La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 18 giugno 2016

La sinistra, la partecipazione e De Magistris


di Bruno Montesano 
Secondo l’analisi di molti attivisti e giovani politici indaffarati con il processo costituente di Sinistra italiana, la disfatta della sinistra a Milano, Torino e Roma è ascrivibile a un cattivo processo politico. Napoli, e in misura minore Bologna, invece, sarebbero dei successi per la capacità di mettere in moto dei processi partecipativi, assembleari, orizzontali, aperti alle contaminazioni e quindi positivi, e, dall’esito di De Magistris, vincenti. Dall’altro lato invece abbiamo il processo partitico, burocratico, pattizio, dove prevalgono logiche spartitorie, verticali e in fin dei conti perdenti. Dunque sarebbe il solito problema delle forze dal basso che se canalizzate o lasciate libere di sconvolgere le vecchie logiche della triste sinistra riuscirebbero a creare esperienze vincenti e di qualità.
La qualità è premiata, è il sottinteso. Questa analisi, però, si fa praticamente ogni volta che in Italia si voti e, come ogni analisi sempre uguale, va bene sempre e perciò non serve a nulla.
Non serve a nulla perché istituisce una contrapposizione manichea tra i partiti della sinistra vendicativa e le forze giovani, spontanee e libere, dei movimenti.
E così ci si chiede dove sia l’autocritica. Possibile che i movimenti che partecipano alle competizioni elettorali (ma anche quelli che si astengono dal farlo) trovino il loro unico ostacolo nelle oscurantiste forze della sinistra politica? È evidente che i centri sociali e le organizzazioni che fanno politica fuori dalle istituzioni siano l’ultimo spazio sul territorio che sia rimasto, pur fra mille contraddizioni, a lottare e a provare a rendere la vita delle persone meno misera. Spesso lì si riesce a dare risposte alle domande ormai inevase dal welfare e a creare partecipazione su dei conflitti concreti. Ma è la politica che mettono in campo ad essere positiva. Sulle pratiche invece forse bisogna smetterla con l’autorappresentazione.
A oggi non ci sono molte tracce di fenomeni che vedano conflitto e partecipazione andare insieme in Italia. Pur essendo questi attivisti molto più a contatto con le persone di quanto possano esserlo quelli dei partiti. Forse perché è difficile strappare alla solitudine le persone o portarle a individuare i nemici nell’alto e non nel basso. La frustrazione e il malessere vengono rivolti sempre più, orizzontalmente, verso i migranti con cui si condivide, oltre alle difficoltà della convivenza, il quartiere e la povertà. Chi fa politica in quei quartieri fa da argine provando a verticalizzare il conflitto. Ma la situazione, dove non è già diventata drammatica barbarie xenofoba, sta precipitando. Forse anche perché la partecipazione e l’orizzontalismo sono agitati come dei feticci. I comitati di quartiere possono essere luoghi di elaborazione critica e propositiva. ma possono anche essere i luoghi dove si organizza come far cacciare i minori migranti accolti in un centro di accoglienza.
Alcuni osservatori politici di movimento e non, invece, giustamente, si interrogano sui flussi di voto, vedendo che le zone, e i ceti che le popolano, e le forze politiche che dovevano rappresentarle si sono invertiti. Nel centro città vincono sinistra e centro sinistra e in periferia destra e Cinque Stelle.
E, posto che queste zone sono sicuramente più popolate dalle sinistre di movimento che da quelle partitiche, il problema dell’incomunicabilità delle proprie posizioni ai soggetti sociali di riferimento è ciò intorno a cui dobbiamo lavorare. E su questo, pratiche e comunicazione sono temi nodali.
Pertanto, chi, leggendo le amministrative, parla di necessità di pratiche diverse, nuovi metodi, mutamenti nell’approccio all’agire politico e alla convivenza con altre forze politiche a sinistra del Pd, invece di parlarne, potrebbe iniziare a praticarli nei suoi spazi.
Ciò che infastidisce infatti è la riproduzione della mitologia delle assemblee in cui si decide qualcosa insieme e in cui la volontà dei leader(ini) non è determinante. È la finzione che per lo più le questioni rilevanti non si facciano a margine degli incontri pubblici. O prima. Il rapporto fruttuoso con il mondo esterno ai partiti poi, spesso, è elogiato non per le capacità di allargamento o di ricezione delle istanze ma per il riconoscimento dato ai pochi esponenti di lotte.
Insomma questa storia dell’orizzontalismo come panacea di tutti i mali ha stancato. O meglio sarebbe la storia più interessante da raccontare, se chi la predicasse ci credesse e iniziasse ad aprire la strada, uscendo dalle pratiche consolidate. Infatti l’orizzontalismo è spesso evocato ma poi si riproducono le stesse logiche dei partiti in scala ridotta. Ma con una minore attenzione mediatica, poiché giornali e tv, per fare il loro lavoro di disinformazione, usano altre tecniche, come quella del non parlare affatto di mobilitazioni e conflitti dal basso o di farlo solo quando è comodo, con la violenza, gli scontri eccetera. Spesso, infatti, nei movimenti si ha modo di riscontrarvi il dominio dei formalismi, fatti valere solo quando servono contro un nemico, e dimenticati quando violati da un amico. Poi ci sono i posizionamenti, come se si lottasse per l’egemonia di grandi forze, quando a stento si riesce a sopravvivere. Ci sono gli identitarismi, a volte fatti valere con pratiche muscolari, altre con permalosità. E c’è il leaderismo, malattia infantile dell’attivismo.
I movimenti, da che dovrebbero essere i luoghi del conflitto e della democrazia, così accade che talvolta si trasformino nel loro opposto. Magari il conflitto rimane, perché si cela la propria debolezza con la radicalità delle pratiche o l’inconsistenza delle analisi con la nettezza dei giudizi. E torna in mente l’articolo saggio del ’69 Contro la falsa coscienza del movimento studentesco. Non molto è cambiato, pare, tra noi. Fuori sì. Ma i vizi di allora, in larga parte, sono i vizi di oggi.
Si è sempre fatto così, non c’è molto da fare per mutare queste prassi. Chi non si adegua sogna. È ingenuo. Non sa fare politica. Bisogna adattarsi. Perché è la dura legge del politico. Eppure qualcosa non va. Lo scoramento e le domande sono quelle di A chi esita di Brecht.
“Siamo sempre di meno. Le nostre/ parole d’ordine sono confuse.Una parte / delle nostre parole / le ha stravolte il nemico fino a renderle / irriconoscibili.” Dice Brecht.
Non è solo un problema di pratiche. Il mondo novecentesco è esploso. I riferimenti sono invertiti. Siamo irriconoscibili. Quale sia l’identità di chi lotta e per chi si lotta non è affatto scontato, ormai. Però almeno la si smetta con la retorica del mondo sano dell’attivismo nella città malata della politica dei partiti. O, se si vuole, si continui, ma cambiando le pratiche. Per allargarci e creare vera partecipazione.
Tra l’altro dire che il problema sia la mancanza di partecipazione nella costruzione di progetti politici credibili e al contempo dire che De Magistris rappresenti invece un modello sotto questo aspetto positivo non è molto convincente. De Magistris, infatti, pare che, al netto delle aperture a sinistra alle diverse realtà sociali napoletane, piuttosto che distribuire il potere lo abbia accentrato. È vero che si sta muovendo qualcosa in città, con Massa critica e le assemblee nelle municipalità. Ma siamo all’inizio. Sono semi a cui devono seguire dei meccanismi concreti che realizzino, o quanto meno considerino, mediando, ciò che lì si discute.
Per quanto positivo, non basta candidare nelle liste degli attivisti del movimento. Candidature affrontate con superficialità da Saviano, che le ha bollate come avanguardie di Hamas e, in generale, da “Repubblica” che li ha infilati, a causa di condanne per lotte sociali, tra gli impresentabili accanto a camorristi e corrotti. Ma era stato Stefano Folli, con la sua storia sui centri sociali infiltrati dalla camorra, a darci l’ennesima riprova della miseria in cui i media c.d. progressisti sono sprofondati.
Infatti, pur essendo assolutamente positiva la realizzazione dei referendum del 2011, non basta istituire delle assemblee, di cui è legittimo dubitare in merito all’efficacia, che discutano di come gestire le risorse idriche. Non basta se si espellono assessori in quanto dissenzienti. Non basta se al contempo si concentrano su di sé tutte le deleghe (21) dei defenestrati. Non basta se si è troppo sicuri di detenere la verità. Non basta se ci si lancia in inutili invettive campaniliste in cui si contrappone “il municipalismo ribelle” napoletano al Granducato di Toscana.
In questo periodo l’Idv ha raccolto circa un milione di firme per garantire la difesa armata contro chi entra in casa. Certo l’ex pm De Magistris non condivide queste derive da giustizieri, ma questo è diventato il partito da cui proviene. A metà mandato, non avendo un partito, da sindaco, quando si è trovato solo, espulsi i primi assessori, ha guardato in alto (a Renzi), ma trovando l’accesso sbarrato, ha dovuto volgere lo sguardo verso il basso (ai movimenti), con la proficua interlocuzione con l’Asilo e le altre realtà “liberate” napoletane.
Ciononostante Napoli è l’unica città che dia qualche speranza politica a questo paese perché il suo sindaco, oggi, è a capo di un ampio schieramento di forze, ha un robusto consenso alle sue spalle, innova e ha una visione politica complessiva fortemente in rotta con le politiche renziane e europee. Ciononostante è un populista, un leader carismatico, un cesare democratico (per dirla con Galli della Loggia, che però parla di Sanders). E lo diciamo non per svilire il personaggio ma per fare un discorso franco, perché bisogna discutere. Per non innamorarci del nuovo personaggio politico alla moda e dopo un anno scaricarlo delusi.
Il tema del populismo è centrale nella riflessione politica contemporanea. Però non si sposa proprio bene con il modello della partecipazione. A meno che di essa si abbia solo un’immagine scenografica, teatrale, virtuale. Buona per le fotografie sui giornali. O per le prediche post elettorali. E forse così si chiude il cerchio.
Podemos infatti è dilaniata tra chi crede un po’ di più nella discussione collettiva e chi nelle capacità del capo. Eppure in Podemos si vedono entrambe le caratteristiche. Perché è una forma politica spuria? Certo, ma anche perché c’è una forte idea di comunicazione dietro. E quindi si fa passare per quel che non è un fenomeno che interpreta bisogni diversi. Giustamente Nencioni sul manifesto di circa un anno fa distingueva tra populismo dall’alto e dal basso. Quello dall’alto – mediatico – rappresenta gli interessi delle élites, camuffandoli e attribuendo al “popolo un ruolo passivo” (Renzi). Quello dal basso – populismo in senso stretto – catalizza delle spinte esistenti nella società a favore dei ceti popolari utilizzando un leader come sintesi e portavoce (De Magistris).

Si ringrazia Maurizio Braucci

Fonte: Lo straniero 

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