La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 15 gennaio 2017

Neoliberalismo autoritario

di Alessandro De Giorgi
Dopo quarant’anni di espansione carceraria incontrastata, il ciclo di riforme penali avviato a metà degli anni 2000 con lo slogan bipartisan di una politica penale “smart” e “basata sull’evidenza” ha prodotto una modesta riduzione della popolazione carceraria statunitense. Sebbene abbiano riguardato quasi esclusivamente quelle componenti della popolazione criminalizzata identificate come nonviolente (e spesso al costo di aggravare le pene per altre categorie di potenziali detenuti), queste riforme attestano il riconoscimento da parte della classe politica statunitense della natura problematica dell’incarcerazione di massa—se non altro rispetto alla sua compatibilità con i precetti neoliberali dell’austerity e della riduzione del deficit.
Nel corso degli ultimi anni, questo momento riformista ha prodotto alcune crepe nella macchina penale americana e nell’ideologia carceraria che ha dominato tutti i livelli di governance negli Stati Uniti – federale, statale e locale – a partire dalla svolta punitiva dei primi anni Settanta. In questo senso, l’ascesa di Donald Trump quale primo presidente dai tempi di Reagan a essere eletto su un’esplicita agenda politica di legge e ordinepotrebbe annunciare la fine prematura dell’attuale stagione di riforme penali. É dunque questo ciò che dovremo attenderci dalla nuova amministrazione?
Sebbene qualsiasi piano dettagliato sulla questione penale (come peraltro su molte altre questioni) sia stato visibilmente assente dalla campagna di Trump, non è difficile intuire il punto di vista del neo-presidente in materia. In tal senso, una lettura molto istruttiva è il libro pubblicato da Trump nel 2000 dal titolo The America We Deserve, un preveggente compendio di proposte politiche per un’ipotetica presidenza Trump. Tra altre cose, in questa pubblicazione Trump elegge James Q. Wilson – uno dei principali sostenitori dell’incarcerazione di massa negli ambienti accademici conservatori – a suo criminologo preferito (pp. 93-94); premonisce che “non appena la presente generazione di maschi adolescenti raggiungerà l’età adulta all’inizio del nuovo secolo, vedremo branchi di lupi vagare per le strade, e non solo nell’inner city” (p. 99); lamenta il fatto che “no, il problema non è che abbiamo troppa gente in galera. È che non abbiamo abbastanza criminali in galera” (p. 102); esalta i successi delle politiche di tolleranza zero, un punto di vista che Trump ha ribadito durante la campagna presidenziale del 2016, manifestando il proprio sostegno alla discriminatoria strategia di polizia dello stop and frisk – cioè la prassi di effettuare fermi, identificazioni e perquisizioni sulla base di pretesti di qualsiasi tipo, con l’obbiettivo di individuare soggetti “pericolosi”; e infine liquida come “ridicole” le spiegazioni sociologiche che riconducono il comportamento criminale a condizioni di “povertà, assenza di opportunità, o maltrattamento durante l’infanzia” (p. 94). Per quanto riguarda invece la pena di morte, una buona fonte di informazione sulle opinioni di Trump è l’inserzione a tutta pagina pubblicata dal tycoon a proprie spese su quattro diverse testate nazionali il 1 maggio 1989, all’indomani di un brutale episodio di stupro ai danni di una giovane jogger a Central Park, New York. Nell’inserzione, significativamente intitolata “CI VUOLE LA PENA DI MORTE! CI VUOLE PIU’ POLIZIA!”, Trump invocava l’esecuzione dei cinque adolescenti, tutti afroamericani e latini minorenni di età compresa tra i 14 e i 16 anni, che erano stati falsamente accusati del crimine. Un punto di vista che Trump ha mantenuto fino al 2014, quando ha protestato rumorosamente contro l’accordolegale con cui la città di New York si impegnava a risarcire i giovani per l’ingiusta condanna e i 40 anni di detenzione complessivamente scontati dal gruppo.
Nel suo insieme la retorica politica di Trump – la continua invocazione di legge e ordine, gli attacchi xenofobi a migranti/criminali e rifugiati/terroristi, l’evocazione di un popolo immaginario tradito da una casta di politici corrotti, il virulento anti-intellettualismo e la promessa di restaurare un’età d’oro fatta di omogeneità culturale, gerarchie razziali, binarismo di genere e obbedienza all’autorità – ricalca chiaramente il paradigma del populismo autoritario descritto da Stuart Hall nel 1979: una forma di potere autocratico che – a differenza del fascismo classico – è pienamente compatibile con le istituzioni rappresentative formali ed è sostenuta da un attivo consenso popolare. Storicamente, l’enfasi sui temi dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale è stata parte integrante delle piattaforme politiche del populismo di destra – dall’ascesa al potere di Margaret Thatcher nel 1979 ai più recenti successi elettorali di Marine Le Pen in Francia, Norbert Hofer in Austria, Viktor Orbán in Ungheria, Geert Wilders in Olanda e Rodrigo Duterte nelle Filippine, solo per fare alcuni nomi. E in effetti sarebbe ragionevole attendersi che l’amministrazione Trump tenterà di capitalizzare politicamente i sentimenti punitivi che ha alimentato durante la campagna presidenziale, avviandosi lungo la strada del populismo punitivo spianata a suo tempo da predecessori del calibro di Richard Nixon e Ronald Reagan.
E tuttavia, vorrei azzardare l’ipotesi che Trump possa non avviare una campagna di indiscriminata espansione penale e carceraria. Dopotutto, il populismo penale è un’impresa alquanto costosa – come evidenzia uno sguardo anche solo superficiale ai dati relativi all’andamento della spesa pubblica per il sistema di giustizia criminale, in continuo aumento a far dalla svolta punitiva degli anni Settanta e arrivata oggi a circa 80 miliardi di dollari l’anno. Qualora Trump decidesse di giocare la carta del populismo punitivo, tale strategia comporterebbe una significativa espansione del settore pubblico – condizione difficilmente realizzabile a meno di un sensibile aumento della spesa pubblica (e dunque delle tasse) o di un sostanziale investimento di risorse pubbliche nei già ipertrofici dipartimenti correzionali dei singoli stati – misure che la base elettorale di Trump molto probabilmente rifiuterebbe. Rispetto all’ipotesi di una possibile privatizzazione del sistema carcerario, i passati esperimenti in tal senso si sono rivelati un’alternativa costosa e tutto sommato inefficiente alla punizione di stato – soprattutto in seguito a una serie di gravi scandali emersi negli anni Ottanta e Novanta intorno all’assenza di sicurezza e alla cattiva gestione delle prigioni private.
Più in generale, mentre l’ascesa populista di Trump si profila come un fenomeno congiunturale, l’adesione delle élite di potere statunitensi ai dogmi politico-economici neoliberali è ormai di natura strutturale. Particolarmente all’indomani della grande recessione del 2007-2008, quei dogmi costituiscono le coordinate strutturali rispetto alle quali qualsiasi impresa politica deve dimostrarsi compatibile. Dopotutto, il famigerato “giuramento a difesa del contribuente” (taxpayer protection pledge) introdotto nel 1986 dal gruppo Americans for Tax Reform—una lobby anti-tasse capeggiata da Grover Norquist, uno dei principali esponenti del movimento di riforma penale iniziato dalla destra con l’obbiettivo di ridurre il costo del sistema carcerario—che impegna tutti i rappresentantielettivi a opporsi sempre e comunque a qualsiasi incremento della pressione fiscale, è stato sottoscritto da ben 49 senatori (su 100) e 218 deputati (su 435) del Congresso, oltre che da 13 governatori in carica e da circa 1000 legislatori delle assemblee statali. In definitiva, l’austerity neoliberale potrebbe ben rappresentare il principale ostacolo alle fantasie autoritarie di Trump, se non altro rispetto alle politiche penali.
Questo non significa affatto che il peculiare mix di retorica autoritaria e politiche neoliberali che l’amministrazione Trump sembra destinata a porre in atto non avrà un effetto dannoso e profondo sul sistema penale e carcerario statunitense. Al livello dei singoli stati, dove si elabora la maggior parte delle politiche criminali, è probabile che l’attuale retorica riformista continui nella misura in cui può essere declinata come parte di una più ampia agenda orientata a contenere i costi piuttosto che ad estendere i diritti. Qui possiamo attenderci una timida prosecuzione di marginali riforme penali mirate a ridurre il numero dei detenuti per reati minori (soprattutto quelli relativi alle droghe), magari in concomitanza con un inasprimento delle sanzioni penali per reati più gravi.
In tal senso, è probabile che le piattaforme di riforma penale proposte dalla destra repubblicana (per esempio, l’iniziativa denominata Right on Crime) monopolizzeranno il dibattito sulla questione carceraria, restringendo da un parte ulteriormente i margini per qualsiasi reale progetto di decarcerazione per gli autori di reati di strada, ma al contempo introducendo tutele e immunità per i crimini dei potenti – depenalizzando una serie di reati finanziari eufemisticamente ridefiniti come “infrazioni regolamentari”, o allentando le norme sulla responsabilità oggettiva per le imprese. Inoltre è probabile che assisteremo a una forte accelerazione del processo di privatizzazione di ampi settori del controllo penale extracarcerario – come gli istituti della parole e della probation, i sistemi di sorveglianza elettronica, i programmi di reinserimento post-carcerario, i centri di trattamento delle tossicodipendenze e i programmi di assistenza psichiatrica – conl’effetto di rendere porzioni sempre ampie del costo di tali “servizi” a carico dei rispettivi “clienti”.
Infine, l’odiosa retorica politica di Trump, che ha attinto – e continuerà ad attingere – a piene mani dal discorso razzialmente codificato della paura della criminalità di strada nella metropoli americana, avrà effetti profondi e potenzialmente di lungo termine sul modo stesso in cui la questione penale viene immaginata, dibattuta e infine amministrata nelle corti di giustizia, nelle prigioni o per strada. Magari non si tratterà dello spauracchio razzista dei “super-predatori” del ghetto evocata negli anni Novanta da Bill Clinton, ma è probabile che una qualche versione di quell’immaginario razzista, in grado di compiacere la base suprematista bianca di Trump, guadagnerà rinnovato vigore nel dibattito pubblico. Indipendentemente da quante nuove prigioni saranno costruite o da quali nuove misure penali restrittive saranno approvate, a quell’immaginario si ispireranno procuratori e giudici nell’applicare la legge, e la polizia nel pattugliare le strade. Le conseguenze di tutto questo non possono essere sottovalutate, soprattutto in un periodo in cui la brutalità della polizia e le profonde disuguaglianze razziali nel sistema penale statunitense sono sotto gli occhi di tutti.
Come sostiene John B. Judis nel suo recente libro The Populist Explosion (2016), a differenza dei populismi di sinistra, i quali si basano su una contrapposizione binaria tra popolo ed élite del potere, i populismi di destra “si ergono a paladini del popolo nei confronti di una classe dirigente che accusano di favorire un terzo gruppo sociale […]. Il populismo di destra ha un andamento triadico: guarda in alto ma anche in basso, verso un gruppo di outsiders” (p. 15). In altri termini, il populismo autoritario si riproduce mediante la continua produzione di “altri” immeritevoli contro i quali mobilitare i cittadini comuni. Oggi l’immagine più efficace dell’outsider immeritevole e tuttavia favorito dalle autorità a spese dei cittadini rispettosi della legge è senz’altro quella del/la migrante irregolare, ed è prevedibile che Trump si affretterà ad allinearsi ai suoi colleghi europei nella crociata globale contro i rifugiati provenienti da paesi “a rischio terrorismo”, contro le comunità islamiche occidentali e per la deportazione del maggior numero possibile di “criminali immigrati”. Sebbene sia improbabile che l’amministrazione Trump sia in grado di deportare gli 11 milioni di immigrati senza documenti che si stima risiedano negli Stati Uniti, i raid sui luoghi di lavoro, le detenzioni e le deportazioni aumenteranno sensibilmente, gettando le comunità immigrate in una condizione di paura e insicurezza diffusa: dopotutto, l’infrastruttura poliziesca per la deportazione di massa è già stata efficacemente predisposta da Obama, la cui amministrazione ha effettuato il maggior numero di deportazioni di migranti irregolari nella storia degli Stati Uniti.
Nella misura in cui la questione-immigrazione può essere declinata nel linguaggio di un panico morale sulla sicurezza al confine, sulla criminalità immigrata e sul terrorismo globale, il terreno del controllo dell’immigrazione sembra rappresentare il contesto nel quale assisteremo al dispiegarsi dell’autoritarismo di Trump nella sua forma più autentica. In base alle prime dichiarazioni rilasciate dai membri della nuova amministrazione, la politica sull’immigrazione sarà una delle prime questioni su cui il neopresidente metterà le mani, se non altro per guadagnare punti e accumulare capitale politico presso i suoi sostenitori di ala Alt-Right. Il suo approccio alla questione penale, come già detto, sarà probabilmente meno diretto, sebbene non per questo meno catastrofico. Mentre attendiamo con ansia che il prossimo tweet presidenziale sveli il futuro della politica criminale nella più grande democrazia carceraria del mondo, dobbiamo prepararci a lottare a fianco dei settori maggiormente vulnerabili e oppressi della popolazione, contro il giano bifronte del populismo autoritario e dell’austerity neoliberale.

La versione originale dell’articolo è stata pubblicata sulla rivista Social Justice
Traduzione a cura dell’autore
Fonte: commonware.org 

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