La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 17 giugno 2016

Addio. Il romanzo della fine del lavoro

di Angelo Ferracuti
Era da un po’ di tempo che avevo intenzione di scrivere un lun­go reportage narrativo sulla crisi che tutti stavamo vivendo, e all’inizio avevo pensato di fare un «Viaggio in Italia» nei luoghi del disagio e della desertificazione industriale. Il racconto domi­nante allora era quello retorico dei produttori, cioè raccontare chi ce l’aveva fatta o ce la stava facendo, e andava molto di moda questa parola, resilienza, cioè capacità di resistere e reinventarsi all’ineluttabilità delle dinamiche del neoliberismo, la formazione assistenziale, mentre io volevo raccontare, come nella migliore tradizione letteraria di impegno civile, proprio chi non ce l’aveva fatta e stava affondando, chi non arrivava alla fine del mese, lo stato di apnea sociale invisibile. Capii presto che la mia impresa sarebbe stata troppo dispendiosa e dispersiva, poco praticabile, e per un certo periodo abbandonai l’idea quasi del tutto.
Ma i libri sono dentro agli autori ancora prima di essere scritti, e continuavo a pensarci ossessivamente, cercando una strategia per realizzare il mio progetto e tornare presto alla carica. Ripensavo a quella frase illuminante di Pier Paolo Pasolini detta nel corso della sua ultima intervista a Furio Colombo prima di essere barbaramente ucciso: «Smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna». Mi sembrava l’unica cosa da rac­contare, anche una forma di ribellione nei confronti del pensiero dominante, quello del marketing che chiamano storytelling, che artatamente racconta sempre un’altra storia, eludendo qualsiasi conflitto, che è sempre tra capitale e lavoro. «Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco, io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là» diceva ancora il Corsaro. Mi sembra di vivere in un tempo dove moltissimi spostano lo sguardo per convenienza e per comodità proprio come quella marionetta.
In fondo le cose si possono mettere a fuoco anche in un luogo solo, in un bit antropologico, piccolo o grande non importa, al sud, al centro, al nord di un paese, c’è tutto ovunque, basta saperlo cercare, quindi dovevo scegliere un luogo solo e farlo diventare simbolico. Fu in quel momento, credo, che mi tornarono in mente Carbonia e il Sulcis-Iglesiente e cominciai a fare delle ricerche, e poi a partire. Questo è il mio modo, cioè tornare nei luoghi moltissime volte, una lenta e progressiva messa a fuoco. Cominciai come sempre a guardare i film e documentari girati in quelle terre, dai libri, m’imbattei nella storia di questa città nata in un anno e del suo carbone povero, m’appassionarono subito le sue cicliche crisi, così come gli abitanti di una cittadina molto popolare, fatta di ceti bassi e priva di borghesia dove c’è ancora quello che una volta si chiamava «il popolo». Per me tornare nei luoghi significa sempre colmare qualcosa che è a metà tra la curiosità antropologica e lo studio, cercare di capire perché un luogo si è sviluppato in un certo modo e quale significato assu­me nel presente, ma cerco anche un rapporto profondamente corporale, raccontando ai modi del flâneur, non da esperto.
A Carbonia e dintorni capii che c’era tutta la storia di un secolo, che valeva la pena ricomporre e rinominare, c’erano ancora i resti di un’epica memorabile, quella del Germinale di Zola, della cittadina mineraria che visitò Orwell nel Nord dell’Inghilterra, Wigan Pier, il villaggio belga del Borinage dove il giovane Van Gogh abitò, come c’era ancora una classe operaia irriducibile che saliva per protesta sui silos, metteva in moto una mobilitazione permanente, bloccava i traghetti e gli aeroporti. Coesa, solidale, proprio come quella raccontata da Cronin in alcuni suoi libri memorabili.
Libri come questo non hanno un inizio e una fine, prendono forma strada facendo, e quella forma cambia inevitabilmente molte volte. Quindi l’inizio fu il racconto del passato, ricolle­gare il presente a quell’epica, il sacrificio e il dolore di questa gente, l’emancipazione e la lotta, i primi scioperi repressi nel sangue; poi ciò che restava di quella classe operaia, frantumata e massacrata dalla chiusura delle miniere e dal declino del polo industriale dell’alluminio, anche se mi interessava soprattutto raccontare cosa succede quando finisce il lavoro, cosa può pro­durre tutto questo dentro la vita delle persone, il senso di disa­gio e di angoscia esistenziale, la perdita e il gorgo. Cioè quello che in genere non si racconta o si racconta in modo spettacolare o ineluttabile, mentre a livello esistenziale cambia tutto, nono­stante la diversità tra impoverimento e povertà reale, che è uno spartiacque importante tra chi vive qui e chi viene dai paesi del Sud del mondo.
Per un certo momento, come capita quasi sempre, pensai che dovevo scrivere un libro sulla sofferenza e le lotte dei figli e dei nipoti di quelli che qui avevano sviluppato lungo un secolo quella che una volta veniva chiamata lotta di classe.
Il paradosso è che in questo racconto collettivo viene fuori quasi la nostalgia per quel passato che è stato darwiniana lotta per la sopravvivenza ma anche emancipazione politica, rispetto a un domani sempre più incerto, segnato dalla fine del lavoro e del futuro, soprattutto per le nuove generazioni. Per questo in un titolo forte come Addio convergono molti echi, letterari e sociali, un po’ cristallizza e compendia questa condizione di una umanità contemporanea che nel Sulcis-Iglesiente come altrove vive dentro una crisi che sembra invincibile. Addio, addio è anche il titolo di una struggente canzone di Domenico Modugno, che parla di emigrazione, «amara terra» e Meridione, «amara e bella» dice ancora. Un distacco e una rottura verso qualcosa di perturbante e sconosciuto che mina le fondamenta delle nostre esistenze, come è avvenuto in altre epoche, nei rac­conti appassionati degli scrittori dell’Ottocento come Dickens e London, oppure nei cantori della Grande depressione dei primi del Novecento come John Steinbeck, e libri come Sia lode ora a uomini di fama, scritto da James Agee e con le fotografie di Walker Evans.

Prima parte – Terra del carbone
Due castelli

Era scesa la sera davanti alla grande miniera, e stavo risalendo lentamente a piedi verso il paese quando vidi in lontananza gli scheletri arrugginiti dei due castelli degli ascensori. Fu come un’apparizione. Sembravano i totem di una civiltà sconosciuta e a guardarli, così imponenti, illuminati dalla luce misteriosa nel crepuscolo, netti e scurissimi con sopra le nuvole, m’in­quietarono parecchio. Potevi vederli spettrali da più parti e da molto lontano, a Carbonia, come un obelisco, un’acropoli, un monumento, un palazzo settecentesco, oppure una torre di guardia metallica che si alza verso il cielo e sopra tutto, con­trolla come un occhio sinistro l’abitato e la vita delle persone, le campagne e, sullo sfondo, il monte Sirai che la protegge coi suoi spalti verdi.
Avvicinandomi, questa sensazione aumentò, fin quando dal grande piazzale antistante alla miniera vidi anche le ruote den­tate, ossidate, depositate a terra come dopo un’esplosione, mar­chingegni di macchine che adesso potevo immaginare fossero state una volta mostruose e rumorosissime, fatte di meccanismi e ingranaggi capaci di produrre vibrazioni, stridii metallici, turbinose accelerazioni acustiche come latrati di lamiere. Dove una volta c’era vita, c’era rumore, gente che camminava e parla­menti, un continuo movimento di corpi e di mezzi meccanici, e grida, tumulti, tonfi, adesso solo queste specie di rampe di lancio d’astronavi, che il buio e l’immaginazione stavano tra­sformando già in qualcosa di diverso. Quel senso di emozione che provai, la forte presenza di passato che non vuole passare, qui fortissima, era qualcosa di oscuro che non capivo, come gli istinti primari che provano i bambini, attratti dalle sensazioni più vergini e forti, come la potente, straordinaria voglia di vive­re, o il terrore della morte e della perdita, la forza assurda del destino. Le cose misteriose da cui non riesci a staccarti, anche se in quel momento ne ignori la ragione. Sono in genere quelle che ti spingono a tornare in un luogo molte volte, cercando di capire cosa vuole dirti, ascoltare e vedere nei tanti ritorni per placare quella sete di conoscenza che sai ti porterà a incontrare tante persone lungo il tuo cammino.
Continuavo a guardare le due costruzioni metalliche, intanto che mi allontanavo, risalivo verso la stazione ferroviaria coi suoi marmi bianchi, molto illuminata, e seguitavo a immaginare le epoche che qui passavano una dietro l’altra, confondevo sequenze di film visti in stagioni remote della vita in un bianco e nero gravido, libri letti e racconti orali di vita vissuta, mentre il vento scompigliava i capelli e affrettavo il passo in via Roma, quello stradone lunghissimo che porta in alto al paese, s’innerva come una spina dorsale.
Quando mesi più tardi avrei ripensato a quel luogo, mi sarebbero tornati sempre in mente loro, i due castelli spettrali che avevo visto per la prima volta quella sera, come reperti archeologici di un mondo lontano, nel quale gli uomini per sopravvivere erano costretti a scendere e strisciare come topi negli inferni terrestri, nelle viscere più ignote. Mentre continua­vo a camminare, pensai a come dovevano essere le sere un po’ nebbiose come quella, la fila di minatori tutti con in testa ben calcati gli elmetti, le tute grigie slabbrate e le ultime sigarette incollate alla bocca, oppure che fischiettavano, o parlottavano tra di loro, raccontavano qualcosa che era successo in quei gior­ni, in mano le lampade, mentre raggiungevano l’entrata degli ascensori, e calavano dentro le gabbie metalliche a fortissima velocità, quasi in caduta libera. Scendevano negli abissi, schiac­ciati uno sull’altro, inghiottiti dalla terra e dal buio, come se ogni giorno dovessero entrare e uscire dalle tenebre, qualcosa di ancestrale e di antico che ripetevano da generazioni come una maledizione, e pensai che molti di loro non riuscirono neanche più a rivedere la luce. Saltarono in aria con le mine, restarono schiacciati sotto le macerie di un crollo improvviso arrivato a portar via la vita, le carni martoriate e gli occhi spenti, la bocca serrata nel gelo della morte. Questo è quello che ho provato quella sera nel Sulcis, guardando quei castelli, mentre il buio stava cancellando ogni cosa.

È uscito in questi giorni per Chiarelettere Addio. Il romanzo della fine del lavoro, di Angelo Ferracuti. Questo estratto è l’introduzione e il primo capitolo.

Fonte: Le parole e le cose

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