di Anna Gallucci Foggia
Marzo ha portato il settantesimo anniversario del voto alle donne e lo splendido film Suffragette: un mese adatto per confrontarsi su quali azioni sviluppare a sostegno delle donne e contro una violenza dilagante che fatica a trovare risposte efficaci e di sistema. Prima di tutto va identificato il fenomeno, eliminato ogni equivoco, definita la cornice culturale di riferimento che consente un radicamento così profondo e trasversale per età, genere, status socio-economico e collocazione geografica.
Di cosa parliamo?
In Europa la violenza è la prima causa di morte per le donne fra i quattordici e i quarantaquattro anni. In Italia ogni tre morti violente ce n’è una che riguarda una donna uccisa per mano del proprio partner attuale o ex. Il 90 per cento delle donne non denuncia il partner violento.
Veniamo, qui, a un primo equivoco da dirimere (che ho rilevato da esempio sul mio territorio ma che affronto perché non escludo possa ingenerarsi anche altrove): mi è capitato ascoltare rappresentanti istituzionali, del tutto in buona fede, affermare che sul territorio il fenomeno non è granché diffuso. Chi segue da anni la questione sa che l’affermazione è clamorosamente falsa ma le ragioni di questa “svista” vanno chiarite. La prima: per “violenza” si intende nella vulgata comune lo stupro e il femminicidio. Violenza, invece, secondo tutte le istituzioni internazionali, nazionali e regionali e le norme in materia, è quella verbale, psicologica, economica, oltre a quella fisica e sessuale. Capitolo a sé è la violenza assistita dai minori. La seconda: come s’è detto, il 90 per cento delle donne non denuncia il partner violento. Conclusione: se le donne non denunciano e quando denunciano viene detto loro che quelle ingiurie e vessazioni che riportano non si possono definire violenza, ecco spiegato il motivo di dichiarazioni così lontane dalle realtà.
Dobbiamo invece assolutamente considerare violenza l’insieme di questi fenomeni. I dati ci dicono che in Italia una donna su tre, tra i sedici e i settant’anni ne è stata vittima. Capiamo bene che, se una donna su tre ha conosciuto episodi di violenza, ciò vuol dire che nelle conoscenze di ognuno di noi ci sono vittime e attori di violenza. Guardiamoci intorno e cerchiamo di vedere.
E veniamo alla violenza assistita. Nel 65 per cento dei casi di violenza, i figli sono testimoni di uno o più episodi. Udire le urla della madre, sentirla offesa, insultata, vederla schiaffeggiata, picchiata, presa a calci e in alcuni casi stuprata, tutto ciò ha lo stesso effetto, immediato e nel tempo, di un abuso, un maltrattamento o una violenza subita direttamente dai minori. In Italia, oltre il 10 per cento di ragazzine ha subito violenze sessuali prima dei sedici anni: anche in questo caso oltre il 90 per cento dei casi non è stato denunciato perché il fatto si è consumato in famiglia ed è considerato “da coprire per il bene di tutti”. Del resto, un giovane su tre tra i diciotto e i ventinove anni, ritiene che gli episodi di violenza domestica “vanno affrontati dentro le mura di casa”.
Se vogliamo seguire questo film a ritroso, partendo dall’atto estremo del femminicidio e andando all’indietro, possiamo individuare facilmente i comportamenti che ci avrebbero dovuto allertare.

Questo grafico, utilizzato in alcuni centri antiviolenza, è definito “la spirale della violenza”; le donne, senza ricevere indicazioni, non fanno nessuna fatica a collocare in ognuno di questi punti eventi particolari della loro vita: le minacce, anche poi definite “scherzose”, non fatte “seriamente”, ma poi sempre più pressanti; l’allontanamento dalla loro famiglia d’origine e dalle amiche più intime attraverso una certosina operazione di denigrazione; la loro svalorizzazione come donne, come madri, come mogli; gli impedimenti e i divieti, sempre più decisi nel tempo, e poi le prime aggressioni fisiche seguite, puntualmente, dalle scuse, sempre convincenti e accompagnate, spesso, da pianti e regali e tenerezze, fino alla violenza successiva, seguita da nuove scuse e così via… e il ricatto dei figli, che c’è sempre e che fa presa su quasi tutte le donne perché materializza l’incubo di ogni madre, la separazione dai propri figli.
Ebbene, se queste passaggi fossero letti dalle donne e dal loro ambiente per quello che sono, e ciò sintomi di un devastante cancro sociale, non sarebbero così drammaticamente elevati quei numeri che oggi ci raccontano di un Italia che ha fatto della violenza un tratto caratterizzante la propria cultura. Invece accade il contrario.
Storie di ordinaria violenza
Per provare a rendere visibili i dispositivi che normalmente scattano quando una donna tenta di uscire dal circuito, proviamo a raccontare brevemente alcunestorie reali, ovviamente chiamando le protagoniste con dei nomi fittizi.
Stefania e Francesca: prima e seconda moglie di un uomo di famiglia benestante e con una posizione prestigiosa. Lui ha usato violenza su entrambe le donne già da quando erano incinte, le ha picchiate anche dopo la separazione, davanti ai figli, ha picchiato le loro madri e la propria madre quando si è permessa di difendere le nuore. Le denunce per anni non sono state raccolte, e quando sono state raccolte non sono andate avanti. Poi ci si è rivolti a un ispettorato di Polizia formato per questo tema specifico. In questi anni tutti hanno sempre saputo: medici di base, assistenti sociali, insegnanti dei figli, vicini di casa, il territorio intero, ma lui è considerato “una brava persona”, lui stesso ammette di perdere le staffe ogni tanto e da qualche anno va anche da uno psicologo… Colleghi e conoscenti si chiedono “perché rovinarlo?”.
Giovanna, la incontro nel corridoio dello spazio antiviolenza. Quel giorno è andata in ospedale con un pezzo di cuoi capelluto staccato e poi le hanno messo anche sette punti intorno all’orecchio. Mi dice che ora si rifugia da un’amica ma ha dovuto lasciare al marito il bambino di dodici anni, è stata anche dall’assistente sociale del Comune ma non può denunciarlo perché il marito è introdotto in un progetto di reinserimento sociale dopo un lungo periodo di disoccupazione e nessuno gli vuole creare problemi.
Irene, la conosco da almeno sei anni, durante i quali i suoi rapporti familiari sono stati altalenanti. A un certo punto il marito la costringeva a mangiare per terra in un angolo mentre lui e i due bambini pranzavano a tavola; lei ne parlava con la maestra di uno dei bambini, poi ci sentivamo, la indirizzavo ai servizi pubblici ma la proposta della casa famiglia che le veniva prospettata lei proprio non riusciva ad accettarla. La sua operatrice di riferimento una volta le ha detto “fatti trovare un lavoro dall’assessore, se non ne hai uno, non puoi fare nulla!”. Ad oggi il lavoro stabile Irene ancora non ce l’ha e vive ancora col marito.
Davide ha venticinque anni, un giorno viene da me con la madre, naso rotto, labbro spaccato, un dente caduto, dopo l’ennesima lite…. Li accompagno allo spazio antiviolenza, lui mi racconta di anni di ospedali, medici, servizi pubblici, il padre ha sempre alzato le mani su moglie e figli. Oggi sono riusciti a liberarsi, ma la casa, per una serie di cavilli burocratici, è rimasta al padre e loro si arrangiano come possono tra mille sacrifici.
Eva è un’insegnante, l’ex compagno la va a cercare dentro scuola, lei si trova in una riunione di programmazione, lui giura che la ucciderà davanti a tutti perché lei lo ha lasciato. L’ha picchiata già diverse volte. Tra i colleghi che assistono alla scenata, nessuno si frappone tra loro, ma quando lui va via cercano di tranquillizzare lei; lui è un brav’uomo, stimato direttore di banca, sicuramente è solo un momento di rabbia e gli passerà.
Serena, dirigente amministrativa in una scuola, picchiata l’ennesima volta dal marito finanziere, scappa di notte in pigiama, ma la denuncia non viene raccolta, viene invitata a riflettere e anche in ospedale le consigliano di non dichiarare ciò che le è successo, c’è un bambino di mezzo.
Francesco, dieci anni, quarta elementare, a scuola si presenta con il cellulare e lo mostra alle maestre, ha ripreso il padre (con precedenti problemi di giustizia) mentre picchiava con la cinghia la madre… il dirigente scolastico, interpellato dalle insegnanti, consiglia di far cadere la cosa, per il momento, in queste cose è meglio non entrare… loro si rivolgono ai servizi, ma l’idea che emerge è che la donna abbia un caratteraccio, lo provoca continuamente. Sono passati tre anni, Francesco racconta ancora delle botte che prende la madre: lui fa il tifo per il padre, lei se le cerca.
Maria, sedici anni, terzo liceo, la preside della sua scuola la trova fuori il cancello poco dopo le 7,30, sta lì da ore: è scappata da casa, dopo che per l’ennesima volta il padre, medico ospedaliero, ha picchiato lei, sua madre, la sua sorellina… non è la prima volta che accade, a volte beve troppo. Viene fuori che l’uomo una volta ha anche stuprato la moglie davanti alla ragazza. Ora Maria è in casa famiglia con la madre e la sorellina.
Angela, una mia amica, condivide con me molti discorsi su questo argomento, va agli incontri antiviolenza e pubblica su facebook articoli su questo. Quando un pomeriggio, però, le si presenta a casa Miriam, la compagna del figlio ventottenne, piena di lividi e le racconta di tutte le volte che in questi anni ha preso le botte da lui, Angela la convince a tornare da lui: è un ragazzo dolcissimo, ti ama tanto, chissà che momentaccio sta attraversando per comportarsi in questo modo, ti assicuro che lui non è così…. Sei anche incinta, non vorrai chiudere questa bellissima storia che c’è tra voi proprio ora?
L’accettazione sociale
La reazione del contesto familiare, professionale, istituzionale che circonda queste donne, è quella che si definisce “accettazione sociale” ed è il motivo principale per cui la violenza sulle donne non ha argine. L’aspetto più drammatico è che di questa deriva ci stiamo assicurando la riproduzione, considerato che i dati Ipsos 2015 riferiscono che tra i giovani di età compresa tra i diciotto e i ventinove anni il 35 per cento preferisce relegare la violenza di genere a episodi domestici e il 20 per cento individua nella donna le responsabilità delle violenze.
Qualche settimana fa una giovane collega a scuola commentava: “Però è vero che le donne si attaccano di più a chi le tratta male!”. Tipico esempio di cultura maschilista di una donna. Dobbiamo avere le idee chiare: maschilismo e femminismo sono culture che non sono esclusiva, rispettivamente, degli uomini e delle donne. Il maschilismo, cultura patriarcale che postula la superiorità dell’uomo, è condivisa da molte donne (altrimenti sarebbe estinta). Il femminismo, contrariamente a quanto si pensa, non capovolge il rapporto tra i sessi ma promuove una cultura che non preveda nessun dominio di un genere su un altro. E può essere condivisa da uomini e donne: questo della condivisione con gli uomini, infatti, è un’altra questione che va sciolta, giacché le battaglie che separano si perdono, invece bisogna stare insieme proprio perché i diritti delle donne sono diritti umani, cioè di tutto il genere umano, senza differenze di genere.
Un’altra baggianata riconducibile all’accettazione sociale l’ho sentita, ahimé, anche tra personale dei servizi pubblici: “Anche gli uomini subiscono violenza”. Bene. Quante volte sentite notizia di uomini ammazzati perché hanno provato a lasciare la compagna? Fate una ricerca e poi ne riparliamo.
Intanto, negli ultimi due anni c’è stata una vittima di femminicidio ogni due giorni. In sette casi su dieci si sono consumati all’interno del contesto familiare e una su tre viene uccisa a “mani nude”, con percosse, strangolamento o soffocamento, una modalità di esecuzione riconducibile a un più alto grado di violenza e rancore che difficilmente potrebbe essere agita al contrario, cioè dalla donna nei confronti del proprio compagno.
Nel 32 per cento dei casi è la reazione dell’uomo alla decisione della donna di interrompere/chiudere un legame, più o meno formalizzato, o comunque di non volerlo ricostruire: queste donne sono, dunque, colpevoli di decidere.
Il femminicidio non è dunque frutto di un raptus come media di bassa lega continuano a raccontare ma è l’esito di un’escalation di violenze, vessazioni, maltrattamenti pregressi a danno della vittima di carattere verbale, psicologico, fisico. Maltrattamenti a cui non si è voluto dare un nome e che sono giunti alla loro conseguenza estrema.
Un dato rilevante è anche quello relativo alle donne con disabilità o con salute critica: ha subìto violenze fisiche o sessuali il 36 per cento di chi è in cattive condizioni di salute e il 37 per cento di chi ha una disabilità medio-grave. Il rischio di subire stupri o tentati stupri, per queste donne, è più che doppio (10 per cento contro il 4,7 per cento delle donne senza problemi).
Il linguaggio
Elemento culturale che merita attenzione speciale è il linguaggio. La lingua ha un genere, e sappiamo che la struttura del linguaggio forma la struttura del pensiero, che a sua volta produce atteggiamenti e comportamenti. Pertanto, utilizzare correttamente la lingua costituisce un passo importante per riequilibrare un sistema valoriale che consente una violenza così diffusa. Pensiamo a quando le donne con professioni di prestigio vengono chiamate al maschile: medico, avvocato, segretario, notaio, ministro, deputato, commissario, ingegnere, architetto, assessore, sindaco, consigliere, ecc.
Grammaticalmente è scorretto, ma ci si ostina a onorare questa tradizione. Pochi giorni fa, un’avvocata, durante un convegno su questo tema, mi ha detto: “Ma avvocata suona male, è meglio avvocato!”. Io le ho risposto: “E maestra come suona?”. E lei: “In questo caso è il maschile, maestro, che suona male, se riferito a un maestro elementare, invece riferito a un maestro di vita suona meglio”… A quel punto è apparsa chiara la trappola.
Che fare?
Il binomio fondamentale è cultura/rete. E, dunque, le risorse economiche. La promozione culturale capillare consente il riconoscimento della violenza già dai primi segnali; ineludibile e inderogabile, come appare anche dalle storie delle donne raccontate, è la formazione congiunta del personale dei servizi pubblici: scuole, servizi sociali, sanitari, Forze dell’Ordine.
La realizzazione di forme di collaborazione tra questi diversi soggetti è l’unica modalità che può rendere immediata e concreta la “presa in carico” della donna da parte dell’intero sistema, qualunque sia stato il primo interlocutore.
I dati ufficiali sottolineano l’inefficacia e l’inadeguatezza della risposta istituzionale alla richiesta d’aiuto delle donne vittime di violenza: ben il 52 per cento delle vittime aveva segnalato/denunciato alle istituzioni (servizi sociali, scuola, ospedali, forze dell’ordine) le violenze subite. Evidentemente, o non c’era stato il riconoscimento del problema oppure era mancata una presa in carico seria attraverso l’attivazione di un circuito virtuoso che consentisse alla donna e agli eventuali figli di mettersi in salvo.
Senza una cultura diffusa, una formazione adeguata e una rete efficace, le risorse, da sole, non sono in grado, comunque, di fornire un’efficace risposta al problema: l’assenza di una visione di genere non fa prevedere in bilancio fondi pubblici e quando vengono stanziati sono erogati con ritardi insostenibili provocando sospensione e chiusura dei servizi. Se ciò accade è soltanto perché questi servizi e queste azioni non sono tra le priorità politiche e istituzionali. La mancanza di una lettura competente del problema non fa attivare forze politiche e istituzioni e lascia questa tematica a una qualificata cerchia di organizzazioni e alle reti informali che possono solo fare del proprio meglio, stimolando attenzione, conoscenza, sensibilità e opportunità.
Parallelamente all’azione istituzionale, c’è uno spazio quotidiano in cui ognuno di noi può e deve interrompere questa catena criminale: non volgiamo lo sguardo altrove, scegliamo di vedere, condannare, denunciare ogni atteggiamento, linguaggio e comportamento ingiurioso, offensivo, violento, prevaricatore e discriminatorio. Fino a quando non sarà chiaro a tutti che ogni piccolo gesto o parola che lede, anche per una frazione di secondo, la dignità di una donna, per quanto appaia limitato a un contesto, a una battuta, a una persona, a una circostanza, tesse, in realtà, una tela di violenza collettiva che tutti avvolge, il meccanismo si nutrirà inesorabile e saremo noi lì a offrirgli alimento.
Scegliamo, invece, di guardare negli occhi Stefania, Francesca, Davide, Giovanna, Irene, Eva, Francesco, Serena, Miriam, Maria, i loro bambini, tutte le altre: siamo noi, donne e uomini, di oggi e di domani. Come vogliamo immaginarci?
I dati riportati sono Istat 2015 e rapporto “Rosa Shocking 2. Violenza e stereotipi di genere: generazioni a confronto e prevenzione”, We World Onlus, 2015.
Fonte: comune-info.net

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