di Franco Astengo
Mario Vegetti, in una intervista collettiva rilasciata alla “Lettura” del Corriere della Sera indica: “tocca alla filosofia cercare di mettere ordine nel caos del dibattito politico”.Queste poche righe sono dunque finalizzate non tanto (naturalmente) a fornire una risposta all’interrogativo posto da Vegetti ma a porne altri sui quali potrebbe essere sarebbe bene ci si soffermasse nell’intento di costruire un adeguato retroterra di pensiero politico.
Un passaggio che dovrebbe risultare utile per realizzare un’ipotesi di concreto affrontamento delle nuove contraddizioni emergenti nell’oggi che si intrecciano fortemente con le tradizionali “fratture” operanti a livello della società moderna.Lo stesso Vegetti infatti indica: “La giustizia diventa l’utile del più forte se non si individuano valori universali che vengono prima della legge. Ma oggi il problema è definire che cos’è buono e giusto”.
Nel momento in cui la caduta delle ideologie ispirate alla contrapposizione sociale ha lasciato lo spazio all’ideologia dell’unico vincente e della fine della storia è forse il caso di riprendere il filo proprio da questa affermazione svolta dal filosofo studioso del pensiero antico.
Il ritorno alla filosofia morale e l’intreccio tra questa e la filosofia politica dovrebbe quindi rappresentare un obiettivo partendo dalla valutazione del concreto di ciò che è avvenuto e sta avvenendo nell’attualità della politica e, insieme, appunto (e contraddicendo i politologi della destra americana) nello svilupparsi inesorabile della storia.
Ci troviamo, infatti, in una fase di inedita dislocazione nel rapporto tra globalità e strutture economico – sociali della sovranazionalità, dovute in particolare al processo di esasperata finanziarizzazione dell’economia che è risultata alla base del procedere del ciclo di crisi capitalista nell’ultimo ventennio.
Processo di finanziarizzazione causa principale di due fenomeni fortemente presenti nell’attualità: il primo rappresentato dall’acuirsi dei meccanismi di diseguaglianza a tutti i livelli, con la creazione di una nuova casta di supermiliardari collocata – appunto a livello sovranazionale – che è rimasta a lungo intoccabile e impunita al di là degli atti compiuti costituendo davvero la nuova “super intesa” del capitalismo moderno, in luogo della massoneria e – successivamente – delle varie Trilateral, Billdeberg e quant’altro (fenomeno largamente studiato da Piketty, Atkison, Stiglitz e altri).Il secondo fenomeno rappresentato dalla crisi complessiva dello “stato – nazione”: una crisi verificatasi soprattutto a livello militare, avendo come concausa la fine della logica dei blocchi e l’avvento – fragile e contraddittorio – della sola superpotenza “gendarme del mondo” e, in secondo luogo, sul piano fiscale provocando una clamorosa sottrazione di risorse dal possibile utilizzo pubblico verso l’egoismo accumulatore e insieme “compradoro” del privato.
Tutti i tentativi di creazione (e assestamento) di strutture sovranazionali sono falliti, in primis l’Unione Europea ma anche il collegamento tra i cosiddetti BRICS i vari trattati commerciali, ecc: il tutto schiacciato dalla logica imperante della gestione autoritaria del ciclo.
A livello di ciò che è rimasto di Stato–Nazione questi fenomeni hanno causato, prima di tutto, un vero e proprio dissesto della democrazia liberale – parlamentare e lo scivolamento verso nuovi tipi di forma – stato e di forma di governo basati su di un autoritarismo veicolato dall’assunzione di un ruolo di centralità della detenzione del potere al riguardo dell’uso dei mezzi di comunicazione di massa: è questo il vero nodo della trasformazione dalla democrazia partecipata alla democrazia del pubblico.
Soprattutto però, in conclusione, è venuta a mancare – a tutti i livelli fin qui indicati – l’etica pubblica secondo la dicotomia tra concetto e concezione.Si tratta di ricostituire, a livello di riflessione nel campo della filosofia politica e rivolgendosi all’insieme delle dimensioni fin qui analizzate della globalizzazione, della sovranazionalità e dello “Stato–Nazione”, il principio che i decisori abbiano a disposizione in linea di principio le necessarie informazioni attualmente rilevanti per decidere in maniera razionale le questioni collettive.
La politica deve rientrare nella sfera più ampia dell’etica, poiché si suppone che la seconda debba tornare a tracciare le linee direttive se non tutti i comportamenti concreti per la prima.
L’etica deve quindi essere deputata a valutare le ragioni della politica? Questo appare come l’interrogativo di fondo da porci nel momento in cui avvertiamo l’evolversi di contraddizioni forse mai affrontate in precedenza nella storia.
Etica da stringere in un connubio inscindibile con la critica, intesa proprio attraverso il rilancio dell’idea kantiana dell’uscita dell’uomo dallo stato di minorità sconfiggendo così l’idea prevalente della retorica della decadenza.
Su queste basi il rilancio dell’idea internazionalista della rivoluzione sociale, superando quel “mundialismo” del tutto interno al pensiero unico che ha caratterizzato, per decenni, l’iniziativa di quello che fu definito “popolo di Seattle” e i connotati di apparente contestazione presentati nell’occasione delle manifestazioni sul G8 di Genova nel 2001 e che ha causato il tracollo della sinistra a livello sovranazionale, come ha ben dimostrato la fallimentare esperienza di governo in Grecia e il ritorno – necessitato – al keynesismo così come presente nelle istanze portate avanti da Jeremy Corbin con il Labour e da Bernie Sanders nel corso delle primarie democratiche degli USA.
Etica e critica per uscire, come già detto, dallo stato di minorità ricostruendo un pensiero alternativo di effettiva contrapposizione di sistema: la valutazione concreta delle contraddizioni operanti nella costruzione dell’insopportabilità delle diseguaglianze economiche e culturali della modernità potrebbe rappresentare la chiave di volta per costruire quella scala di valori che oggi è sfuggita completamente al pensiero dell’immediatezza del cannibalismo sociale e politico.
Fonte: Contropiano
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