La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 21 gennaio 2017

Inverno nei Balcani, dove è morta la democratica Europa

di Federica Maiucci
Negli ultimi giorni hanno fatto il giro del mondo le scioccanti immagini dei rifugiati in Serbia. Migliaia di persone sono attualmente costrette a vivere all'aperto, in edifici abbandonati, in tende di fortuna, senza acqua, cibo, assistenza, forniture igienico-sanitarie, con le temperature calate a picco verso i -20 gradi. Sono circa 8000 i rifugiati in territorio serbo, di cui solo 6000 ospitati in campi e strutture ufficiali (ma non sempre adeguate e attrezzate per l'inverno), e circa 2000 sono i disperati che affollano le strade di Belgrado. MSF denuncia le terribili condizioni in cui sono costretti a vivere, abbandonati a se stessi e alle temperature polari delle ultime settimane.
Oltre ai casi di ipotermia e di congelamento delle estremità degli arti, sempre più frequenti sono anche le intossicazioni per i fumi tossici inalati, poiché per riscaldarsi i rifugiati sono costretti a bruciare tutto quello che trovano. MSF e ong locali avevano da tempo avvertito l'UNHCR dell'arrivo di un inverno così rigido e del pericolo che le migliaia di persone non ospitate nelle strutture ufficiali, o ospitate in strutture inadeguate, avrebbero corso. Fa sbarrare gli occhi sapere che UNHCR aveva assicurato la presenza di sufficienti strutture a norma, e che l'inverno nei Balcani sarebbe stato affrontabile per tutti i rifugiati e i richiedenti asilo; invece sono stati in grado di fornire, a discapito dei milioni di euro con cui l'Europa li finanzia, solo coperte, tende e teli di plastica, ad oggi sepolti da uno strato di neve. Inoltre, circa due mesi fa il governo serbo ha pubblicato una lettera aperta rivolta a tutte le organizzazioni e ong attive in campo umanitario, proibendo loro di servire cibo ai migranti non registrati nei campi. Da allora, le organizzazioni locali non svolgono più una regolare attività di assistenza, le uniche ong rimaste attive sono internazionali o provenienti da altri paesi. Senza queste organizzazioni internazionali, i rifugiati non riceverebbero assistenza alcuna, né cibo, né acqua, né assistenza medica. Organizzare qualsiasi genere di attività umanitaria è di giorno in giorno più complicato: il governo non vuole che i rifugiati dimorino in campi di fortuna e quindi chiude i centri per attività diurne che supportano i migranti non registrati; in questo modo si tenta di scoraggiare la scelta di restare fuori dal sistema ufficiale, costringendo i rifugiati a registrarsi regolarmente avviando la procedura di richiesta di asilo.
Ma questa strategia è fallace da più punti di vista.
In primo luogo perché la Serbia, come la Grecia (dove la condizione dei rifugiati è ancor più critica), è stata lasciata sola a fare da cuscinetto all'Europa: i fondi che l'UE aveva stanziato per gestire l'emergenza migratoria sono arrivati più che dimezzati e mai rinnovati, motivo per cui meglio di così attualmente è difficile fare. I campi sono tutti già pieni, non c'è più spazio. L'annuncio dell'apertura di una nuova struttura di accoglienza attrezzata per l'inverno è arrivato negli ultimi giorni, ma la sua capacità si ferma a 700 persone, cifra del tutto insufficiente.
In secondo luogo, perché la quasi totalità dei rifugiati non è intenzionata a richiedere asilo in Serbia ma vuole raggiungere l'Europa, la propria famiglia, i propri amici, una nuova vita. La procedura legale prevede che la richiesta di asilo sia la condizione preliminare per essere accolti in un campo; la richiesta di passaggio in Ungheria prevede poi tempi di attesa giganteschi, che per le famiglie arrivano fino a 6 mesi, mentre per gli uomini soli vanno da 1 anno a 3 anni.
L'Ungheria ad oggi sta lasciando passare legalmente solo 10 persone al giorno. Tra queste, per gli uomini che viaggiano soli sono previsti 28 giorni in stato di fermo in centri di detenzione situati al ridosso del confine, per permettere alle autorità ungheresi di svolgere i controlli necessari a garantire che non vengano lasciati passare potenziali terroristi. Su quali basi venga deciso chi è un potenziale terrorista o meno resta un mistero; agli stessi detenuti non viene fornita alcuna traduzione (nemmeno in inglese) dei documenti legali che gli vengono consegnati. Dopo mesi di attesa, a un passo dall'avercela fatta, si può essere respinti indietro senza alcuna spiegazione. Il premier ungherese Orbàn ha inoltre recentemente dichiarato che, in seguito agli ultimi attentati, l'Ungheria non si impegnerà più nella ridistribuzione dei rifugiati ma che arresterà tutti, anche i richiedenti asilo, per garantire la “tutela della cultura e del popolo ungherese” attraverso l'arresto come prevenzione dagli attacchi terroristici.
In terzo luogo, l'accoglienza non è prevista per tutti: la differenziazione tra migrante economico e rifugiato divide i rifugiati in classi di importanza; siriani e iracheni possono passare, mentre chi proviene da Pakistan, Afghanistan, Bangladesh o Algeria quando prova a registrarsi presso la polizia si vede, nella stragrande maggioranza dei casi, negata la richiesta.
Si spiega quindi così la scelta (anche forzata) di molti rifugiati di non registrarsi affatto, sopravvivere come possono e tentare di attraversare la frontiera illegalmente. Molti di loro sono in viaggio da più di un anno e sono bloccati in Serbia da mesi, in un limbo fatto di attese, tentativi di attraversamento, respingimenti. Nonostante l'accordo UE-Turchia, la chiusura delle frontiere intermedie tra Grecia e Macedonia, Serbia e Bulgaria, e il muro innalzato al confine ungherese e croato, il flusso di migranti si è rallentato ma non interrotto.
Nei dintorni di Subotica (città serba vicino al confine ungherese) questa condizione di limbo si può osservare chiaramente. Un numero variabile di rifugiati, circa 200, sopravvive in condizioni disperate per mesi in questa zona, in attesa del momento giusto per passare la frontiera. Il campo ufficiale allestito fuori città è sovraffollato da tempo, e in ogni caso non accetta la maggior parte di questi uomini per i motivi sopracitati (per darne un'idea, ai non registrati non è permesso di entrare nel campo nemmeno per poter utilizzare le docce, anche solo una volta). Così si accampano dove possono: nella fabbrica di mattoni abbandonata, nei vagoni inutilizzati del deposito ferroviario, nella cosiddetta “jungle”, in tende da campeggio. In questa zona non ricevono assistenza alcuna da nessuno, eccetto che da un'organizzazione indipendente di volontari internazionali, Fresh Response, che ogni giorno agisce entro un confine labile tra legalità e illegalità per assistere nei bisogni primari ogni rifugiato distribuendo cibo, acqua, vestiti invernali, scarpe, sacchi a pelo, coperte, tutto ciò che è necessario per non lasciar morire di freddo e di fame nessuno. La polizia ostacola regolarmente il lavoro di questi volontari, in particolare quando la loro attività diventa troppo visibile, e regolarmente ha organizzato dei raid nella zona di Subotica, Horgoš e Kelebija per deportare quanti più possibili migranti irregolari a sud, lungo il confine macedone, dove un campo chiuso è stato allestito nella località di Presevo. Negli ultimi tre mesi ciò è avvenuto quattro volte: il 12 ottobre, quando 5 pullman sono stati riempiti; il 6 novembre, altri due pullman di rifugiati; il 23 novembre, quando è stata attuata una deportazione di massa, per la quale è stato utilizzato un intero treno. Quel giorno un centinaio di rifugiati sono riusciti a scappare, saltando giù dal treno in corsa; molti di loro riportano ancora gravi conseguenze di fratture e contusioni avute. L'ultimo raid è avvenuto lo scorso 11 gennaio, quando 167 persone sono state rimosse dalla zona di Subotica e Kelebija; le tracce della violenza con cui si è svolto quest'ultimo arresto si leggono nelle tende distrutte, stracciate da lame affilate, dalla rimozione totale di oggetti e persone. La scusa principale è il freddo: pur di non lasciare i rifugiati a congelare all'aperto, vengono deportati con la forza. Ma il campo di Presevo è un campo chiuso, ovvero dal quale non si può uscire. Questo comporta una pausa nel viaggio che può durare anche mesi, oltre che una spesa di denaro enorme per risalire verso nord.
La ragione principale delle deportazioni è che le autorità non vogliono che i rifugiati siano accampati in questa zona per evitare che essi tentino di attraversare la frontiera, premendo sul confine ungherese. Ma questa pressione, questa speranza di riuscire a farcela e di essere liberi non può essere fermata: i rifugiati continuano a tornare indietro da Presevo, ne arrivano di nuovi da Belgrado, ne vengono respinti indietro dall'Ungheria che poi ritentano nei giorni successivi. Ogni notte sono pronti per “the game”, andare in gioco. È infatti con questo termine che chiamano i tentativi di attraversamento: una volta presi gli accordi con i trafficanti di uomini al di là del confine, il gioco inizia con il taglio della rete; poi la corsa, nel gelo e nella neve, con la paura alle calcagna, fino al luogo dell'appuntamento. I fortunati che ce la fanno, saltano in macchina e il viaggio prosegue. Ma molto più spesso, per molti inizia la seconda parte del “gioco”, dove è la polizia ungherese a dettare le regole. È qui che il limite alla violenza e alla brutalità non si conta più. I pestaggi, gli inseguimenti, gli abusi, le torture. Il “muro” ungherese è fatto di una tripla rete di ferro, alta 3 metri e carica di filo spinato alle estremità. Torrette di controllo, pattugliamenti, rilevatori, droni ed elicotteri la sorvegliano h24 in tutta la sua lunghezza. La caccia all'uomo si svolge con cani pastore tedesco ben addestrati. Numerose sono le testimonianze che raccogliamo dai rifugiati che tornano indietro. Questa, rilasciata il 5 gennaio scorso, può essere da esempio per dare un'idea della bestialità del gioco:
“Ieri notte ho tentato di attraversare la frontiera ungherese vicino alla zona di transito di Horgoš. Eravamo 48 persone, ma 9 si sono spaventate prima di arrivare alla rete e sono tornate indietro. Il resto di noi è riuscito ad attraversare il confine e arrivare al lato ungherese. Stavamo camminando nella foresta a 15km a nord del confine quando abbiamo sentito delle macchine e ci siamo nascosti. 4 macchine della polizia sono arrivate. C'erano circa 15 poliziotti con cani addestrati, rilevatori di calore e pistole. Ci hanno guardato con la luce, ci hanno fatto raggruppare e poi hanno liberato i cani. Poi, senza farci domande, la polizia ha iniziato a picchiarci e prenderci a calci. Dopo hanno perquisito tutti noi, controllando portafogli e zaini, distruggendo i soldi e gli smartphones. I soldi ci sono stati strappati davanti agli occhi, i telefoni distrutti ai nostri piedi. Un poliziotto ha preso le batterie e le SIM card da ogni telefono e le ha distrutte separatamente. Poi ci hanno tolto tutti i vestiti invernali che avevamo: giacche, guanti, cappelli, sciarpe, scarpe e calze, lasciandoci solo in maglietta e pantaloni. Ad ognuno di noi che indossava più di un paio di pantaloni glieli hanno fatti togliere di dosso. Nel frattempo, altre macchine della polizia sono arrivate. I nuovi poliziotti, ufficiali, hanno raggiunto gli altri. Hanno iniziato a picchiare un mio amico con il manganello, colpendolo ripetutamente alla testa. Poi hanno ordinato a tutti noi di sedere in fila, con gambe divaricate, mani sulle ginocchia e testa china, e hanno iniziato a svuotare l'acqua che hanno trovato nei nostri zaini sulle nostre teste e sui nostri vestiti.
Dopo hanno ordinato a un uomo di alzarsi con le mani dietro la schiena. Uno degli ufficiali poliziotto lo ha afferrato per il colletto, l'ha sbattuto per terra e gli ha puntato una pistola alla testa. Quando la vittima ha iniziato a piangere e implorare pietà l'ufficiale ha tolto la pistola mentre un'altro poliziotto ha messo il piede sul collo dell'uomo e lo ha tenuto fermo affinché gli altri lo potessero prendere a calci. Poi hanno rilasciato di nuovo i cani contro di noi. Quando cercavamo di scappare indietro dai cani, trovavamo dall'altro lato la polizia a respingerci in direzione dei cani. Questo si è ripetuto più volte. Allo stesso tempo, alcuni poliziotti stavano bevendo tè nelle loro macchine, osservando e ridendo di noi.
Quando il “gioco” è finito ci hanno fatto entrare nelle macchine e hanno guidato indietro fino al confine serbo. Hanno messo l'aria condizionata al massimo per far abbassare la temperatura. Ci hanno riportato indietro al confine dove ci hanno forzato a leggere ad alta voce una dichiarazione scritta in Urdu (c'erano anche versioni in Pashto e Farsi) che diceva che avevamo attraversato illegalmente la frontiera e che non avevamo subito alcuna violenza verbale o fisica in territorio ungherese. A quelli che non leggevano a voce abbastanza alta sono state gridate minacce in faccia. Durante la lettura, siamo stati registrati dagli ufficiali.
Poi, verso le 8 del mattino, siamo ritornati dentro al confine serbo. Le autorità serbe ci hanno ricevuto e ordinato di andare verso Horgoš, ma noi sapevamo che a Horgoš non c'è nessuna struttura di accoglienza ma solo il campo non ufficiale nella zona di transito, quindi abbiamo deciso di camminare più di 20 chilometri per tornare indietro a Subotica. Solo alcuni di noi avevano ancora addosso i calzini bagnati quindi ci siamo tolti di dosso alcuni dei vestiti rimanenti e li abbiamo arrotolati attorno ai nostri piedi. La temperatura in quel momento era -7 gradi e stava nevicando.”
Quando questi uomini, molto spesso ragazzi, tornano indietro col cuore spezzato dalla frontiera, trovano solo i volontari disposti ad assisterli (e qualche volta anche abitanti locali, che impietositi gli offrono vestiti e un pasto). Bene che sia andata, hanno perso tutto ed hanno bisogno di abiti nuovi ad asciutti, di coperte, di un sacco a pelo, di una tenda dove passare la notte. Ma ancora più spesso tornando indietro brutalmente pestati, feriti. Contusioni, nasi rotti, dita spezzate, dolori intercostali, difficoltà respiratorie. E a Subotica non c'è presidio medico deputato ad assistere i migranti, non un singolo medico che sia qui disposto a prendersi cura di loro. E se non è la polizia a ferirli lo fa il freddo e le terribili condizioni igienico-sanitarie, per cui sempre più spesso si registrano casi di lesioni da congelamento a dita delle mani e dei piedi, che se non curati in tempo possono portare al decesso del tessuto e quindi all'amputazione; e non si contano più i casi di scabbia, e di infinite malattie minori. Quando il caso è grave e urgente, i volontari accompagnano i rifugiati al pronto soccorso locale, dove fino ad oggi i rifugiati sono sempre stati accettati; ma si inizia a registrare una certa reticenza nel farlo. Una direttiva del Ministero della Salute ha ordinato ha tutti gli ospedali di non trattare i rifugiati come normali pazienti, ma di visitarli sempre per ultimi e in edifici separati. È vietato per un rifugiato sostare nella stessa sala di attesa degli altri pazienti.
Quello che sta accadendo alle porte dell'Europa sfora il limite dell'umano. Governi e politici si riempiono la bocca di discorsi sul buon lavoro degli Stati-cuscinetto, di accordi bilaterali, di respingimenti, di controlli rafforzati, di sicurezza, di “accogliamoli a casa loro”. Fomentano la paura dell'immigrato nella popolazione, propongono la riapertura di centri di detenzione, di espulsione. Nel frattempo chi sta scappando da guerre e da persecuzioni, da povertà estrema, chi insegue il sogno di essere libero/a sta morendo nel Mediterraneo, in una tenda sepolta dalla neve in Grecia, nel gelo di una stazione abbandonata in Serbia.
Alle porte della libera e democratica Europa si svolge la più grande tragedia dei nostri tempi, e questa Europa resta a guardare.

Fonte: Communianet.org 

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