La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 15 gennaio 2017

La recente giurisprudenza in materia di lavoro e i salari

di Sergio Farris
Due pronunciamenti giurisprudenziali, emessi in successione a distanza di breve tempo dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 25201 del sette dicembre 2016) e dalla Corte Costituzionale (dichiarazione di inammissibilità del referendum sull'art. 18 dell'undici gennaio 2017) indicano la definitiva affermazione nel paese di una temperie ideologico-culturale basata sulla prevalenza della competitività d'impresa sul diritto posto a tutela del lavoro. Si pretende che la disciplina in azienda perseguita a mezzo 'minaccia di licenziamento', adeguatamente liberalizzato, assurga al rango di elemento chiave (vedremo come) per il successo economico del sistema-paese.
La Corte di Cassazione ha sancito la legittimità del licenziamento individuale per mere ragioni di profitto imprenditoriale.
La Corte Costituzionale ha negato l'ammissibilità del referendum promosso dalla CGIL che mirava al ripristino integrale dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori praticamente reso sterile dal 'jobs act', una decisione nella quale ha maggiormente influito, come opportunamente osservato da Giovanni Maria Flick, la valutazione politica su quella giuridica (Huffington post, 13/01/2017).
Un grande aiuto al potere, che pare arroccato nel suo palazzo e che punta, a dispetto del segnale avuto il quattro dicembre scorso, al consolidamento dell'assetto socioeconomico del quale il 'renzismo' è stato protagonista e, insieme, vassallo.
E' probabile che, ora, il governo Gentiloni interverrà sul piano normativo per evitare del tutto i restanti due quesiti referendari in materia di lavoro o, qualora essi dovessero venire indetti, per rendere più incerto il raggiungimento del quorum necessario per la loro validità.
Così, la legisaltura potrà proseguire senza rilevanti scosse fino alla sua naturale scadenza, cercando, magari grazie a un ritorno dell'indifferenza generale sulla quale l'establishment potrebbe fare affidamento, di sopire il vasto movimento di indignazione e delusione che ha fatto capolino in occasione del referendum costituzionale.
Sul piano dei rapporti di lavoro (è questa la conseguenza traibile dal tenore delle suddette decisioni giurisprudenziali), essendo ormai le retribuzioni del lavoro dipendente pacificamente considerate alla stregua di un mero fattore di costo che inciderebbe sulla competitività d'impresa, si dovrà sistematicamente scongiure l'eventualità di aumenti in termini reali.
Come osservato dagli economisti Nicola Acocella e Riccardo Leoni, (Repubblica.it, 10 gen 2017 ) trova così compimento una concezione di diritto del lavoro subordinata alla “teoria neoclassica mainstream, secondo cui la concorrenza tra occupati e disoccupati abbassa il salario, da cui conseguirebbe - secondo i dettami di quella teoria - una riduzione nell'uso del capitale tecnologico e quindi un aumento dell'occupazione”. Una sorta di legge ferrea di funzionamento del mercato del lavoro, che istituzionaliza, anestetizzando qualsiasi movimento rivendicativo, la moderazione salariale.
Nonostante la recente crisi economica, nonostante il significato ad essa attribuibile e nonostante la deludente risposta ad essa fornita, applicata appunto sulla base del paradigma socioeconomico convenzionale, si resta a quest'ultimo vincolati e subordianti. La svalutazione interna (o competitività deflazionaria) resta al centro delle ricette che, secondo l'orientamento prevalente, dovrebbero tuttora traghettarci oltre la crisi.
Un modello di sviluppo 'wage-led' o trainato dai salari non deve avere, nonostante, come detto, le cause e gli strascichi della lunga crisi, trovare né una flebile applicazione né, viene da sospettare, diritto di esistenza. Eppure, l'economia nazionale dipende prevalentemente dalla domanda interna, per cui il contributo alla crescita dato dal valore delle esportazioni (che, con il contenimento salariale si spera di incentivare) non è in grado di compensare il calo della domanda interna che risulta da una diminuita quota dei salari sul reddito complessivo.
Eppure, oltre all'evidenza empirica data dai crescenti tassi di povertà e di disuguaglianza nel paese, sono numerose, sul piano teorico, le obiezioni che si possono muovere al modello di 'sviluppo' sotteso alla 'svalutazione interna', indirettamente riconosciuto come ormai inscalfibile dalle suddette pronunce emesse dai massimi organi della giurisprudenza di legittimità.
Al fondo vi è, come anticipato, una sorta di sacertà del cosiddetto “consenso mainstream” in economia. Come descritto da Emiliano Brancaccio nel volume “AntiBlanchard” le conclusioni del prima richiamato modello possono essere compendiate nella non indispensabilità delle politiche economiche di espansione della domanda, perchè non sarebbe possibile condurre l'economia al di là del suo (presunto) equilibrio naturale senza esercitarvi pressioni inflazionistiche e, inoltre, essendo il salario reale dei lavoratori determinato esclusivamente dal margine di profitto deciso dalle imprese, una compatibile moderazione salariale deve essere d'obbligo, pena, ancora, un'immancabile impennata dell'inflazione.
La parola d'ordine deve essere 'salvaguardia della redditività d'impresa', nella certezza (o meglio nella speranza) che, in seguito, qualcosa sgoccioli verso il basso. Il benessere del paese dipenderebbe esclusivamente dalla redditività d'impresa, e la condicio sine qua non affinchè ciò avvenga è la svalutazione interna.
Come spiegano Torsten Müller, Thorsten Schulten and Sepp Zuckerstätter (Wages And Economic Performance – Three Fallacies Of Internal Devaluation, Social Europe, 24/11/2016), l'obiettivo della strategia di 'svalutazione interna' è migliorare la competitività di prezzo di una paese mediante l'abbassamento dei prezzi dei beni prodotti e dei servizi forniti rispetto ai paesi concorrenti.
Tuttavia, questo approccio è comunque difettoso sotto vari aspetti: anzitutto, diversamente da quanto generalmente messo in risalto, non è solo il costo del lavoro, ma anche quello del capitale, a determinare i costi di produzione di un'impresa. E poi, la competitività di prezzo è altresì influenzata dal comportamento dell'impresa sotto l'aspetto del margine di profitto, per cui non vi è un legame diretto fra costo del lavoro e fissazione del prezzo. Esperienze recenti, come quella spagnola, testimoniano che la svalutazione del costo del lavoro si riflette solo parzialmente sui prezzi, andando piuttosto, il che va opportunamente evidenziato, ad incremento dei profitti.
Bisogna quindi chiedersi quanto in un contesto legislativo nazionale come quello attuale, caratterizzato da un'evidente asimmetria nei rapporti giuridico-contrattuali fra capitale e lavoro ormai suffragata dalla massima giurisprudenza, vi sia di “oggettivo”, ovvero dato da un ineluttabile ordine “positivistico” (la questione famosa delle compatibilità all'interno del sistema capitalistico) e quanto piuttosto vi sia di scaturente da una carenza di ordine democratico, con il relegamento fuori dalla rappresentanza politica effettiva degli interessi di cui sono portatori i milioni di lavoratori del paese.
Di fatto, abbiamo oggi a che fare con un potere che si trincera dietro un dogmatismo (dato da una valutazione ottimistica degli effetti prodotti dalla globalizzazione) che mostra evidenti segni di cedimento e genera reazioni 'populistiche', seppure queste ultime siano ricondicibili a pulsioni diverse.
L'establishment che fa capo all'attuale maggioranza parlamentare non può, nelle condizioni correnti, non guardare con una certa preoccupazione a eventuali consultazioni popolari, eppure, essendo com'è, legato agli ambienti finanziari e confindustriali, è incapace, oltrechè di procedere a un qualsivoglia 'esame di coscienza', di elaborare un progetto politico che torni a rivolgersi ai ceti popolari.
Sono trascorsi cento anni, ma la domanda è ancora: "che fare?"

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