di Eastasiaforum
La crisi finanziaria asiatica del 1997-1998 rappresentò un punto di svolta per il continente. La fiducia degli asiatici nel Fondo monetario internazionale (Fmi) e nella leadership statunitense nel prestare soccorso durante i periodi di crisi tramite le istituzioni globali ne uscì seriamente incrinata. La disillusione fu più profonda a Tokyo, Seoul, Bangkok e Jakarta. Pechino in quegli anni era ancora un ingenuo difensore dello status quo.
La crisi finanziaria globale di dieci anni dopo innescò le riforme del Fmi e del sistema di sicurezza finanziaria globale, che però devono ancora essere applicate pienamente. Se non verranno portate a compimento queste riforme – per correggere, all’interno del sistema di Bretton Woods, la marginalizzazione a danno delle potenze asiatiche emergenti – il sistema finanziario globale sarà vulnerabile in caso di esplosione in Asia – o di una sua amplificazione in Asia – della prossima crisi finanziaria.
L’incertezza e la presenza del pericolo – mentre la Cina è alle prese con la sua integrazione finanziaria nell’economia regionale e globale – ingigantiscono questo rischio.
L’incertezza e la presenza del pericolo – mentre la Cina è alle prese con la sua integrazione finanziaria nell’economia regionale e globale – ingigantiscono questo rischio.
Dalla metà del 1997, con la Thailandia, l’Indonesia e la Corea del sud incapaci di difendere le proprie valute al collasso dalla fuga di capitali, si ingigantì il debito denominato in dollari Usa, il valore delle azioni precipitò e questi paesi di fatto divennero insolventi. Altri paesi della regione non furono colpiti con altrettanta durezza, ma la crisi scosse l’Asia e la mise in ginocchio con un crollo dei redditi superiore a quello patito dai paesi industrializzati durante la Grande depressione degli anni ’30.
Il Fmi intervenne per arginare la diffusione della crisi ma l’aiuto offerto all’Asia fu tardivo e la medicina somministrata amara, con l’imposizione di dure e – col senno di poi – inutili condizioni che causarono pesanti effetti collaterali. La crisi finanziaria globale un decennio più tardi vide l’adozione di politiche molto diverse nei confronti delle economie nordatlantiche. Forse la lezione della crisi finanziaria asiatica era stata imparata, o forse a determinare questa differenza di approccio fu soprattutto il peso delle potenze nordatlantiche nel Fmi e nelle istituzioni globali.
Per l’Asia la lezione fu che doveva costruirsi le sue difese e la sua assicurazione contro le crisi. Le economie asiatiche hanno proceduto accumulando grandi riserve di valuta estera (aumentate di circa dieci volte rispetto al periodo precedente la crisi finanziaria asiatica) fino agli attuali 11.000 miliardi di dollari Usa complessivi – per difendersi contro shock finanziari e fuga di capitali. Le economie del continente hanno anche provato a rafforzare la cooperazione regionale e a gettare le basi per istituzioni regionali a protezione di shock finanziari futuri. La proposta giapponese di un Fondo monetario asiatico rappresentò un passo troppo lungo, ma la Chiang Mai Initiative (CMI) – una serie di accordi di scambio valutario tra vari Stati – venne istituita nel 2000. Nel 2010 la CMI venne resa multilaterale, in modo che ogni membro potesse fare affidamento sui fondi in caso di crisi.
Finora nessun paese della regione ha attinto ai fondi accumulati dalla CMI che, nonostante abbia raddoppiato la sua dotazione, portandola a 240 miliardi di dollari Usa nel 2014, non è ancora in grado di soccorrere le grandi economie della regione in caso di crisi. L’Asia non può, né dovrebbe, fare affidamento soltanto su accordi regionali. E d’altro canto il Fmi – nella sua attuale composizione – non può coprire il mondo intero.
Il costo opportunità di mantenere massicce riserve di valuta estera è grande. I buoni del Tesoro statunitense possono rappresentare un investimento sicuro, ma il guadagno è scarso, mentre i fondi potrebbero essere impiegati in investimenti maggiormente produttivi. Il ricorso ai Treasury bill inoltre esaspera l’eccesso di risparmio e i surplus di bilancio. E, anche in momenti di crisi, i paesi esitano a utilizzarli: nessuna tra le principali economie di mercato emergenti ha toccato le sue riserve di valuta estera durante la crisi finanziaria globale.
Ma se manca la fiducia in una rete di sicurezza globale, ci sono poche altre opzioni rispetto a quella di mantenere migliaia di miliardi di dollari Usa in riserve di valuta estera.
Per difendere la propria moneta, la Cina sta subendo un’emorragia delle sue riserve di valuta estera, con perdite di 100 miliardi di dollari Usa al mese. Sebbene sia probabile che questa situazione si stabilizzerà, permarrà l’incertezza su come affrontare i rischi del mercato finanziario cinese e della futura liberalizzazione del conto capitale.
L’Asia ha bisogno di una rete di protezione finanziaria, anche perché l’attuale serie di rimedi – l’accumulazione di riserve di valuta estera, gli scambi bilaterali di valuta e la CMI multilateralizzata – risultano inadeguati. Né il Fmi possiede la liquidità per affrontare una grande crisi finanziaria asiatica.
Le riforme prescritte per il Fondo monetario internazionale e sulle quali si raggiunse un accordo nel 2010 – subito dopo la crisi finanziaria globale – mirano a evitare grandi crisi in futuro. Sono state varate alla fine dell’anno scorso dal Congresso statunitense e attualmente sono in fase di implementazione. Ma cinque anni di gap (tra lo scoppio della crisi e l’avvio delle riforme, ndt) hanno prolungato la dipendenza da alternative costose. Ora, con l’applicazione delle riforme, sono state cambiate le quote e i voti, affinché riflettano meglio la struttura dell’economia globale. Ma c’è ancora molto da fare. Il Fmi non ha, né in prospettiva sembra poter avere, risorse e un raggio d’azione adeguati, a meno che non possa servire da catalizzatore di cooperazione regionale o di altra natura.
Nell’articolo di apertura di questa settimana, Adam Triggs sostiene che la rete di protezione finanziaria globale “è troppo frammentata a causa del notevole incremento di meccanismi bilaterali, regionali e nazionali che sono sempre più sganciati dal Fmi”.
La rete di protezione finanziaria globale – suggerisce Triggs – è anche “troppo poco reattiva, perché questa frammentazione ha ridotto la sua velocità, flessibilità, copertura e consistenza nel rispondere alle crisi”. Ed è troppo piccola, rispetto alle dimensioni del sistema finanziario globale.
In assenza di un’adeguata rete di sicurezza finanziaria, c’è meno fiducia nell’integrazione finanziaria nell’economia globale e nel cogliere i benefici dell’apertura. La forza della WTO ha incoraggiato l’integrazione commerciale; e per l’integrazione finanziaria è necessario un Fmi forte e credibile. Il miglior modo di condividere i rischi è a livello globale, specialmente per come l’integrazione finanziaria ha fin qui proceduto.
I meccanismi regionali giocano un ruolo importante ma, per essere efficaci, deve esserci coordinamento con il Fmi. L’Asia, lasciata sola con i dispositivi che ha finora messo in piedi, avrebbe difficoltà a mobilitare le risorse o imporre le condizioni di cui i paesi vicini avrebbero bisogno per affrontare una crisi finanziaria. In Europa è risultato difficile mobilitare le risorse e negoziare una exit strategy come ha dimostrato il caso greco – in una regione con molta più fiducia e cooperazione politica.
L’accesso a un soccorso finanziario prima che scoppiasse o si diffondesse ad altri paesi, avrebbe contenuto la crisi finanziaria asiatica. Triggs spiega che mettere a disposizione attraverso il Fmi strumenti finanziari di precauzione apporterebbe maggiore flessibilità e rapidità alle risposte in caso di crisi.
Ma affinché il Fmi sia davvero efficiente le economie di mercato emergenti dovrebbero ottenere più voce in capitolo. Ora hanno avuto più quote e diritti di voto (fino a poco tempo fa la Cina aveva le stesse quote e diritti di voto dell’Australia). Presto le economie di mercato emergenti saranno meglio rappresentate anche nei consigli elettivi. La riforma delle quote era rimasta bloccata a causa della resistenza politica interna agli Stati Uniti, ma alla fine è apparso chiaro che è nell’interesse degli americani proteggere meglio la loro economia attraverso un sistema finanziario globale più forte.
Ma senza una rete di protezione finanziaria globale più ampia e integrata il pericolo incombe. L’agenda di riforme è chiara. Il G20, il comitato a capo dell’economia globale, quest’anno è guidato dalla Cina e l’unico modo in cui la Cina può condurlo è collettivamente, coinvolgendo le maggiori potenze per correggere insieme proprio quelle istituzioni globali che ancora dominano.
Il G20 si è dimostrato maggiormente efficace quando le grandi potenze hanno risposto assieme all’ultima crisi finanziaria. È arrivato il momento di agire per scongiurare la prossima.
Fonte: cinaforum.net
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