposte è fuor di dubbio, ma può bastare la ragionevolezza a definire un progetto politico alla Brandt e, cioè, al tempo stesso “visionario”, capace cioè di guardare lontano, elettoralmente vincente e in grado di vincere le sfide della contemporaneità? L’impressione è che von Lucke abbia argomenti efficaci per una demolizione delle attuali classi dirigenti (una “rottamazione”, per dirla all’italiana) ma manchi una piena messa a fuoco della natura e dell’identità della Linke. 
Non è un caso, quindi, che nell’ipotesi di von Lucke la sinistra resti una sorta di indicazione geografica (in base alla quale la sinistra non è nient’altro che, letteralmente, ciò che sta a sinistra) ma manca del tutto un’analisi dei soggetti, dei gruppi, delle classi che dovrebbero riconoscersi in essa. Von Lucke ha giustamente individuato nelle biografie dei leader un elemento decisivo degli errori degli ultimi venticinque anni. E, tuttavia, nel libro di von Lucke sono assenti proprio le persone, in carne e ossa, chiamate a dare corpo e dimensione a una parola evocata di continuo ma quasi mai chiaramente definita. Tanto da metterne in discussione il senso stesso di continuare a utilizzarla, visto che la dicotomia stessa destra-sinistra dice molto poco sugli attuali conflitti in corso nel globo. Come scritto da alcuni occupanti di case in una strada di Berlino: Revolution, Ja aber wozu? Insomma: Che ce ne facciamo della Sinistra? Saperlo, ma questo è un altro libro. 

Fonte MicroMega online 

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