La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 17 giugno 2016

Riforme strutturali: l’attacco dell’Europa al mondo del lavoro

di Sergio Farris
L’impetuosa reazione dei sindacati e di parte della società civile francese alle nuove norme sul lavoro approvate dal governo Valls deve richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul significato delle riforme strutturali nell’Unione europea. Fra queste, le riforme del mercato del lavoro sono quelle sulla quale le istituzioni comunitarie pongono la maggior insistenza, specialmente da quando è sopravvenuta la “grande recessione”. Secondo la vulgata corrente, tali riforme sarebbero gli strumenti per mezzo dei quali riuscire a ricondurre il nostro continente sul sentiero della crescita, così da perseguire il prodotto potenziale. Essendo la competitività uno dei fondamenti della teoria neoliberista, la quale informa l’operato delle istituzioni europee, parlare di riforme del lavoro significa, inevitabilmente, parlare del suo costo.
Per riforme strutturali del mercato del lavoro si intende una panoplia di interventi rivolti a rimuovere ostacoli che, secondo i suoi sostenitori, impedirebbero al naturale meccanismo di funzionamento del mercato stesso di operare sul costo del lavoro e dispiegare i suoi effetti sull’occupazione.
Al centro dell’approccio teorico dominante vi è il cosiddetto equilibrio naturale di disoccupazione in una economia di mercato. In una situazione di elevata disoccupazione, le variazioni dei salari e, a seguire, dei prezzi, dovrebbero condurre, mediante una serie di effetti sui mercati, ad una convergenza del sistema economico verso il cosiddetto livello di “disoccupazione naturale”.
In particolare, una riduzione dei salari monetari dovrebbe comportare una riduzione dei costi di produzione e, di conseguenza, un calo dei prezzi, dal quale dovrebbero derivare:
un aumento del potere d’acquisto dei redditi e quindi un aumento della domanda di beni e servizi (effetto saldi reali);
una diminuzione dei tassi d’interesse e dunque un aumento degli investimenti;
un incremento della competitività delle merci esportabili grazie a un relativo irrobustimento della domanda proveniente dall’estero.
Rilanciando le spese e la produzione, questi tre effetti dovrebbero riportare il sistema in equilibrio. Stando a questa teoria, dunque, una crisi economica come quella attuale provocherebbe un allontanamento momentaneo del sistema economico dal suddetto “equilibrio naturale”, ma lo stesso sistema dovrebbe contenere in sè gli anticorpi che dovrebbero consentirgli in breve tempo di fuoriuscire dalla congiuntura negativa. Gli anticorpi sarebbero appunto i movimenti dei salari e dei prezzi. Il fatto che il sistema economico possa fare affidamento sull’azione spontanea dei suddetti effetti equilibratori, limita, sul piano teorico, l’opportunità di un incisivo intervento pubblico.
Vi possono essere, tuttavia, delle vischiosità che intralciano il naturale meccanismo di funzionamento dei mercati e che giustificherebbero determinate tipologie di interventi politici. Infatti, i meccanismi spontanei che tendono a riportare i mercati in equilibrio possono incontrare vari ostacoli e possono rivelarsi molto lenti. Ad esempio, anche in presenza di elevata disoccupazione, le organizzazioni dei lavoratori potrebbero, in sede contrattuale, opporsi a riduzioni salariali.
In presenza di rigidità, è possibile riconoscere un qualche (temporaneo) ruolo a politiche monetarie e fiscali espansive le quali, possono rivelarsi utili allo scopo di far tornare più celermente l’economia verso il cosiddetto “equilibrio naturale”. Però, si ritiene, tali politiche di espansione della domanda non possono modificare strutturalmente “l’equilibrio naturale”. Una riduzione della disoccupazione è possibile, ma richiede un altro tipo di politiche, che anziché puntare su stimoli dal lato della domanda, rimuovano gli ostacoli alla concorrenza sui mercati e, in particolare, riducano il potere dei sindacati in materia di lavoro. Sono queste le famose riforme strutturali.
In sostanza, in base alla tesi prima menzionata, si sostiene che una deflazione salariale avrebbe effetti positivi nell’affrontare la crisi. Una riduzione delle tutele dei lavoratori, come previsto ad esempio nel nostro “Jobs Act”, abbassa il salario reale derivante dalla contrattazione, quindi provoca deflazione e per questa via dovrebbe accrescere la domanda di merci, la produzione e l’occupazione.
Questo impianto concettuale spiega, da un lato, il tardivo interventismo (di carattere soprattutto monetario, ma anche nella forma assunta del seppur “vago” piano Juncker per gli investimenti) in ambito comunitario dopo la gestione estremamente austeritaria della crisi, e dall’altro, il ferreo liberismo sul versante del mercato del lavoro con i costanti richiami, appunto, a riforme strutturali rivolte a mettere in discussione i diritti dei lavoratori e a mettere pressione verso il basso sui salari.
In risposta alla crisi dell’Unione europea, in paesi quali Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna (ma anche in paesi esterni alla zona euro) diverse caratteristiche della legislazione sul lavoro e del sistema di relazioni industriali sono stati modificate. In altri, come appunto la Francia, sono in corso di rivisitazione.
La Commissione europea, anche nel 2015, ha inviato a diversi paesi della UE (fra cui non a caso, la Francia) raccomandazioni che li esortatano all’effettuazione di vari interventi in materia di lavoro quali:
l’allineamento dei salari alla produttività mediante la flessibilizzazione dei salari alle condizioni economiche generali (cosiddette “compatibilità”);
decentralizzazione del sistema di contrattazione salariale, spostandolo dal livello nazionale al livello aziendale;
revisione del salario minimo, nel senso di una sua riduzione rispetto a una data percentuale del livello retribuivo medio.
In tutti i casi e per tutti i paesi nei cui confronti la Commissione indirizza le sue raccomandazioni, le motivazioni vertono costantemente intorno alle presunte necessità di armonizzare la produttività al costo del lavoro (presupponendo che il costo unitario di questo sarebbe troppo alto), di tenere a bada gli incrementi del salario minimo per evitare effetti distorsivi per il mercato del lavoro, nonché di insistere sulla moderazione salariale per assicurare la “competitività di costo” del sistema.
Riguardo alle suddette modalità di attuazione delle riforme strutturali, va detto che, per quanto attiene all’allineamento dei salari reali alla produttività, fra il 2008 e il 2014, nella UE si è registrato in media un ritardo dei salari rispetto alla produttività (è sceso, in genere il rapporto fra compenso reale lordo per addetto e produttività intesa come prodotto interno lordo per persona occupata). Soltanto nel 2015 vi è stato un modestissimo recupero (meno del 2%), “aiutato” in parte, peraltro, dal contesto deflazionario.
Negli intenti della Commissione europea, vi deve essere una differenziazione negli incrementi salariali fra settori ed all’interno degli stessi settori. Il punto di riferimento deve essere la produttività rilevata a livello aziendale e non al livello nazionale. Ciò, però, conduce facilmente a una crescente diseguaglianza fra i livelli retributivi dei lavoratori impiegati in aziende e settori dove la produttività è maggiore e i livelli retributivi di lavoratori impiegati in aziende e settori dove la produttività è inferiore, con un impatto negativo sulla crescita e sull’occupazione.
Per quello che attiene al sistema di contrattazione, la decentralizzazione tende a indebolire la contrattazione collettiva e a lasciare maggior spazio alla contrattazione aziendale. Questo ha portato, in paesi come ad esempio la Grecia, a una netta riduzione, fra il 2008 e il 2014, della conclusione del numero di contratti collettivi (da 230 a 22) e a un incremento della contrattazione decentrata. Nel solo anno 2012, oltre tre quarti dei 976 contratti stipulati a livello decentrato hanno previsto tagli del salario. La priorità degli accordi di impresa su quelli di categoria è, non a caso, uno dei punti qualificanti della loi travail francese.
Per quanto riguarda inoltre il salario minimo, solo 9 dei 28 paesi della UE (fra cui ancora la Francia) detengono un livello di salario minimo che si attesta (poco) al di sopra del 50% rispetto alla retribuzione nazionale media. Detta soglia del 50% rappresenta, secondo l’indice Kaitz utilizzato dall’OCSE, il livello al di sotto del quale un lavoratore può essere considerato povero. Eppure, nelle sue raccomandazioni ai paesi interessati, la Commissione chiede revisioni al ribasso.
È palese dunque che, nonostante la natura della crisi che ha investito la UE e nonostante la situazione sopra delineata, i vertici delle istituzioni europee persistono nel ritenere che a provocare la disoccupazione del fattore lavoro sia un eccesso del salario reale di mercato rispetto al livello di equilibrio corrispondente al pieno impiego e che vi siano altresì delle rigidità che impediscono ai meccanismi di mercato il loro naturale funzionamento. Non deve sorprendere che simile ottusità provochi reazioni veementi, come quella dei lavoratori francesi, e disaffezione verso le stesse istituzioni comunitarie.
Anche perchè, a diversi anni dall’inizio della crisi, i risultati ottenuti nei paesi dove le politiche di “svalutazione interna” del lavoro sono state implementate più intensamentesono piuttosto deludenti. Di fronte a una riduzione salari reali in Grecia del 23% la disoccupazione è ancora al 25% per cento; nonostante una riduzione dei salari reali del 7% in Spagna, il tasso di disoccupazione è ancora del 22%.
Indagando la natura degli squilibri fra i paesi all’interno dell’Unione monetaria europea,Servaas Storm ha spiegato che non ha molto senso puntare su guadagni di competitività via riduzione del costo unitario del lavoro: «La concorrenza nei mercati oligopolistici del mondo reale non può essere ridotta ad una semplice concorrenza sui costi; e se proprio si vuole insistere nel mettere a fuoco i costi unitari del lavoro, allora non c’è ragione per cui non si dovrebbe guardare anche ai costi unitari del capitale (o ai margini di profitto); le imprese oligopolistiche potrebbero pure competere sui margini di profitto».
Inoltre, «l’elasticità dell’export/import ai fattori di costo tende ad essere molto più piccola (in termini di dimensioni assolute) della corrispondente elasticità di prezzo, a causa del fatto che (a) i costi salariali rappresentano solo circa il 22% dei costi totali di produzione; e (b) le imprese quando fissano i prezzi scaricano su questi ultimi più o meno solo la metà dei costi salariali più alti. Ciò significa che ad una elevata elasticità di prezzo all’export di -1,2 corrisponde una molto più piccola elasticità al costo unitario del lavoro di (circa) -0,13. Quindi, per spingere verso l’alto le esportazioni (reali) di uno scarso 2% i salari nominali dovrebbero diminuire di ben il 15% (supponendo che la produttività rimanga invariata). È come dire che la coda scodinzola il cane».
Se questo è il quadro della situazione e ciascun paese della UE deve soggiacere al suddetto tenore di riforme in materia di lavoro, è evidente che l’ottica delle istituzioni europee marca una distanza abissale rispetto al riconoscimento della rilevanza del salario quale mezzo per la coesione sociale e per lo stimolo della domanda interna nei singoli paesi.
In completa sintonia con i dettami del liberismo finanziario globalizzato, cercando di rendere i vari ambienti nazionali appetibili per gli investitori privati, si spera di favorire e attrarre afflussi di capitale. Il principale elemento delle crisi.

Fonte: Oneuro Eunews

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